venerdì 2 marzo 2018

PARABOLA DEI VIGNAIOLI OMICIDI...



33 Ascoltate un’altra parabola: C’era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre, poi l’affidò a dei vignaioli e se ne andò. 34 Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto. 35 Ma quei vignaioli presero i servi e uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono. 36 Di nuovo mandò altri servi più numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo. 37 Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di mio figlio! 38 Ma quei vignaioli, visto il figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità. 39 E, presolo, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero. 40 Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli? ”. 41 Gli rispondono: “Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. 42 E Gesù disse loro: “Non avete mai letto nelle Scritture:
La pietra che i costruttori hanno scartata
è diventata testata d’angolo;
dal Signore è stato fatto questo
ed è mirabile agli occhi nostri?
43 Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare. 44 Chi cadrà sopra questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà”. 45 Udite queste parabole, i sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlava di loro 46 e cercavano di catturarlo; ma avevano paura della folla che lo considerava un profeta ( Mt 21,33-46 ).

La parabola dei vignaioli omicidi è riportata dai vangeli di Matteo, Marco e Luca, in una maniera particolarmente omogenea; di fatto non si riscontrano sostanziali differenze nei tre evangelisti, ma c’è soltanto qualche particolare che differisce e che ci sembra opportuno evidenziare. Il contesto prossimo della parabola è identico per tutti e tre: dopo l’ingresso in Gerusalemme e l’episodio dei venditori cacciati dal Tempio, Gesù racconta questa parabola rivolta alla classe dirigente di Gerusalemme, alla fine della quale l’evangelista Matteo – esattamente come fanno anche Marco e Luca - sottolinea che i sommi sacerdoti e gli scribi capirono bene che questa parabola era stata detta proprio per loro.
L’evangelista Matteo, a differenza di Marco e di Luca, premette alla parabola dei vignaioli un’altra parabola, quella dei due figli, dove l’umanità è presentata attraverso le figure simboliche di figli che ricevono dal loro padre una disposizione, ma reagiscono in due modi diversi: uno ubbidisce soltanto con le parole ed è, nell’immediato contesto, una cifra che allude alla classe dirigente di Israele; il secondo, invece, ubbidisce nascostamente, senza professare la propria ubbidienza e senza preoccuparsi di dare a suo padre, né ad altri, un’immagine di sé di figlio modello. Dietro di lui si intravedono tutti coloro che, sebbene disprezzati dalle classi ragguardevoli degli scribi e dei farisei, come i samaritani o i pubblicani, non sembrano, agli occhi degli uomini, essere vicini a Dio, mentre nella sostanza delle cose e nell’esperienza stessa di Gesù, risultano spesso migliori di quanto non lo siano gli “specialisti” del sacro. Si svelano infatti più capaci di onestà e di pentimento, più attenti alla Parola del Regno, più fedeli al Messia, nella sua vita e nella sua morte. Tale parabola introduce dunque, significativamente, in Matteo quella dei vignaioli omicidi, dove la classe dirigente di Gerusalemme è rappresentata nell’atto di sostituirsi al padrone della vigna, ubbidendo solo apparentemente al suo dovere di amministrare fedelmente il popolo di Dio. Questa parabola è suscettibile di due livelli principali di interpretazione.

Un primo livello è senz’altro quello cristologico. Non c’è dubbio che Cristo stia parlando di Se stesso e del rifiuto che sta per subire da parte dei sommi sacerdoti di Israele. Sotto questo aspetto, Matteo e Marco appaiono più espliciti di Luca, in quanto utilizzano le stesse immagini che si trovano all’inizio del capitolo 5 del libro del profeta Isaia, dove Israele è rappresentato appunto da una vigna: “C’era un padrone che piantò una vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre…” (Is 5,1-2).
Si tratta delle medesime immagini che Isaia utilizza per descrivere Israele come oggetto di sollecitudine da parte di Dio. Una sollecitudine ricambiata con una produzione di frutti amari, cioè ingiustizia e grida di oppressi. Luca dice semplicemente che un uomo piantò una vigna e non cita i particolari delle sue cure, distaccandosi così dall’immagine di Isaia. In questo modo, la parabola acquista un significato più universale, in cui possiamo leggere non soltanto il destino di Israele ma anche il destino della Chiesa, dinanzi al giudizio della croce. Anche Matteo ci permette di individuare il destino della Chiesa attraverso le immagini della parabola, ma in forza di altri elementi, e soprattutto per la menzione del duplice invio dei servi. Al v. 36 Matteo dice che dopo aver inviato dei servi, i quali vengono bastonati, maltrattati, lapidati, di nuovo il padrone mandò altri servi più numerosi dei primi. In questo secondo invio, menzionato soltanto da Matteo, cogliamo l’invio dei missionari del vangelo, successori dei profeti dell’AT (che quindi rappresentano il primo invio) come seconda e ultima possibilità per Israele e per il mondo di salvarsi. Qui veniamo a trovarci nel cuore del secondo livello di interpretazione, che è quello ecclesiale, dove la condizione della Chiesa, vigna affidata alle sue guide, dinanzi ai servi mandati da Dio, replica talvolta la stessa esperienza di Israele. I versetti chiave ci danno la possibilità di ampliare ulteriormente questa prospettiva. Analizziamo la parte finale del v. 33: “…l’affidò a dei vignaioli e se ne andò” (Mt 21,33). E’ l’atteggiamento perenne di Dio, non soltanto nei confronti di Israele ma anche nei confronti della Chiesa: Egli non guida direttamente il suo popolo, ma lo fa attraverso un atto di affidamento. Non entra in relazione diretta con nessuno, ama piuttosto lasciarsi intravedere dietro i suoi mediatori. L’incontro personale con Lui si verifica infatti dopo il passaggio dei suoi servi. Nel costrutto narrativo della parabola i vignaioli, ovvero i pastori, le guide, i mediatori della comunità, nella persona dei quali Israele doveva incontrare il suo Dio, hanno tradito questa missione e hanno nascosto Dio invece di rivelarlo. Alla fine si sono sostituiti al Figlio. Come risultato sono stati estromessi dal loro ufficio. Trasferendoci sul piano ecclesiale, dobbiamo affermare che anche nella vita della Chiesa questo rischio potrebbe ripresentarsi. Nel v. 34 si coglie una precisa attitudine e una precisa aspettativa da parte di Dio: “Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto” (Mt 21,34). C’è un ritorno che Dio si attende dalla sua Chiesa, sia a livello comunitario sia a livello personale; Dio si attende cioè dei frutti di santità, come risultato dei doni di grazia con cui la comunità cristiana è continuamente arricchita. Proprio questo è il senso della sollecitudine del padrone, che si esprime nei servi ripetutamente mandati, oltre che dei vignaioli come custodi a cui questa vigna viene affidata e consegnata, perché la lavorino e la facciano fruttificare. E’ altrettanto chiaro che i frutti di santità no n possono ritornare a Dio per via di una attività spontanea della vigna; e anche questa è una verità perenne, non soltanto della esperienza di Israele, ma anche della vita della Chiesa. Nessuno, tanto i singoli quanto le comunità, può portare frutti di santità se non è lavorato; nessuna comunità cristiana può sviluppare i doni di Dio, se non lavora su se stessa come si fa con un terreno coltivato, anche se le vengono elargiti doni su doni nel Battesimo, negli altri Sacramenti e nella Parola. In tutto il ventaglio complessivo dell’attività della Chiesa, nessuna comunità cristiana può fiorire se non è lavorata. L’immagine della vigna affidata a dei vignaioli intende sottolineare infatti questa perenne realtà, affinché nessuno si illuda che sia sufficiente ricevere soggettivamente la Grazia di Dio per portare dei frutti di santità. Certamente non basta. Se ciò bastasse, Gesù non avrebbe parlato di una vigna affidata a dei vignaioli, ma semplicemente di una vigna responsabile di ciò che produce da se stessa. La comunità cristiana non è una vigna che produce tutto da sé. Occorre piuttosto lasciarsi lavorare all’interno della vita della Chiesa, con la pazienza del contadino che profonde tutta la sua sollecitudine sulle piante e poi aspetta che portino frutto. La comunità cristiana ha bisogno di essere lavorata affinché la linfa vitale ricevuta da Dio, possa concretizzarsi nelle virtù della santità, in cui consistono quei frutti che Dio si aspetta di ricevere dai vignaioli. Abbiamo detto che soltanto Matteo parla di un duplice invio dei servi, e questo fatto sta a indicare i due grandi gesti compiuti per radunare il popolo e per condurlo a Sé: la profezia dell’AT e l’invio degli Apostoli e dei loro successori. Il fatto che poi al v. 37 si parli dell’invio del figlio non deve trarci in inganno, facendoci pensare che il figlio sia cronologicamente inviato dopo la seconda serie; o meglio, lo è solo sul piano narrativo, ma non su quello della teologia. L’espressione del v. 37: “Da ultimo mandò loro il proprio figlio…”, nell’economia generale della parabola, non va intesa in senso strettamente cronologico. Il figlio è l’ultimo ad essere inviato nel senso qualitativo del termine, vale a dire, nel senso che dopo di Lui non ci sono più altre possibilità di salvezza. In questo senso, e solo in questo senso, il figlio è l’ultimo inviato. In realtà sarà Lui stesso a inviare i nuovi pastori per il nuovo popolo di Dio, ma la loro missione non sarà altro che il prolungamento della sua. Egli invierà i suoi discepoli, dopo essere stato Lui stesso inviato dal Padre. Ma dal punto di vista teologico Egli rimane comunque “l’ultimo” o, come più esattamente si esprime l’Apocalisse, “il primo e l’ultimo” (1,17). Nessuno dei pastori inviati da Lui può dirsi che sia “successivo”, anche se cronologicamente “viene dopo”. Cristo è teologicamente l’ultimo inviato, in quanto dopo di Lui, ossia indipendentemente da Lui, non c’è nessun’altra possibilità di incontrare Dio. Chi sciupa l’incontro con Cristo, non avrà “un altro” mediatore, diverso da Lui, da poter attendere. Questa parabola si conclude poi con l’espulsione dei vignaioli (cioè della classe dirigente) dalla sua posizione e il passaggio dell’affidamento della vigna (cioè il popolo di Dio) ad altri. Anche qui è in gioco il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento, ma è anche una descrizione del giudizio di Dio che raggiungerà, all’interno stesso della vita della Chiesa, tutti coloro i quali, soprattutto pastori, non avranno avuto verso la Chiesa di Dio quella sollecitudine che Dio si aspetta, mutando il proprio ministero in un posto di comando, passando da amministratori a padroni, e operando in tal modo una sostituzione di Cristo con se stessi. Il Figlio viene insomma buttato fuori dalla vigna che gli appartiene. In questa linea ci sembra di potere leggere la prospettiva ecclesiale della parabola. Cosa significa avere rifiutato l’ultimo inviato? A livello comunitario può significare forse la costituzione di una pastorale senza Cristo; forse la riduzione dell’attività della Chiesa ad una progettazione assistenziale, abbassando il livello delle mete dall’esperienza proiettata verso il Regno di Dio al semplice sociologismo assistenziale. Buttare fuori il Figlio dalla vigna, per la comunità cristiana può significare impiantare una pastorale senza di Lui, sostituirsi a Lui progettando a tavolino la “propria” pastorale e non nel discernimento comunitario o prescindendo dalla comunione ecclesiale. Anche a livello individuale è possibile respingere fuori dalla vigna l’ultimo inviato, e qui le manifestazioni potrebbero essere molte, come la ricerca di un ministero per innalzare se stessi, afferrando l’eredità al posto dell’erede appropriandosi dei doni di Dio, con tutte le conseguenze di protagonismo che ciò comporta; quest’ultimo inviato, dopo essere stato ucciso in quel lontano Venerdì Santo, non può più morire fisicamente, ma può essere ucciso nei nostri cuori in molte maniere sofisticate e sottili, ed è appunto dietro queste maniere che si nasconde una nuova e diversa crocifissione del Figlio di Dio, che durerà finché dura la storia. La parabola ci dà anche una indicazione per non cadere in questa trappola e ce la dà in un confronto fra le due figure: dei vignaioli a cui è stata affidata la vigna e i servi che vengono mandati per ritirare il raccolto. Sono due figure contrapposte, che Matteo pone in parallelo alle figure dei due figli: “Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse : Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò” ( M t 21,28-30). Il confronto tra i vignaioli e i servi fa emergere una caratteristica distintiva, che è l’unica che dobbiamo temere: i servi inviati a ritirare il raccolto eseguono il comando del padrone senza cercare un utile personale. Di questi servi si dice che vengono mandati a ritirare il raccolto, ma non si menziona di essi alcun gesto compiuto per conseguire un obiettivo personale. Inoltre, questi servi pagano di persona il loro servizio: uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro lo lapidarono. La cattiva sorte del primo non porta gli altri a defilarsi o a disertare; essi portano a compimento la loro missione fino alla morte. Il distacco totale dalla ricerca di obiettivi personali è l’unico presupposto per non tornare a crocifiggere nel segreto delle nostre coscienze il Figlio di Dio, l’ultimo inviato, fuori del quale non vi è salvezza. Conclusioni Nella sequenza degli inviati, che si conclude con la missione del Figlio, si manifesta anche la pazienza e la misericordia di Dio nei confronti del popolo; un popolo che lapida coloro che gli sono mandati, che non ascolta i messaggeri di Dio e li respinge, eppure, questa chiusura del popolo non produce in Dio una battuta di arresto. Il Signore continua a mandare abbondantemente i suoi servi, e li invia come un atto di fedeltà a Se stesso, non in virtù dei meriti dei destinatari, i quali si rendono immeritevoli, perseguitando quelli che vengono mandati. E da ultimo viene mandato il suo Figlio. Qui si coglie la differenza tra quest’ultimo inviato e tutti coloro che precedono; tutti i precedenti inviati, vengono chiamati servi, l’ultimo è chiamato figlio, con l’aggiunta dell’aggettivo mio. Così la pregnanza dell’identità di Colui che viene mandato come ultimo, si coglie nel tono stesso delle parole del padre. Ma occorre notare che l’inviato che viene chiamato “figlio”, a differenza di quelli che vengono chiamati “servi”, è presentato anche come l’ultimo: nel momento in cui viene cacciato fuori dalla vigna e ucciso, non c’è più alcuna ulteriore possibilità per i vignaioli. L’uccisione dei “servi” non ha causato l’espulsione dei vignaioli dai possedimenti del padrone, ma quella del figlio, sì. L’ultima parola pronunciata da Dio è insomma l’invio del Figlio; dall’incontro con Lui e dalla posizione che si prende nei suoi confronti, dipende il destino definitivo di ogni essere umano. Dall’altro versante, cogliamo anche la figura della Chiesa: non soltanto Israele è rappresentato nella vigna; anche la Chiesa è destinataria di una sequenza di uomini e di donne, servi di Dio, autentici testimoni del Cristo. Anch’essi vengono mandati abbondantemente e, alla luce del destino di Israele a cui viene tolto il regno, la Chiesa viene avvertita del fatto che se Dio ha giudicato così duramente il popolo eletto che ha rifiutato il Cristo, a maggior ragione avrà un giudizio severo da pronunciare sulla comunità cristiana, qualora essa non accoglierà l’ultimo inviato nella persona dei suoi testimoni. E come Israele si è mutato da amministratore in padrone, e perciò è stato esautorato da Dio, così anche la comunità cristiana, qualora si mutasse da mediatrice in padrona, sostituendosi al padrone della vigna, incorrerebbe nello stesso esito della storia di Israele (cfr. Rm 11,21). Questa parabola ha, anche, una sua particolarità; si conclude con una domanda rivolta agli ascoltatori: “Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei vignaioli? Gli rispondono: Farà morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli”. Questo giudizio, che gli ascoltatori pronunciano su se stessi senza saperlo, viene confermato da Cristo: “Io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”. I giudei responsabili della condanna di Cristo dimostrano così di essere consapevoli e capaci di un giudizio giusto sulle azioni altrui, riservandosi però di applicare alle proprie una misura e un criterio diversi.

Tratto dal sito https://cristomaestro.it

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