È
sera. I discepoli si trovano là, nel cenacolo, chiusi, assorbiti
nella tristezza e paralizzati dalla paura. Il Signore
entra attraverso le porte chiuse e li saluta: Pace a voi.» (Gv
20,19). Subito in quella stanza si accende una grande luce. Il testo
evangelico annota: «E i discepoli gioirono al vedere il Signore (Gv
20,20). La luce del Risorto inonda i loro volti e i loro cuori; in
questa serena atmosfera i loro occhi lo riconoscono e si riaprono
alla speranza.
Poi,
lungo i quaranta giorni della sua permanenza tra loro prima di salire
al Padre, Gesù risorto rinnova por i discepoli gli appuntamenti
della gioia, però non li illude, lasciando loro pensare che il tempo
del dolore sia finito. No, per i discepoli il tempo della prova sta
per incominciare. Egli predice loro apertamente e ripetutamente le
sofferenze cui andranno incontro. Se vogliono essere suoi testimoni,
annunziatori del vangelo e cooperatori di salvezza, devono
necessariamente partecipare anche alla sua croce. Solo attraverso
questa partecipazione alla sua sofferenza potranno partecipare anche
alla sua risurrezione ed entrare in quella pienezza di gioia che
coincide con la pienezza di vita in lui. La luce del mattino di
Pasqua è soltanto il primo bagliore; è soltanto l'alba del giorno
che dove crescere fino al pieno meriggio e non conoscere tramonto.
Con
una scelta molto appropriata, dal profondo significato spirituale,
nelle ultime settimane del tempo di Pasqua la liturgia propone per la
santa messa feriale la lettura continua dei capitoli 14-17 del
Vangelo secondo Giovanni, dove sono riportati i discorsi di addio, il
testamento spirituale lasciato da Gesù ai suoi discepoli. Il
messaggio in essi racchiuso, infatti, non riguarda solo il tempo
della passione, ma si addice più ampiamente a tutto il tempo che
intercorre tra l'ascensione di Cristo al Padre e il suo ritorno
glorioso: riguarda tutto il tempo della Chiesa pellegrinante, il
nostro tempo, quello che viviamo di giorno in giorno. Sono dunque
pagine che dovremmo sempre lasciar riecheggiare nel cuore, tenerle
particolarmente presenti, perché illuminano la nostra storia, ci
offrono la chiave di lettura di tanti eventi altrimenti sconcertanti.
Tutto quello che Gesù ci ha detto nel suo testamento, tutto quello
cui in quell'ora suprema ci ha esortato - e cioè di rimanere in lui,
di voler ci bene, di osservare i suoi comandamenti - è stato detto
per
noi,
perché «la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv
15,11). Gesù fa tutto per la nostra gioia: la sua stessa morte non
ha altro scopo che questo. Ma di che gioia si tratta? È gioia
pasquale, gioia di vita risorta, gioia che sgorga dalla vittoria
sulla tentazione, sul peccato, sul male: sul mondo ancora sotto
l'inganno del maligno.
Per
questo la promessa della gioia è intrinsecamente unita alla
necessità del combattimento spirituale: «Se hanno perseguitato me,
perseguiteranno anche voi» (Gv 15,21). Il mondo perseguita i
discepoli di Cristo proprio perché non sono del mondo, non si
adeguano alla sua mentalità e lo contraddicono. Di conseguenza, per
il cristiano la sofferenza è una necessità. Occorre, però, viverla
unitamente al Cristo, facendo di essa una «pasqua", un
passaggio e rendendola feconda di bene. Quanto ciò sia difficile, lo
dimostra il fatto che Gesù sottolinea i pericoli e le insidie in
mezzo a cui i suoi discepoli verranno a trovarsi e per cui potrebbero
anche disorientarsi, dubitare, non saper più riconoscere la via
giusta, come spesso accade ai nostri giorni: “Vi scacceranno dalle
sinagoghe: anzi, viene l'ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di
rendere culto a Dio” (Gv 16,2).
Insieme
all'avvertimento, Gesù offre anche l'indicazione di come affrontare
la prova per non venirne schiacciati, per non lasciarsi ammaliare dal
tentatore (cf. Gal 3,1), ma uscirne vincitori. Nelle sue parole
ritorna un tema che riveste tanta importanza in tutta la s.
Scrittura, in tutta la storia del popolo eletto, cioè il tema della
memoria»: «Vi ho detto queste cose affinché, quando verrà la loro
ora, ve ne ricordiate,
perché io ve l'ho detto» (Gv 16,4). Ricordando quanto Gesù ha
detto loro, facendo memoria delle sue parole, della sua vita e della
sua morte, i discepoli non si perderanno d'animo, non si
scandalizzeranno, perché sapranno che si tratterà - come fu per
Gesù stesso - del doloroso passaggio che approda alla gioia, della
Via
crucis che
conduce alla risurrezione. Ma Gesù offre ai suoi discepoli ancora
qualcosa di più: egli promette che non li lascerà soli, che
ritornerà, che lo rivedranno e che in quel giorno la loro gioia sarà
piena, una gioia che nessuno potrà più togliere; anzi, promette
addirittura che sarà sempre con loro e che la loro gioia può
iniziare fin d'ora, fin d'ora egli vuole che vivano l'inevitabile
sofferenza con animo lieto.
È
l'esperienza che ci hanno lasciato molti martiri, Origene arrivava
addirittura a scrivere che il cristiano può generare la gioia:
«Tu
generi la gioia se tutto stimerai gioia, quando ti imbatterai in
varie tentazioni e offrirai questa gioia in sacrificio a Dio. E
quando ti avvicinerai lieto a Dio, egli ti renderà nuovamente
quello che avrai offerto, e ti dirà: "Di nuovo mi vedrete e
gioirà il vostro cuore e nessuno vi potrà togliere la vostra
gioia". Così dunque riceverai moltiplicato quello che avrai
offerto a Dio (Omelia
ottava sulla Genesi).
Offrire
la propria sofferenza, la propria povertà con «Viso lieto è
proprio quanto noi spesso trascuriamo di fare, ritenendo meglio
presentare a Dio le nostre lamentele per il costo della vita",
per il prezzo troppo alto del nostro essere cristiani, Occorre una
conversione radicale, occorre scoprire il segreto dei santi: essi,
camminando in questa “valle di lacrime”, non perdevano mai di
vista la meta del pellegrinaggio: la celeste Gerusalemme, là dove -
come dice l'Apocalisse – saranno raggianti di felicità quelli che,
passati attraverso la “grande tribolazione della presente vita,
avranno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello, si saranno cioè
purificati mediante la sofferenza che li ha resi partecipi della
croce del Redentore” (cf. Ap 7,9-15):
“Non
avranno
più
fame
ne avranno
più
sete,
non
li colpirà il sole ne arsura alcuna, perché
l'Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li
guiderà alle fonti delle acque della vita. E
Dio asciugherà
ogni lacrima dai loro
occhi”Ap
7,16-17).
I
verbi della promessa sono al futuro, ma questo futuro di salvezza e
di gioia già ci appartiene, già trasfigura le fatiche del
quotidiano cammino, se ogni passo è compiuto nella fede, nella
speranza e nell'amore.
Ritornando
ai discorsi di addio, è interessante notare che in essi si forma una
specie di contrasto, si trovano verbi che indicano la partenza di
Cristo dai suoi e, contemporaneamente, verbi che esprimono il suo
“rimanere”. Il momento culminante si raggiunge nella splendida e
commovente preghiera sacerdotale del capitolo 17 del Vangelo ili
Giovanni, Gesù prega per i suoi; prega il Padre. E che cosa chiede?
Che egli stesso li custodisca e li renda felici:
“Ora
io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, per ché abbiano
in se stessi la pienezza della mia gioia. Io ho dato loro la tua
parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come
io non sono del mondo” (Gv 17,13-14)
Indicibile
sofferenza di Cristo! Egli sa quale sorte toccherà ai suoi discepoli
e vorrebbe evitarla loro, ma sa anche che solo per quella via
potranno giungere alla meta beata.
Per
i discepoli la gioia di vedere Gesù nei quaranta giorni dopo la sua
risurrezione si fa poi gioia di contemplarlo mentre sale al cielo, S.
Luca, narrando come avvenne l'ascensione di Cristo, diventa un vero
pittore. A vivaci pennellate ritrae i discepoli: gli occhi spalancati
verso l'alto, occhi che cercano di penetrare le profondità del cielo
e del cielo sembrano rapire la luminosità, la bellezza, la forza di
attrazione. Subito dopo, infatti, ricolmi della sua presenza
spirituale, interiore, sicuri della fedeltà della sua Parola,
ritornano correndo a Gerusalemme e sono pieni di gioia:
“Ed
essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con
grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio”(Lc 24,52-53).
Inizia
il tempo dell'attesa: emblematica nel primo capitolo degli Atti degli
apostoli la descrizione della prima comunità. Nel cenacolo, luogo
carico di memoria, gli apostoli con Maria, la Madre di Gesù, stanno
radunati in preghiera, in attesa dell'effusione dello Spirito Santo;
è un'attesa già tutta pervasa di gioia perché è pervasa di fede,
di speranza, di sicurezza nell'avverarsi della parola che il Signore
ha detto loro.
Lo
Spirito Santo, che viene loro donato nel giorno di Pentecoste, è una
forza che li investe dall'alto, una specie di ebrietas,
di ebbrezza spirituale che li spinge a parlare di Gesù ex abundantia
cordis,
dalla pienezza del cuore. Essi sono così ricolmi di grazia divina da
traboccarne. È loro gioia, quindi, poter
parlare del Cristo risorto, proclamare il suo nome, annunziare il suo
vangelo nonostante le minacce e le persecuzioni. Anzi, questa gioia
interiore li fa esultare proprio nelle tribolazioni e nelle
sofferenze patite per lui.
Un
giorno, dopo essere stati flagellati, minacciati e imprigionati, gli
apostoli furono di nuovo lasciati in libertà a condizione che
smettessero di parlare di “quel Galileo” ma
essi “se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati
giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù” (At 5,41).
In
latino l'espressione è bellissima: Ibant
gaudentes,
se ne andavano saltando di gioia: per loro era un vanto, un motivo di
fierezza l'avere patito qualche cosa per colui che tanto aveva patito
per loro. Non più impauriti dalle minacce dei capi dei giudei, “ogni
giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di
annunciare che Gesù è il Cristo” (At 5,42).
Davvero
è un lieto annunzio quello che essi coraggiosamente diffondono! Il
vangelo della gioia, portato dovunque con franchezza ed entusiasmo,
fa aumentare il numero dei credenti. E mentre cresce il nucleo
originario della prima comunità, cresce anche la gioia.
Questa
gioia dei discepoli consiste proprio nel fare comunione, nello stare
insieme fraternamente a pregare, a loda Te il Signore, a condividere
i beni, a spezzare insieme il pane, cioè a celebrare l'eucaristia,
memoriale della passione-morte-risurrezione del Signore. Attorno a
loro si crea un'atmosfera di novità e di stupore che diventa una
forza evangelizzatrice.
Attraverso
quei primi credenti la gioia del vangelo si diffonde anche in altre
città, in mezzo ad altre popolazioni, Segno e dono dello Spirito
Santo, la gioia caratterizza coloro che ricevono il sacramento del
battesimo, come attestano ampiamente gli Atti degli apostoli. Ad
esempio, quando Filippo andò ad annunziare il vangelo in una città
della Samaria, trovò una folla di persone attente all'ascolto, piene
di stupore per le meraviglie che vedevano e pronte all'adesione di
fede. Molti, dunque, si fecero battezzare e “vi fu grande gioia in
quella città” (cf. At 8,8). Anche nel singolare incontro tra
Filippo e l'etiope, dopo che questi ebbe ricevuto il battesimo e
l'apostolo era scomparso dalla sua vista, portato altrove dallo
Spirito, il neobattezzato proseguì il suo cammino “pieno di
gioia”, di quella gioia che viene dall'alto. Si riconosce in questo
pagano, che viaggiava leggendo senza comprenderlo il libro di Isaia,
la sovrabbondanza della gioia messianica annunziata dai profeti per
tutti gli uomini.
In
tal modo la Chiesa “si consolidava e camminava nel timore del
Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero”
(At 9,31), portava agli altri l'annunzio della salvezza perché
dentro le urgeva l'amore, il dinamismo della vita divina che tende
sempre a effondersi, a comunicarsi, a donarsi.
I
passi della Chiesa nascente, dapprima piccoli e timidi, poi sempre
più arditi, diventano una vera e propria corsa con la conversione
dell'apostolo delle genti.
Con
la predicazione di Barnaba e Paolo ad Antiochia, infatti, veniamo a
trovarci in pieno mondo pagano. E gli Atti non mancano di annotare
che i pagani “si rallegravano e glorificavano la parola del
Signore” (cf. At 13,48), mentre “i discepoli erano pieni di gioia
e di Spirito Santo” (At 13,52): eppure, erano a tal punto
perseguitati da dover lasciare la città... Stupendo! Questo è il
miracolo della carità nel cuore dei fedeli.
La
gioia pasquale dell'apostolo delle genti
Folgorato
e conquistato dall'incontro con Gesù sulla strada di Damasco, mentre
si recava
a perseguitare i credenti in lui, s. Paolo diventò uno dei più
grandi diffusori della gioia nel mondo pagano. “C'è in lui – ha
potuto scrivere Igino Giordani – il genio del conquistatore, per
cui ricorda Alessandro Magno (San Paolo, in G. BARRA, Santi
per oggi, Borla,
Torino 1955, 127) e Mario Luzi ne ha parlato come di una persona
incendiata dal fuoco di profezia» che “mentre parla per istruire
si illumina egli stesso, è abbagliato e scosso dalla forza di ciò
che sul momento gli si presenta come nuovo argomento di rivelazione.
Non cessa dunque di essere in atto profeta. E il primo a far sentire
la fede come sublime non-senso... Esaspera ed enfatizza questa
differenza per aumentare lo scandalo della rottura, per mettere in
chiaro una volta per sempre la natura sconvolgente della fede” (La
porta del cielo, Piemme,
Casa le Monferrato (AL)
1977, 16.73).
Sulla
via di Damasco, Paolo fa l'esperienza interiore del Cristo crocifisso
e risorto. Da questo incontro rimane come stigmatizzato: per sempre
porterà impresse nel suo corpo e nel suo spirito le ferite gloriose
del Cristo. Da tutte le sue lettere traspare che la gioia di Paolo
gronda sempre con il sangue della croce, e, viceversa, la sua
sofferenza è sempre illuminata dalla luce gloriosa della
risurrezione. Come nel Vangelo secondo Giovanni, egli vive sempre
l'unità in atto del mistero pasquale; c'è sempre l'esperienza del
Cristo crocifisso e insieme risorto. E con questo sguardo legge la
storia e contempla il creato.
Nel
grandioso capitolo ottavo della sua Lettera ai Romani, Paolo esprime
il gemito dell'umanità e di tutta la creazione come travaglio di
parto, come passaggio alla vera vita mediante una nuova nascita.
L'intera umanità e tutta la creazione gemono, ma in questo gemito si
fa strada un grido di esultanza. Mentre tutto piange, al contempo
tutto gioisce in modo indicibile passando dalla croce alla gloria,
Per questo un ruolo centrale nelle lettere di Paolo ha pure la virtù
della speranza, strettamente legata alla gioia. Come afferma ancora
scrivendo ai romani: “nella
speranza siamo stati salvati” (Rm 8,24). «I cristiani hanno un
futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma
sanno nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo
quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile
anche il presente. Cosi possiamo ora dire: il cristianesimo non era
soltanto una "buona notizia"..., una comunicazione di cose
che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e
cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata
spalancata, Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata
una vita nuova” (BENEDETTO XVI, Spe
salvi 2).
Siamo
dunque ancora in cammino; dobbiamo soffrire per passare alla pienezza
della gioia nella luce gloriosa del Regno, tuttavia il saperci su un
cammino sicuro già trasfifura il dolore, Cosi nella Seconda lettera
ai Corinzi s. Paolo parla delle sue debolezze e delle sue
tribolazioni, di tutto quello che ha patito nel suo avventuroso
viaggio apostolico, in termini di beatitudine.
“In
tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti,
ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non
uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù,
perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo” (2Cor
4,8-10).
E
poco oltre afferma ancora:
“In
ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio con molta fermezza:
nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle
angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche,
nelle veglie, nei digiuni; [...] afflitti,
ma sempre lieti”(2Cor
6,4-5,10).
Sul
piano della logica umana tutto è paradossale, ma sul piano della
fede ogni cosa è nel suo giusto ordine. Essere partecipi del mistero
pasquale di Gesù è l'esperienza più beatificante, perché il vero
segreto della gioia è sempre l'amore. Si trova grande gioia, dunque,
nel saper dare e darsi generosamente con spirito di fede e di carità;
si trova gioia anche nell'aiutarsi a scoprire e a riconoscere il
male, il peccato che ci separa da Dio e ci porta alla tristezza.
Per
questo, s. Paolo si dice contento d'aver scritto ai Corinzi una
lettera severa che li ha rattristati, ma che anche li ha stimolati al
pentimento, dopo il loro riprovevole comportamento:
“Se
anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se
mi è dispiaciuto - vedo infatti che quella lettera, anche se per
breve tempo, vi ha rattristati -, ora ne godo; non per la vostra
tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi.
Infatti vi siete rattristati secondo Dio e cosi non avete ricevuto
alcun danno da parte nostra, perché la tristezza secondo Dio produce
un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la
tristezza del mondo produce la morte” (2Cor 7,8-10).
Tornando
poi alla propria personale esperienza, s. Paolo confida umilmente che
il Signore gli ha dato una prova senza tregua, una spina nella carne,
e che alla sua supplica per esserne liberato gli ha risposto: “Ti
basta la mia grazia” (2Cor 12,9). Egli, dunque, accettando
volentieri e umilmente le proprie debolezze, esce in quella stupenda
esclamazione: “Superabundo
gaudio in infirmitatibus meis –
sovrabbondo
di gioia nelle mie infermità. Perché? Perché è lì che si può
sperimentare maggiormente la potenza di Cristo: “Quando sono
debole, e allora che sono forte” (2Cor 12,10).
Proprio
in base alla sua esperienza l'apostolo può con verità infondere
coraggio ed esortare gli altri. Quando, concludendo la sua “lettera
severa”, esorta i corinzi a essere nella gioia, le sue parole non
sono solo un augurio, ma hanno la forza del “comandamento”.
“Fratelli,
siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda,
abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell'amore e
della pace sarà con voi” (2Cor 13,11).
Il
cristiano non può accontentarsi di singoli momenti di gioia dovuti a
situazioni particolarmente felici, egli tende a essere lui stesso
presenza di gioia, irradiazione della gioia che lo inabita.
La
gioia, infatti, come dice ancora s. Paolo nella Lettera ai Galati, è
frutto dello Spirito Santo (Gal 5,22). Il segreto della gioia è
perciò vivere secondo lo Spirito. Se è cosi, bisogna allora
guardarsi dallo spegnere lo Spirito, poiché si spegnerebbe la fonte
di tutti i buoni frutti (cf. Ef 4,30). Se con
una condotta indegna contristiamo –
soffochiamo,
mortifichiamo - lo Spirito Santo che è in noi, diventiamo terreno
arido; i frutti della grazia non possono maturare e il lavoro
dell'Agricoltore è reso vano, mentre siamo stati creati per essere
«lode della sua gloria» (cf. Ef 1,12), cioè per essere un canto di
gioia a colui che per primo ci ha amato e che in Cristo ci ha
benedetto con ogni benedizione spirituale
La
Lettera ai Filippesi ci offre un modello di un'intera comunità
matura nella fede, raggiante di gioia cristiana. Fin dal saluto
iniziale S. Paolo si rivolge a quei suoi carissimi figli con un inno
di ringraziamento, perché il loro ricordo è per lui motivo di gioia
e di consolazione (cf. Fil 1,3ss), “perché a voi è stata data la
grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui,
sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che
sostengo anche ora” (Fil 1,29-30). Accennando quindi alle sue
sofferenze mentre è in prigione, Paolo giunge ad affermare:
“Anche
se io devo essere versato sul sacrificio e sull'offerta della vostra
fede, sono contento e ne
godo con tutti voi. Allo
stesso modo anche voi godetene e rallegratevi
con me”(Fil
2,17-18).
Nella
stessa Lettera raccomanda di accogliere con premura e con grande
carità Epafrodito che sta tornando tra loro, perché ha molto
sofferto per il vangelo.
Proprio
perché vede questi neo-cristiani così ferventi e ben saldi nel
cammino di fede, l'apostolo, con accenti vibranti di affetto e di
commozione, dice:
“Rendete
piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità,
rimanendo unanimi e concordi" (Fil 2,2).
S.
Paolo è molto consapevole che non basta formare i singoli cristiani,
occorre che essi formino Chiese visibili, comunità in cui risplenda
la testimonianza dell'amore reciproco. Questo senso della comunione e
della reciprocità costituisce una vera e propria caratteristica
della teologia paolina. Nelle sue lettere sovrabbondano i verbi
formati con la preposizione “cum",
“con”,
che indica la profonda unione del cristiano al mistero di Cristo: si
patisce con lui, si gioisce con lui; in lui si è battezzati, con lui
si muore, con lui si risorge. Sovrabbonda però anche il “pro”,
«per» di solidarietà con i fratelli.
Scrivendo
ai colossesi, ad esempio, Paolo esprime la propria gioia di soffrire
per loro e per tutte le Chiese:
“Ora
io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a
ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne,
a favore del suo corpo che è la Chiesa “ (Col
1,24).
Quindi
li accende di fervore inondandoli di gioia pasquale, ricordando loro
che, in forza di questa sofferenza redentrice, sono ormai risorti con
Cristo, sono figli della luce, figli della gioia: “Rivestitevi
dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di
mansuetudine, di magnanimità [...]. Ma sopra tutte queste cose
rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto” (Col
3,12.14ss), vale a dire: rivestitevi di Cristo e cantate il cantico
dell'uomo nuovo, il cantico della salvezza, in un continuo rendimento
di grazie,
Vivere
nel rendimento di grazie e nella gioia significa essere davvero
rivestiti dei sentimenti di Cristo che nei giorni della sua vita
terrena “esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: "Ti
rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra..," (Lc
10,21ss). Ecco, s. Paolo, quale apostolo di Gesù Cristo - come egli
stesso si dichiara con fierezza e con timore a un tempo - si sente
chiamato a essere collaboratore della gioia nel cuore dei credenti
(cf. 2Cor 1,24). E questa è la vocazione specifica di tutti i
cristiani.
Preparazione
alla gioia del Cielo
La
consegna della gioia del Signore è stato l'impegno anche di tutti
gli altri apostoli e discepoli. Nelle cosiddette Lettere cattoliche
troviamo un vero insegnamento a questo riguardo. Se è vero che la
gioia è dono dello Spirito Santo, è non meno vero che essa va
coltivata, difesa, alimentata. Le persecuzioni, che ben presto si
abbatterono contro quanti abbracciavano il vangelo, potevano generare
sfiducia, paura, dubbio sulla validità stessa del messaggio
cristiano. Ecco allora che s. Pietro nella sua Prima lettera aiuta i
cristiani a leggere con fede la storia. L'eredità, che ci ha
acquistato Cristo con la sua passione e morte, è sicura: è
“conservata nei cieli”; lungo il cammino, poi, siamo custoditi
dalla potenza di Dio “in vista della salvezza che sta per essere
rivelata nell'ultimo tempo”. Per questo, anche se nel tempo
presente i cristiani devono essere afflitti da varie prove, possono
egualmente “esultare di gioia indicibile e gloriosa” (cf. 1Pt
1,6-9).
E
la gioia di cui aveva parlato Gesù nelle sue parabole del Regno: una
gioia che fiorisce nella terra della pazienza. Così s. Giacomo
mostra a modello del credente il contadino:
“Guardate
l'agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della
terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate
costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del
Signore è vicina” (Gc 5,7-8).
Naturalmente
si tratta di non di una pazienza rassegnata», ma piena di fede e di
gioia:
“Considerate
perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove,
sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la
pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e
integri, senza mancare di nulla” (Go 1,2-4).
È
la pazienza che avevano i profeti nell'attesa della venuta del
Messia: "Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di
costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore. Ecco, noi
chiamiamo beati quelli che sono stati pazienti, Avete udito parlare
della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò
il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di
compassione” (Gc 5,10-12).
Proprio
la comunione con tutti coloro che prima di noi hanno portato avanti
la storia della salvezza è per noi sostegno e fonte di gioia. Della
gioia di questa comunione traboccano le lettere dell'apostolo
Giovanni, che, avendo più da vicino attinto alla sorgente del cuore
di Cristo, con i suoi scritti torna a farci contemplare le origini
eterne del la nostra gioia:
“Quello
che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che
abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le
nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si
manifesto, noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi
annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò
a noi - quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a
voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra
comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste
cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena”(16v 1,1-4).
I
discepoli avevano visto e toccato la Gioia divina divenuta visibile
nella persona di Gesù; l'avevano vista affondare nelle tenebre del
Venerdì santo e risorgere all'alba del giorno nuovo, il giorno senza
tramonto. Riempiti della sua presenza, non possono fare a meno di
testimoniarla, anche a prezzo di molte sofferenze, affinché essa
diventi la gioia pura e inalienabile di tutti. Tale gioia è la
comunione con il Padre e il Figlio nell'Amore: è il mistero
ineffabile della ss. Trinità nella cui sfera siamo attirati.
Cosi
quello che era “in principio” – cioè all'origine di tutte le
cose - si trova anche alla fine e rimane per sempre. In principio era
la gioia e sempre rimarrà la gioia: Dio. Questo è il nostro destino
felice. Questo desideriamo ardentemente raggiungere.
“Vita
felice - esclama s. Agostino - è il gaudio per la verità; è quindi
gioire di te che sei la verità, o Dio, mia luce, salvezza del mio
volto, mio Dio. Questa vita beata tutti la vogliono...” Confessioni
X,
23).
Si,
tutti la vogliono, ma come la cercano? «C'è
qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il
bene?
- domanda il Signore. Se, all'udirlo, tu rispondi: Io, così ti
soggiunge: Se vuoi avere la vera ed eterna vita, preserva
la tua lingua dal male, le tue labbra da parole bugiarde, sta'
lontano dal male e fa' il bene, cerca la pace e perseguila- (Prologo
alla Regola di san Benedetto,
15-17).
Bisogna
dunque cercare la gioia sull'unica diritta stra da della verità che
è il vangelo, come ci insegna s. Agostino nelle Confessioni:
“Lontano,
Signore, lontano dal cuore del tuo servo che a te si confessa,
lontano il pensiero che godendo di qualunque gioia possa essere
felice. Vi è infatti una gioia che non è data agli empi, ma a
coloro che ti servono con gratuità - per puro amore - e la gioia di
costoro sei tu stesso. Questa è la vita felice: gioire per te, di
te, a causa di te, Altra felicità non esiste”. (Confessioni
X,
22).
Ti
rendiamo grazie, Signore! Amen! Alleluia!
Tratto
dal libro “ … e al mattino ecco la gioia “ - di sr Anna Maria
Cànopi
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