33
Ascoltate un’altra parabola: C’era un padrone che piantò una
vigna e la circondò con una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì
una torre, poi l’affidò a dei vignaioli e se ne andò. 34
Quando fu il tempo dei frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli
a ritirare il raccolto. 35 Ma quei vignaioli
presero i servi e uno lo bastonarono, l’altro lo uccisero, l’altro
lo lapidarono. 36 Di nuovo mandò altri servi più
numerosi dei primi, ma quelli si comportarono nello stesso modo. 37
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto di
mio figlio! 38 Ma quei vignaioli, visto il
figlio, dissero tra sé: Costui è l’erede; venite, uccidiamolo, e
avremo noi l’eredità. 39 E, presolo, lo
cacciarono fuori della vigna e l’uccisero. 40
Quando dunque verrà il padrone della vigna che farà a quei
vignaioli? ”. 41 Gli rispondono: “Farà
morire miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli
che gli consegneranno i frutti a suo tempo”. 42
E Gesù disse loro: “Non avete mai letto nelle Scritture:
La
pietra che i costruttori hanno scartata
è
diventata testata d’angolo;
dal
Signore è stato fatto questo
ed
è mirabile agli occhi nostri?
43
Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un
popolo che lo farà fruttificare. 44
Chi cadrà sopra questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada
su qualcuno, lo stritolerà”. 45
Udite queste parabole, i sommi sacerdoti e i farisei capirono che
parlava di loro 46 e cercavano di
catturarlo; ma avevano paura della folla che lo considerava un
profeta ( Mt 21,33-46 ).
La
parabola dei vignaioli omicidi è riportata dai vangeli di Matteo,
Marco e Luca, in una maniera particolarmente omogenea; di fatto non
si riscontrano sostanziali differenze nei tre evangelisti, ma c’è
soltanto qualche particolare che differisce e che ci sembra opportuno
evidenziare. Il contesto prossimo della parabola è identico per
tutti e tre: dopo l’ingresso in Gerusalemme e l’episodio dei
venditori cacciati dal Tempio, Gesù racconta questa parabola rivolta
alla classe dirigente di Gerusalemme, alla fine della quale
l’evangelista Matteo – esattamente come fanno anche Marco e Luca
- sottolinea che i sommi sacerdoti e gli scribi capirono bene che
questa parabola era stata detta proprio per loro.
L’evangelista
Matteo, a differenza di Marco e di Luca, premette alla parabola dei
vignaioli un’altra parabola, quella dei due figli, dove l’umanità
è presentata attraverso le figure simboliche di figli che ricevono
dal loro padre una disposizione, ma reagiscono in due modi diversi:
uno ubbidisce soltanto con le parole ed è, nell’immediato
contesto, una cifra che allude alla classe dirigente di Israele; il
secondo, invece, ubbidisce nascostamente, senza professare la propria
ubbidienza e senza preoccuparsi di dare a suo padre, né ad altri,
un’immagine di sé di figlio modello. Dietro di lui si intravedono
tutti coloro che, sebbene disprezzati dalle classi ragguardevoli
degli scribi e dei farisei, come i samaritani o i pubblicani, non
sembrano, agli occhi degli uomini, essere vicini a Dio, mentre nella
sostanza delle cose e nell’esperienza stessa di Gesù, risultano
spesso migliori di quanto non lo siano gli “specialisti” del
sacro. Si svelano infatti più capaci di onestà e di pentimento, più
attenti alla Parola del Regno, più fedeli al Messia, nella sua vita
e nella sua morte. Tale parabola introduce dunque,
significativamente, in Matteo quella dei vignaioli omicidi, dove la
classe dirigente di Gerusalemme è rappresentata nell’atto di
sostituirsi al padrone della vigna, ubbidendo solo apparentemente al
suo dovere di amministrare fedelmente il popolo di Dio. Questa
parabola è suscettibile di due livelli principali di
interpretazione.
Un
primo livello è senz’altro quello cristologico. Non c’è dubbio
che Cristo stia parlando di Se stesso e del rifiuto che sta per
subire da parte dei sommi sacerdoti di Israele. Sotto questo aspetto,
Matteo e Marco appaiono più espliciti di Luca, in quanto utilizzano
le stesse immagini che si trovano all’inizio del capitolo 5 del
libro del profeta Isaia, dove Israele è rappresentato appunto da una
vigna: “C’era un padrone che piantò una vigna e la circondò con
una siepe, vi scavò un frantoio, vi costruì una torre…” (Is
5,1-2).
Si
tratta delle medesime immagini che Isaia utilizza per descrivere
Israele come oggetto di sollecitudine da parte di Dio. Una
sollecitudine ricambiata con una produzione di frutti amari, cioè
ingiustizia e grida di oppressi. Luca dice semplicemente che un uomo
piantò una vigna e non cita i particolari delle sue cure,
distaccandosi così dall’immagine di Isaia. In questo modo, la
parabola acquista un significato più universale, in cui possiamo
leggere non soltanto il destino di Israele ma anche il destino della
Chiesa, dinanzi al giudizio della croce. Anche Matteo ci permette di
individuare il destino della Chiesa attraverso le immagini della
parabola, ma in forza di altri elementi, e soprattutto per la
menzione del duplice invio dei servi. Al v. 36 Matteo dice che dopo
aver inviato dei servi, i quali vengono bastonati, maltrattati,
lapidati, di nuovo il padrone mandò altri servi più numerosi dei
primi. In questo secondo invio, menzionato soltanto da Matteo,
cogliamo l’invio dei missionari del vangelo, successori dei profeti
dell’AT (che quindi rappresentano il primo invio) come seconda e
ultima possibilità per Israele e per il mondo di salvarsi. Qui
veniamo a trovarci nel cuore del secondo livello di interpretazione,
che è quello ecclesiale, dove la condizione della Chiesa, vigna
affidata alle sue guide, dinanzi ai servi mandati da Dio, replica
talvolta la stessa esperienza di Israele. I versetti chiave ci danno
la possibilità di ampliare ulteriormente questa prospettiva.
Analizziamo la parte finale del v. 33: “…l’affidò a dei
vignaioli e se ne andò” (Mt 21,33). E’ l’atteggiamento perenne
di Dio, non soltanto nei confronti di Israele ma anche nei confronti
della Chiesa: Egli non guida direttamente il suo popolo, ma lo fa
attraverso un atto di affidamento. Non entra in relazione diretta con
nessuno, ama piuttosto lasciarsi intravedere dietro i suoi mediatori.
L’incontro personale con Lui si verifica infatti dopo il passaggio
dei suoi servi. Nel costrutto narrativo della parabola i vignaioli,
ovvero i pastori, le guide, i mediatori della comunità, nella
persona dei quali Israele doveva incontrare il suo Dio, hanno tradito
questa missione e hanno nascosto Dio invece di rivelarlo. Alla fine
si sono sostituiti al Figlio. Come risultato sono stati estromessi
dal loro ufficio. Trasferendoci sul piano ecclesiale, dobbiamo
affermare che anche nella vita della Chiesa questo rischio potrebbe
ripresentarsi. Nel v. 34 si coglie una precisa attitudine e una
precisa aspettativa da parte di Dio: “Quando fu il tempo dei
frutti, mandò i suoi servi da quei vignaioli a ritirare il raccolto”
(Mt 21,34). C’è un ritorno che Dio si attende dalla sua Chiesa,
sia a livello comunitario sia a livello personale; Dio si attende
cioè dei frutti di santità, come risultato dei doni di grazia con
cui la comunità cristiana è continuamente arricchita. Proprio
questo è il senso della sollecitudine del padrone, che si esprime
nei servi ripetutamente mandati, oltre che dei vignaioli come custodi
a cui questa vigna viene affidata e consegnata, perché la lavorino e
la facciano fruttificare. E’ altrettanto chiaro che i frutti di
santità no n possono ritornare a Dio per via di una attività
spontanea della vigna; e anche questa è una verità perenne, non
soltanto della esperienza di Israele, ma anche della vita della
Chiesa. Nessuno, tanto i singoli quanto le comunità, può portare
frutti di santità se non è lavorato; nessuna comunità cristiana
può sviluppare i doni di Dio, se non lavora su se stessa come si fa
con un terreno coltivato, anche se le vengono elargiti doni su doni
nel Battesimo, negli altri Sacramenti e nella Parola. In tutto il
ventaglio complessivo dell’attività della Chiesa, nessuna comunità
cristiana può fiorire se non è lavorata. L’immagine della vigna
affidata a dei vignaioli intende sottolineare infatti questa perenne
realtà, affinché nessuno si illuda che sia sufficiente ricevere
soggettivamente la Grazia di Dio per portare dei frutti di santità.
Certamente non basta. Se ciò bastasse, Gesù non avrebbe parlato di
una vigna affidata a dei vignaioli, ma semplicemente di una vigna
responsabile di ciò che produce da se stessa. La comunità cristiana
non è una vigna che produce tutto da sé. Occorre piuttosto
lasciarsi lavorare all’interno della vita della Chiesa, con la
pazienza del contadino che profonde tutta la sua sollecitudine sulle
piante e poi aspetta che portino frutto. La comunità cristiana ha
bisogno di essere lavorata affinché la linfa vitale ricevuta da Dio,
possa concretizzarsi nelle virtù della santità, in cui consistono
quei frutti che Dio si aspetta di ricevere dai vignaioli. Abbiamo
detto che soltanto Matteo parla di un duplice invio dei servi, e
questo fatto sta a indicare i due grandi gesti compiuti per radunare
il popolo e per condurlo a Sé: la profezia dell’AT e l’invio
degli Apostoli e dei loro successori. Il fatto che poi al v. 37 si
parli dell’invio del figlio non deve trarci in inganno, facendoci
pensare che il figlio sia cronologicamente inviato dopo la seconda
serie; o meglio, lo è solo sul piano narrativo, ma non su quello
della teologia. L’espressione del v. 37: “Da ultimo mandò loro
il proprio figlio…”, nell’economia generale della parabola, non
va intesa in senso strettamente cronologico. Il figlio è l’ultimo
ad essere inviato nel senso qualitativo del termine, vale a dire, nel
senso che dopo di Lui non ci sono più altre possibilità di
salvezza. In questo senso, e solo in questo senso, il figlio è
l’ultimo inviato. In realtà sarà Lui stesso a inviare i nuovi
pastori per il nuovo popolo di Dio, ma la loro missione non sarà
altro che il prolungamento della sua. Egli invierà i suoi discepoli,
dopo essere stato Lui stesso inviato dal Padre. Ma dal punto di vista
teologico Egli rimane comunque “l’ultimo” o, come più
esattamente si esprime l’Apocalisse, “il primo e l’ultimo”
(1,17). Nessuno dei pastori inviati da Lui può dirsi che sia
“successivo”, anche se cronologicamente “viene dopo”. Cristo
è teologicamente l’ultimo inviato, in quanto dopo di Lui, ossia
indipendentemente da Lui, non c’è nessun’altra possibilità di
incontrare Dio. Chi sciupa l’incontro con Cristo, non avrà “un
altro” mediatore, diverso da Lui, da poter attendere. Questa
parabola si conclude poi con l’espulsione dei vignaioli (cioè
della classe dirigente) dalla sua posizione e il passaggio
dell’affidamento della vigna (cioè il popolo di Dio) ad altri.
Anche qui è in gioco il passaggio dall’Antico al Nuovo Testamento,
ma è anche una descrizione del giudizio di Dio che raggiungerà,
all’interno stesso della vita della Chiesa, tutti coloro i quali,
soprattutto pastori, non avranno avuto verso la Chiesa di Dio quella
sollecitudine che Dio si aspetta, mutando il proprio ministero in un
posto di comando, passando da amministratori a padroni, e operando in
tal modo una sostituzione di Cristo con se stessi. Il Figlio viene
insomma buttato fuori dalla vigna che gli appartiene. In questa linea
ci sembra di potere leggere la prospettiva ecclesiale della parabola.
Cosa significa avere rifiutato l’ultimo inviato? A livello
comunitario può significare forse la costituzione di una pastorale
senza Cristo; forse la riduzione dell’attività della Chiesa ad una
progettazione assistenziale, abbassando il livello delle mete
dall’esperienza proiettata verso il Regno di Dio al semplice
sociologismo assistenziale. Buttare fuori il Figlio dalla vigna, per
la comunità cristiana può significare impiantare una pastorale
senza di Lui, sostituirsi a Lui progettando a tavolino la “propria”
pastorale e non nel discernimento comunitario o prescindendo dalla
comunione ecclesiale. Anche a livello individuale è possibile
respingere fuori dalla vigna l’ultimo inviato, e qui le
manifestazioni potrebbero essere molte, come la ricerca di un
ministero per innalzare se stessi, afferrando l’eredità al posto
dell’erede appropriandosi dei doni di Dio, con tutte le conseguenze
di protagonismo che ciò comporta; quest’ultimo inviato, dopo
essere stato ucciso in quel lontano Venerdì Santo, non può più
morire fisicamente, ma può essere ucciso nei nostri cuori in molte
maniere sofisticate e sottili, ed è appunto dietro queste maniere
che si nasconde una nuova e diversa crocifissione del Figlio di Dio,
che durerà finché dura la storia. La parabola ci dà anche una
indicazione per non cadere in questa trappola e ce la dà in un
confronto fra le due figure: dei vignaioli a cui è stata affidata la
vigna e i servi che vengono mandati per ritirare il raccolto. Sono
due figure contrapposte, che Matteo pone in parallelo alle figure dei
due figli: “Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse :
Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì,
signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed
egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò” ( M t
21,28-30). Il confronto tra i vignaioli e i servi fa emergere una
caratteristica distintiva, che è l’unica che dobbiamo temere: i
servi inviati a ritirare il raccolto eseguono il comando del padrone
senza cercare un utile personale. Di questi servi si dice che vengono
mandati a ritirare il raccolto, ma non si menziona di essi alcun
gesto compiuto per conseguire un obiettivo personale. Inoltre, questi
servi pagano di persona il loro servizio: uno lo bastonarono, l’altro
lo uccisero, l’altro lo lapidarono. La cattiva sorte del primo non
porta gli altri a defilarsi o a disertare; essi portano a compimento
la loro missione fino alla morte. Il distacco totale dalla ricerca di
obiettivi personali è l’unico presupposto per non tornare a
crocifiggere nel segreto delle nostre coscienze il Figlio di Dio,
l’ultimo inviato, fuori del quale non vi è salvezza. Conclusioni
Nella sequenza degli inviati, che si conclude con la missione del
Figlio, si manifesta anche la pazienza e la misericordia di Dio nei
confronti del popolo; un popolo che lapida coloro che gli sono
mandati, che non ascolta i messaggeri di Dio e li respinge, eppure,
questa chiusura del popolo non produce in Dio una battuta di arresto.
Il Signore continua a mandare abbondantemente i suoi servi, e li
invia come un atto di fedeltà a Se stesso, non in virtù dei meriti
dei destinatari, i quali si rendono immeritevoli, perseguitando
quelli che vengono mandati. E da ultimo viene mandato il suo Figlio.
Qui si coglie la differenza tra quest’ultimo inviato e tutti coloro
che precedono; tutti i precedenti inviati, vengono chiamati servi,
l’ultimo è chiamato figlio, con l’aggiunta dell’aggettivo mio.
Così la pregnanza dell’identità di Colui che viene mandato come
ultimo, si coglie nel tono stesso delle parole del padre. Ma occorre
notare che l’inviato che viene chiamato “figlio”, a differenza
di quelli che vengono chiamati “servi”, è presentato anche come
l’ultimo: nel momento in cui viene cacciato fuori dalla vigna e
ucciso, non c’è più alcuna ulteriore possibilità per i
vignaioli. L’uccisione dei “servi” non ha causato l’espulsione
dei vignaioli dai possedimenti del padrone, ma quella del figlio, sì.
L’ultima parola pronunciata da Dio è insomma l’invio del Figlio;
dall’incontro con Lui e dalla posizione che si prende nei suoi
confronti, dipende il destino definitivo di ogni essere umano.
Dall’altro versante, cogliamo anche la figura della Chiesa: non
soltanto Israele è rappresentato nella vigna; anche la Chiesa è
destinataria di una sequenza di uomini e di donne, servi di Dio,
autentici testimoni del Cristo. Anch’essi vengono mandati
abbondantemente e, alla luce del destino di Israele a cui viene tolto
il regno, la Chiesa viene avvertita del fatto che se Dio ha giudicato
così duramente il popolo eletto che ha rifiutato il Cristo, a
maggior ragione avrà un giudizio severo da pronunciare sulla
comunità cristiana, qualora essa non accoglierà l’ultimo inviato
nella persona dei suoi testimoni. E come Israele si è mutato da
amministratore in padrone, e perciò è stato esautorato da Dio, così
anche la comunità cristiana, qualora si mutasse da mediatrice in
padrona, sostituendosi al padrone della vigna, incorrerebbe nello
stesso esito della storia di Israele (cfr. Rm 11,21). Questa parabola
ha, anche, una sua particolarità; si conclude con una domanda
rivolta agli ascoltatori: “Quando dunque verrà il padrone della
vigna che farà a quei vignaioli? Gli rispondono: Farà morire
miseramente quei malvagi e darà la vigna ad altri vignaioli”.
Questo giudizio, che gli ascoltatori pronunciano su se stessi senza
saperlo, viene confermato da Cristo: “Io vi dico: vi sarà tolto il
regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”. I
giudei responsabili della condanna di Cristo dimostrano così di
essere consapevoli e capaci di un giudizio giusto sulle azioni
altrui, riservandosi però di applicare alle proprie una misura e un
criterio diversi.
Tratto
dal sito https://cristomaestro.it
Nessun commento:
Posta un commento