Da
Cana di Galilea Gesù, insieme con la Madre, i suoi parenti e i suoi
Discepoli, scese a Cafarnao, che si trovava a un livello più basso,
e vi rimase alcuni giorni, per unirsi al pellegrinaggio che si recava
a Gerusalemme per la solennità della Pasqua. Egli non aveva ancora
stabilito a Cafarnao la sua dimora. Andato a Gerusalemme si recò al
Tempio per adorare il Padre e vi notò un gravissimo sconcio, contro
il quale insorse con tutto l'impeto del suo zelo e il fulgore della
sua divina maestà.
Nell'atrio
o cortile detto dei pagani si era formato un vero mercato di animali
atti ai sacrifici cruenti e di ciò che poteva servire per le offerte
sacre. Data l'imminenza della Pasqua, il traffico era grande e, per
facilitare il cambio delle monete greche o romane che non potevano
essere introdotte nel Tempio a causa dei loro simboli pagani, si
erano stabiliti nell'atrio sacro anche dei cambiavalute, pronti a
cambiare con interesse, a usura, le monete in sicli ebraici
d'argento. La baraonda e il vociare dei trafficanti, unito alle voci
degli animali e al sudiciume che vi lasciavano, avevano ridotto il
luogo sacro in uno stato obbrobrioso; i sacerdoti e i leviti
lasciavano fare, perché ricavavano lauti profitti da quel commercio.
Nel
tempo della sua vita nascosta, Gesù aveva notato quell'orribile
sacrilegio ogni volta che era andato a Gerusalemme, ma aveva taciuto,
perché non era giunto il tempo di rivelarsi. Ora, però, Egli
Iniziava la sua vita pubblica e, operando da padrone, ripieno com'era
d'amore per il Padre, avvampò di santo sdegno e, prese alcune
cordicelle, forse di quelle che servivano a tener legati gli animali,
ne formò come una sferza e cominciò a cacciare fuori gli animali e
con essi gli uomini che li custodivano o li vendevano. I banchieri, i
più freddi e insensibili al divino rimprovero, non si mossero, anzi,
dovettero aggrapparsi ai loro banchi per difenderli dall'urto degli
animali che fuggivano in ogni direzione, ma Gesù, avvicinatosi ai
banchi, li rovesciò con impeto divino, gettando per terra le loro
monete. Solo verso i venditori di colombe fu più pacato, perché
essi le vendevano ai poveri e le avevano in gabbia, e li esortò a
togliere di là quella roba, gridando ad essi e a tutti di non
cambiare la casa del Padre suo in una bottega di traffico. Nessuno
osò reagire a quell'impeto divino, e ne fu tanta la maestà amorosa
che gli Apostoli, benché ancora novellini nelle vie di Dio, si
ricordarono che nel salmo 68,10 era predetto del Messia che lo zelo
della Casa di Dio lo avrebbe consumato, e videro spontaneamente in
quell'atto il compimento della profezia.
La
Vergine Santissima, ottenendo a Cana il miracolo dell'acqua mutata in
vino, aveva anticipato l'ora di Gesù, cioè il tempo della sua
manifestazione pubblica come Messia e Salvatore del mondo, e il primo
atto del ministero di Lui fu quello di cacciare dal Tempio i
profanatori che lo avevano ridotto ad una bottega.
Non
è sacro solo il Tempio di Dio ma tutto ciò che vi ha attinenza
I
profanatori non stavano propriamente nel Tempio, ma nel cortile più
esterno dov'era lecito anche ai pagani di penetrare; era uno dei
cortili, non era il Santo né tanto meno il Santo dei Santi, e
ciononostante Gesù ne cacciò fuori i profanatori con grande impeto.
È
una lezione per i ministri dell'altare, per l'anima e per il mondo
medesimo. Non è sacro solo il Tempio di Dio ma anche tutto ciò che
vi ha attinenza o che ne è complemento: la sacrestia, le sale
annesse per le associazioni cattoliche e quello che serve al culto.
Non si può profanare in nessun modo, con traffico o avidità di
guadagno o mancanza di giustizia e di carità, quello che appartiene
a Dio.
La
sacrestia è il vestibolo del Tempio; il portico esterno o la piazza
ne è come il cortile. La compravendita di ciò che serve al culto è,
indirettamente, un atto di culto e non può ridursi ad un traffico
qualunque.
Chi
vende deve ricordarsi che vende per onorare Dio e chi compra deve
evitare tutto ciò che sa di avarizia o di mancanza di carità. Il
Signore retribuisce al centuplo sia chi vende con generosità, per
suo amore, sia chi compra con carità.
È
poi degna della sferza di Dio ogni profanazione del luogo sacro
propriamente detto. Le sacrestie sono luoghi di raccolta preparazione
ai Sacri Misteri, non sono luoghi di contrattazioni o, peggio, di
alterchi, di mormorazioni e di mancanze di carità. Il tempio è
luogo di orazione e non vi si può chiacchierare, trattandovi affari
temporali e mondani, quasi fosse il luogo di convegni, di
appuntamenti o di conversazioni.
La
profanazione della Casa di Dio attira i flagelli nazionali e sociali
sui popoli.
Quando
scoppiano le guerre o le rivoluzioni devastatrici, è la mano del
Signore che caccia i profanatori e fa sentire loro che non è lecito
offendere la divina maestà.
Le
nazioni in cui non si prega s'impoveriscono miseramente
Tempio
vivo di Dio è l'anima, ed essa non può profanarlo raccogliendovi,
quasi fossero animali di traffico, le passioni sensuali e, quasi
fossero banchi di cambio, le aspirazioni disordinate al denaro e ai
beni della terra.
La
vita non è un commercio, è un pellegrinaggio alla Patria eterna:
non può essere tutta occupata in cose materiali, perché questo
anziché farla prosperare la riempie di tribolazioni. Possiamo dire
che è vita di orazione, poiché la grande forza che la orienta, la
sostiene e la rende prospera è proprio l'orazione. E non solo la
vita individuale ma anche quella sociale. Quando non si prega,
languisce l'economia domestica e quella nazionale; la sferza divina
caccia via i buoi, le pecore e le colombe, cioè immiserisce la
produzione, e rovescia i banchi delle monete con le crisi dei titoli
in borsa, delle ricchezze e della situazione monetaria.
Siamo
creature di Dio, non dobbiamo mai dimenticarlo, e nella vita abbiamo
il dovere principale ed essenziale di conoscerlo, amarlo e servirlo.
Quando non compiamo questo dovere profaniamo il Tempio di Dio con il
disprezzo e la noncuranza, il tempio dell'anima con il peccato e con
la disordinata occupazione delle cose materiali, e il tempio della
dimora terrena, tempio anch'esso della divina gloria, con le
assillanti ed assorbenti preoccupazioni temporali.
Lo
tocchiamo con mano nei famosi progressi dell'industria e del
commercio, che dovrebbero portare la prosperità e portano la miseria
e i flagelli sociali, proprio perché si subordina ad essi la vita
dello spirito o, peggio, la si tiene in completa dimenticanza.
Si
profana la festa per le esigenze del commercio, come si dice; si
trascurano i più elementari doveri dell'anima perché si deve andare
in fretta in ufficio o al lavoro.
Lo
Stato, con incosciente audacia, giunge persino ad imporre i suoi
giorni festivi in luogo di quelli di Dio, e magari ordina la festa
obbligatoria per un qualunque avvenimento o anniversario nazionale e
pretende di comandare il lavoro e l'apertura dei negozi e degli
uffici nei giorni consacrati al Signore.
S'indulge con facilità a
tenere attivi quei servizi che esigono la sottrazione di un numero
rilevante di cittadini al dovere della Messa e della preghiera, e non
si pensa che s'impedisce così il cammino delle anime verso le Mete
eterne.
Si
dà importanza ai buoi, alle pecore, alle colombe e ai cambiavalute,
cioè a tutto ciò che è movimento di commercio e di economia
sociale, e non si dà importanza a ciò che serve per onorare Dio.
Nessuna
scusa o familiare o sociale può capovolgere i valori della vita e
rendere principale quello che è accessorio. Il Signore si degni di
aprirci gli occhi con i suoi stessi flagelli e, cacciando da noi le
disordinate preoccupazioni della vita, ci dia l'immensa grazia di
vivere pregando e onorando il Signore.
Il
rimprovero dei Giudei a Gesù e la sua assoluta padronanza
Il
frastuono prodotto dall'uscire precipitoso dei venditori e degli
animali dal cortile del Tempio fece intervenire intorno a Gesù, di
furia, i Giudei, cioè le autorità del santuario, decise a mettere a
posto il disturbatore del loro traffico indegno e a espellere a loro
volta dal luogo santo colui che, a loro giudizio, si arrogava un
potere che non aveva, ma quando si trovarono dinanzi al Signore
furono così conquistati dalla sua divina maestà che non osarono
rimproverarlo e tanto meno cacciarlo. Videro nel suo atteggiamento
qualcosa di straordinario e vollero accertarsene, domandandogli un
miracolo come conferma.
La
loro pretesa poteva essere anche legittima, se avessero fatto quella
domanda per accertarsi della missione di Lui, ma essi, in realtà,
benché conquistati della sua maestà, credettero di metterlo in
imbarazzo costringendolo a riconoscere di non avere il potere di
sostituirsi a loro nella custodia del luogo santo. Lo sdegno, poi,
che sentivano per il mancato lucro che veniva ad essi da
quell'indegno mercato dovette farli avvampare d'ira e far loro
desiderare fin d'allora di disfarsi di Lui.
Egli,
perciò, riaffermando con i fatti la sua divina potestà e padronanza
che non doveva dar conto a nessuno nel tutelare l'onore del Padre,
rispose enigmaticamente: Distruggete questo tempio, e io in tre
giorni lo riedificherò.
La
frase sembrò un assurdo, data la mole del Tempio e la sontuosità
della costruzione.
L'edificio, cominciato da
Erode il Grande nell'anno diciottesimo del suo regno, e quindi molto
tempo prima della nascita di Gesù, non era terminato ancora nei suoi
particolari, benché ci si lavorasse da 46 anni. Fu terminato solo
nel 64 dell'era nostra, poco prima della sua distruzione per opera
dei Romani, il 70 dell'era volgare. I Giudei perciò dissero a Gesù
in tono ironico: Questo tempio fu edificato in quarantasei anni, e tu
lo rimetterai in piedi in tre giorni? Gesù, invece – soggiunge
l'Evangelista –, parlava del tempio del suo corpo, e quindi
alludeva alla sua morte e alla sua Risurrezione. I suoi Apostoli lo
constatarono quando Egli risorse; si ricordarono che la Scrittura in
più luoghi aveva predetto la sua Risurrezione (cf. Sal 15,10; Is
53,10-12) e credettero alle sue parole.
Sebbene
la promessa di Gesù avesse avuto il carattere di un paradosso, gli
Ebrei non osarono reagire violentemente contro di Lui; sentirono,
loro malgrado, che era la verità, benché non sapessero spiegarlo.
Alcuni suppongono che Gesù, nel dire quelle parole, avesse fatto
cenno con la mano al suo corpo, toccandosi il petto, ma pur facendo
questo gesto Egli non avrebbe potuto farsi intendere da quelli che
ignoravano i prossimi misteri della sua Morte e della sua
Risurrezione. Con profondissimo pensiero, Egli accennò all'argomento
fondamentale della verità di tutta la sua opera e parlò con piena
padronanza, precorrendo i tempi. Se pure avesse fatto un miracolo in
quel momento, come ne ave va già fatti molti in Gerusalemme
(versetto 23), i Giudei non gli avrebbero creduto; Egli, invece, li
tacitò con una risposta enigmatica, detta in tutta la pienezza della
sua maestà. Mettendoli così a tacere, non diceva una cosa
paradossale, se si considera la sua affermazione nella luce divina.
Quel
Tempio maestoso, infatti, era figura e ombra del suo Corpo divino;
all'apparenza sembrava immensamente più grande, ma in realtà era
infinitamente più piccolo. Per distruggere il Tempio materiale ci
sarebbero voluti elementi umani, determinati e mossi dalla volontà
umana; per uccidere, invece, il suo Corpo era necessario un permesso
della divina Volontà e occorreva il concorso del suo amore che si
donava.
Era
un prodigio di misericordia il permesso dell'immolazione della
Vittima divina, com'era un prodigio di onnipotenza la sua
Risurrezione dalla morte.
Il
Tempio stava dunque al suo Corpo come lo schizzo di una costruzione
sta alla costruzione stessa; Gesù, quindi, non si servì d'un
paragone improprio né disse una parola vana, ma la sua fu una parola
profondissima.
Un
enigma penoso per gli Apostoli
Dal
contesto si rileva che per gli Apostoli l'affermazione di Gesù
dovette costituire sempre un enigma penoso e un'oscurità in mezzo
alla luce che pur vedevano intensa; è per questo che l'Evangelista
soggiunge che essi, dopo la risurrezione di Gesù, si ricordarono di
quelle parole e credettero alle Scritture e a ciò che aveva detto il
Signore. Si spiegarono solo allora un mistero incomprensibile, che
aveva per essi l'apparenza di un assurdo.
Così
avviene nelle grandi manifestazioni della potenza, della sapienza e
dell'amore di Dio; accanto alla luce ci sono pure le ombre e le
tenebre misteriose, perché non tutto ciò che dice o opera il
Signore si riferisce ai nostri piccoli pensieri o al tempo presente.
Quando
si vede la luce da un lato, le oscurità non sono tenebre di falsità,
ma un'oscurità e un'ombra di un mistero che si può chiarire dopo
anni di attesa e che può attendere la sua luce anche nell'eternità.
Nel
tempo nel quale Gesù stette a Gerusalemme per la Pasqua, soggiunge
l'Evangelista, molti credettero in Lui per i miracoli che Egli
faceva, ma la loro fede era superficiale, benché esternamente
sembrasse entusiasta, e Gesù non si fidava di loro, perché li cono
sceva nell'intimo del cuore e non aveva bisogno che nessun altro
rendesse testimonianza di loro.
San
Giovanni, con queste parole, vuol far notare che Gesù era Dio, e
considerava le sue creature non attraverso le apparenze esterne ma
scrutandone il cuore e conoscendone gli intimi pensieri,
Di
fronte a questo sguardo divino non possiamo presumere di noi ne
fidarci della nostra giustizia, perché Egli può vedere ciò che noi
non vediamo.
A
volte ci sentiamo soddisfatti della nostra bontà e ci inorgogliamo,
spesso paragonandoci agli altri che crediamo a noi inferiori.
Umiliamoci
profondamente e pensiamo che Dio forse non può fidarsi di noi,
umiliamoci pensando che dinanzi a Lui compaiono le nostre
responsabilità anche occulte. Quante angustie nella vita, che ci
sembrano immeritate, sono effetto dei nostri peccati nascosti; quante
tribolazioni ci colpiscono per purificarci da miserie che noi non
scorgiamo! Quante risoluzioni di bene facciamo, che poi miseramente
svaniscono!
Tu
non puoi fidarti di me, o Signore, ma io confido nella tua
misericordia e sono sicuro della tua bontà.
Apri
dunque le braccia e accoglimi, rendi ferma in te la mia volontà e
fa' che io ti sia fedele fino alla morte.
don Dolindo Ruotolo - Tratto da "I quattro Vangeli" - da pag.1687 a pag.1694
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