[...] Volendovi fare meditare la grandezza che Dio formò in me devo farvi riflettere prima di tutto al mio dolore, perché questo è sempre l’indice vero della grandezza di un’anima e della grandezza di un’opera divina.
Il dolore è la testimonianza più bella della fedeltà di un’anima; è l’atto d’amore più puro e disinteressato; è l’umiltà vera, perché è l’annientamento interiore, è la mansuetudine, è la carità, è la sintesi di ogni virtù. Il dolore è, quindi, il vero termometro della grandezza di un’anima e per questo Gesù fu l’uomo dei dolori, Maria fu l’Addolorata per eccellenza.
Il dolore può essere fisico e morale. Il dolore fisico è piuttosto espiazione, è la via per l’elevazione di un’anima, è la forza potente che libera l’anima dalla schiavitù del corpo e della carne, dai legami del mondo e delle creature. Il dolore morale, invece,oltre ad essere espiazione, è il volo dell’anima in Dio, è la forza che la eleva sopra se stessa, è il frutto di un’attività superiore.
Per intendere questo, voi dovete riflettere che la grazia eleva la creatura al di sopra di ogni perfezione naturale, ne forma proprio un’altra creatura, pur lasciandola nella condizione naturale della vita; il dolore, quindi, è come la spiritualizzazione di tutto l’essere umano.
Voi potete volatilizzare un corpo pesante solo sottoponendolo a tale intensità di calore da liquefarlo prima, da disgregarlo, da annientare il peso naturale. L’aria non ha bisogno di forni elettrici per volatilizzarsi perché è naturalmente in questo stato; essa quindi non è sottoposta a processi tormentosi. Così è l’anima beata, la quale non può soffrire più, perché ha già raggiunto il suo fine e l’ultima sua perfezione.
Non vi meravigliate nel vedere sulla terra la maggior parte degli uomini lontani da Dio, nel vedere tanto ristretto il numero delle anime sante. La santità è l’elevazione della creatura sopra la sua natura; è l’espressione più alta della grandezza; è la vita del Cielo resa mirabilmente vita di un’anima; essa, quindi, non è tanto facilmente accolta dalle creature.
Vi porto un esempio.
Quanti sono sulla terra gli animali ammaestrati? Pochi, pochissimi. Un animale ammaestrato è un animale al quale l’uomo, con molto lavoro e molto dolore dell’animale stesso, comunica qualche cosa della propria intelligenza. Come condizione naturale, l’animale non è capace che di quello a cui lo porta il suo istinto. L’uomo si abbassa fino all’animale... diventa egli stesso come uno di essi, ne imita la voce, ne segue gli istinti utilizzandoli, e poi percuote l’animale, lo tormenta, lo premia o lo alletta, in modo da ottenere faticosamente che il bruto partecipi all’intelligenza.
Dio, con la sua grazia, col comunicarvi la vita di Gesù Cristo, fatto uomo per voi, ed equiparato alla vostra condizione, non fa che ammaestrarvi ad una vita superiore alla vita umana. Voi, ammaestrando un animale, lo fate camminare su due piedi, e l’animale cammina, ma dopo lungo esercizio, dopo lunga pena, e sempre deve vigilare per mantenere il suo equilibrio, e ha sempre dei movimenti indecisi. Che cosa ci vuole per togliere un animale dalla terra e innalzargli il muso verso il cielo!
Dio vi ammaestra, e con la grazia vi eleva fino a Lui; voi, quindi, avete sempre nello spirito quegli alti e bassi, che sono la naturale reazione della miseria umana, voi dovete sempre vigilare, combattere, soffrire, per tenervi in questa elevazione tanto superiore alla piccolezza umana. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che la santità vera sia tanto rara, e che la stessa vita cristiana sia ancora così poco universale. Gesù Cristo, redimendovi, ha facilitato l’elevazione umana in Lui. Voi, per ammaestrare un cane a tenersi su due piedi, dovete lavorare molto, e non potete farlo che con qualcuno soltanto; ma, se li sostenete voi ritti, ovvero fabbricate un’impalcatura dove l’animale entrando rimane ritto, avete reso più facile il problema. La Chiesa, con i suoi mezzi di santificazione, è Gesù stesso che vi sostiene in Lui, è come un insieme di... impalcature - dirò così - dove basta che un’anima entri per trovarsi elevata nella rassomiglianza con Gesù e nell’unione con Lui. Quando il Signore vuole rendere questa elevazione come una seconda natura, quando vuole che l’anima sia proprio simile a Gesù Cristo, allora, logicamente, l’ammaestra Lui con grazie speciali, che comportano, per necessità, molti dolori e molte prove. Da parte sua, poi, l’anima non può avere un’attività più bella quanto il dolore, perché è nel dolore che si tiene alta, è nel dolore che glorifica Dio. Sicché, figlie mie, non v’illudete, il dolore è il vero segno della natura soprannaturale di un’opera. Voi avete tanto sofferto ed avete tante volte pensato: «Ma la via di Dio non è via di pace? Com’è che qui non c’è stato che lotta e dolore?». Eppure questa lotta e questo dolore così costante è il segno più bello che quello che si è svolto è di Dio. Voi avreste conservata la vostra pace interna anche fra le lotte, se vi foste abbandonate a Dio; invece avete sofferto e vi siete agitate ogni volta che avete dato la prevalenza al vostro giudizio e alla vostra natura. Confessatelo: voi non avete perso la pace anche soffrendo, quando vi siete umiliate; l’avete persa quando avete mancato alla carità, quando avete giudicato, quando avete commesso una colpa, cioè quando vi siete sforzate di ricadere nello stato della primitiva miseria. Il dolore non è mai perdita di pace quando l’anima si eleva; esso è solo spasimo interno, è purificazione, è forza che dà all’anima una voce di amore elevatissimo.
Quando amate Dio nel dolore, lo amate col suo amore stesso; quando lo amate godendo e rimanendo soddisfatte del vostro amore, lo amate col vostro amore, ed è poca cosa, perché, in realtà, voi attingete da Lui ma non gli date nulla. Certe anime grandi non hanno fatto nulla in apparenza per Dio, ma hanno sofferto, e questa è stata la loro più grande attività.
Quando Maria era ai piedi della croce soffriva, spasimava. Quel dolore la univa tutta all’immolazione di Gesù e la faceva Corredentrice del genere umano. Se avesse potuto soccorrere Gesù, se avesse potuto schiodarlo, risanare le sue piaghe, confortarlo, Ella avrebbe fatto molto meno di quel che fece soffrendo. Se l’avesse aiutato, lo avrebbe attratto in se stessa; soffrendo, invece, Ella fu attratta in Lui, e divenne più bella, più grande. Se lo avesse consolato, avrebbe conservata la sua vita, che pure era tanto sublime; ma, soffrendo e spasimando, benedicendo la volontà di Dio, Ella ebbe allora in se stessa la pienezza dell’amore di Gesù, ebbe i suoi pensieri, ebbe la sua vita, partecipò al suo sacrificio, fu come specchio terso nel quale si riflettette l’azione di Gesù, fu come raccolta sotto il foco di quel Sole divino!
Il dolore ha tutto il segreto suo nell’unione alla volontà di Dio. Esso sforza l’anima a vivere di una volontà superiore, ad avere un pensiero superiore, e per questo la eleva. Dio da parte sua, comunicandosi ad una creatura con una grazia esuberante, la sforza ad uscire fuori della sua piccolezza, e quindi la prova, perché nel dolore svapori, dirò così, l’umana piccolezza, e l’anima viva di Lui! In Cielo soltanto non vi è più dolore, perché la vita dell’anima è tutta nella volontà di Dio; essa è rafforzata dal lume della gloria, vede svelatamente la sublime armonia di Dio, riposa in Lui senza sforzo, gli è proporzionata dai meriti avuti nella vita presente, dall’unione avuta con Gesù Cristo, dall’ultima purificazione avuta nel Purgatorio.
Questo è dunque il mistero del dolore di un’anima che è chiamata da Dio in una vita più alta; questa è la ragione per la quale le opere di Dio sono più o meno grandi, a seconda della maggiore o minore croce che portano!
Il martire è il più grande fra i Santi, ma il martire è anche il più immolato, perché è la creatura che rinuncia tutta se stessa a Dio. Il martirio è la grazia più grande, perché è il mezzo per rendere l’anima in un momento unita alla volontà di Dio. Il martirio ha tutto il suo valore in questa unione alla volontà di Dio e ai dolori di Gesù. Anche se una creatura è martirizzata a sua insaputa, essendo il martirio una grazia grande di Dio, la sua morte è il riepilogo di una vita di interiore martirio, ovvero è il pieno possesso che Dio prende di quella creatura.
Gli innocenti che morirono sotto la spada crudele di Erode confessarono la nascita di Gesù Cristo, e la loro vita fu elevata immediatamente nella volontà di Dio che voleva farla conoscere. Essi furono elevati alla condizione degli angeli che cantarono gloria a Dio sulla povera grotta di Betlemme... cantarono col sangue. Il grande valore del martirio sta proprio in questa testimonianza che rende il corpo di carne come se fosse in un momento un’anima, uno spirito, una voce, un cuore che pulsa e che ama. È quindi la più bella elevazione dell’umana miseria. L’anima ama tanto, che anche il corpo è capace di amare, è tutto irradiato da questo amore, e non avendo altra voce che quella dell’immolazione, viene sacrificato. Non è il tiranno che forma il martire, ma è l’amore, è la fusione totale alla volontà di Dio, che è tanto forte da utilizzare anche la perversa volontà di un uomo per la gloria di Dio. Voi avete avuti tanti martiri in questi ultimi tempi, e li dimenticate, mentre il loro sangue è tanto potente innanzi a Dio, la loro voce è tanto forte. Ebbene quando un settario ha ucciso per odio alla Fede un sacerdote che compiva il suo dovere, ha sfogato un odio satanico ma, in realtà, è stata la vita d’amore del sacerdote che lo ha tratto alla strage. Quel cuore sacerdotale, amando Dio, ha utilizzato la perversità altrui, l’ha attratta inconsciamente sopra di sé, l’ha utilizzata per dare anche al suo corpo una vita spirituale elevatissima, che è il sacrificio completo nel dolore e nella morte.
Ma non vi è solo un martirio di sangue, un martirio violento; c’è anche il martirio lento, nel quale il corpo, poco per volta e, continuamente, diventa come tutto pieno d’amore: è il martirio delle anime vittime, delle anime penitenti.
C’è un martirio anche più grande di questo delle anime vittime nel corpo, ed è il martirio delle anime tanto elevate, che il loro corpo è come trascinato dietro all’anima, è come il suo tempio. Allora non ha bisogno di essere demolito ma, al contrario, si mantiene tutto sano per essere strumento dell’anima, per farle sentire ogni dolore spirituale in una pienezza di vita che glielo fa bere tutto, fino all’ultima goccia.
Maria è stata martire così, Regina dei martiri. Ella aveva un corpo purissimo, tempio vivo di Dio, strumento docile dell’anima sua benedetta. Il corpo, anziché amare col dolore, era così ordinato, così puro, così sensibile da farle sentire immensamente ogni dolore dell’anima. Ella non visse che per la volontà di Dio, non spasimò che per amore, e gli rese la più grande testimonianza perché, come Madre del Verbo Incarnato, Ella potè immolare il suo amore stesso a Dio! In Maria il martirio fu martirio dell’anima, fu immolazione della stessa grandezza che Dio vi aveva posta, e quindi Ella fu la vittima più pura che si sia offerta a Dio dopo Gesù Cristo che in sé raccolse tutti i martiri, tutte le immolazioni. Gesù viveva tanto intimamente in Maria, che i suoi dolori fisici furono anche dolori spasimanti di Maria, di modo che Ella non dovette immolare il suo corpo, perché esso divenne come il collettore sensibilissimo, come l’eco viva di tutti i dolori di Gesù. Non scorre il sangue in un’immolazione, ma la sua sensibilità fece scorrere l’anima, dirò così. E un martirio unico, sublime, che ha reso Maria Regina del cielo e della terra, che ha coronato la sua grandezza.
Ora, figlie mie, anch’io sono stato martire così, benché in proporzioni minori, e la mia grandezza è tutta nel mio dolore, in quel dolore che mi ha tutto immolato alla volontà di Dio. Il mio dolore è stato un’immolazione che ha generato l’umiltà, e l’umiltà mi ha fatto grande.
Io ho sofferto perché dovevo rappresentare l’umanità che si sottopone ai disegni di Dio, senza pretendere di esaminarli.
Ecco Maria incinta per opera e virtù di Dio. È un mistero profondo, ma io non lo conosco. Ecco un dolore immenso, tanto più forte in quanto io conoscevo bene la purissima santità di Maria, tanto più angosciante in quanto io avevo la legge che mi avrebbe costretto a denunciarla. Voi ne avete un’idea, figlie mie, perché avete avuta in quest 'Opera tante tenebre. Or quando vi sembrava che non operasse più Dio in mezzo a voi, quale angoscia vi tormentava? La mia pena era tanto più grande in quanto io sentivo da Maria una vita nuova, la vedevo più bella, più santa, quando il mistero del suo stato mi torturava. Ma venne l’angelo e mi rassicurò. Io non volli sapere altro, non volli indagare il mistero, ma solo volli obbedire, e mi umiliai, e amai Maria come sposo, ma mi sentivo annientato innanzi a Lei. Il mio dolore fu la percezione della mia piccolezza, della mia insufficienza innanzi a Maria e a Gesù. Non ebbi la gioia di godere di tanta compagnia, ma mi sentii sempre come verme, e tacqui, e fui solo servo della volontà di Dio! L’apprezzamento che ebbi di Gesù e di Maria era così grande, ed il mio cuore tanto delicato e sensibile, che io gemevo perché riconoscevo di non sapere fare nulla.
Tutto fu un martirio di umiltà e di amore in me; la fuga in Egitto, la vita della casetta di Nazaret, il dover io essere a capo della famiglia, il dover comandare a Maria e al Verbo di Dio. Voi non potete valutare questo martirio di annientamento, perché non potete sapere che cosa significa vivere con Gesù e Maria.
La mia grandezza è tutta in questo martirio di umiltà e di conformità ai disegni di Dio, e per questo la mia vita fu tutta interiore, fu una continua rinuncia per Dio. Lo sguardo di Gesù era fuoco d’amore, lo sguardo di Maria era incendio di carità, ...ogni atto della familiarità che dovevo avere con loro era come una freccia che mi annientava.
Questo annientamento interiore e questo apprezzamento portò in me il martirio di tutta l’attività di un’anima che ama. L’amore è attivo, perché è fuoco, ed io, acceso, di tanto amore per Gesù e per Maria, avrei voluto farli conoscere, avrei voluto consumarmi per loro, avrei voluto non lavorare il legno, ma lavorare i cuori degli uomini! Io ebbi, in altri termini, un cuore umilissimo e dovetti essere il capo della famiglia più santa; ebbi un cuore di apostolo e dovetti tacere; ebbi un cuore sensibilissimo alle privazioni di Gesù e di Maria, e non potei far null’altro per loro che lavorare; ebbi un cuore di martire, e non potei immolarmi. Ecco il mio vero dolore!
Con Gesù sul cuore mio, io sentivo l’ardore degli apostoli e gli slanci dei martiri; il mio cuore annegava in un oceano d’amore e non poteva che immolare a Dio lo stesso amore che lo bruciava.
Voi sentite dire tante volte che io soffrivo per la povertà della casetta ovvero perché ero quasi accidentale al mistero. È un errore grande: io soffrivo per questa continua immolazione del mio amore, per la sproporzione che sentivo innanzi a quei soli splendenti, che a me si svelavano in tutto il loro fulgore. Se ebbi una gioia, fu proprio quella di sentirmi all’ultimo posto, di sentirmi come estraneo al divino mistero che in Maria si era realizzato.
Per questo il Signore, ora che il suo Regno è tanto vicino, mi vuole glorificare. Egli vuole darmi ora l’attività di apostolo che io avrei voluto avere allora, Egli ha voluto che io fossi il protettore della Chiesa proprio quando la Chiesa deve trionfare e glorificare Gesù e farlo conoscere da tutte le genti. [...]
Da uno scritto del Padre Dolindo Ruotolo alle sue figlie spirituali
Roma, 2 agosto 1921
Don Dolindo Ruotolo - Tratto da” Giuseppe: il Santo del dolore contemplativo”
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