sabato 27 aprile 2019

ANDAVANO PIENI DI GIOIA... Nella luce gioiosa del Risorto



È sera. I discepoli si trovano là, nel cenacolo, chiusi, assorbiti nella tristezza e paralizzati dalla paura. Il Signore entra attraverso le porte chiuse e li saluta: Pace a voi.» (Gv 20,19). Subito in quella stanza si accende una grande luce. Il testo evangelico annota: «E i discepoli gioirono al vedere il Signore (Gv 20,20). La luce del Risorto inonda i loro volti e i loro cuori; in questa serena atmosfera i loro occhi lo riconoscono e si riaprono alla speranza.
Poi, lungo i quaranta giorni della sua permanenza tra loro prima di salire al Padre, Gesù risorto rinnova por i discepoli gli appuntamenti della gioia, però non li illude, lasciando loro pensare che il tempo del dolore sia finito. No, per i discepoli il tempo della prova sta per incominciare. Egli predice loro apertamente e ripetutamente le sofferenze cui andranno incontro. Se vogliono essere suoi testimoni, annunziatori del vangelo e cooperatori di salvezza, devono necessariamente partecipare anche alla sua croce. Solo attraverso questa partecipazione alla sua sofferenza potranno partecipare anche alla sua risurrezione ed entrare in quella pienezza di gioia che coincide con la pienezza di vita in lui. La luce del mattino di Pasqua è soltanto il primo bagliore; è soltanto l'alba del giorno che dove crescere fino al pieno meriggio e non conoscere tramonto.

Con una scelta molto appropriata, dal profondo significato spirituale, nelle ultime settimane del tempo di Pasqua la liturgia propone per la santa messa feriale la lettura continua dei capitoli 14-17 del Vangelo secondo Giovanni, dove sono riportati i discorsi di addio, il testamento spirituale lasciato da Gesù ai suoi discepoli. Il messaggio in essi racchiuso, infatti, non riguarda solo il tempo della passione, ma si addice più ampiamente a tutto il tempo che intercorre tra l'ascensione di Cristo al Padre e il suo ritorno glorioso: riguarda tutto il tempo della Chiesa pellegrinante, il nostro tempo, quello che viviamo di giorno in giorno. Sono dunque pagine che dovremmo sempre lasciar riecheggiare nel cuore, tenerle particolarmente presenti, perché illuminano la nostra storia, ci offrono la chiave di lettura di tanti eventi altrimenti sconcertanti. Tutto quello che Gesù ci ha detto nel suo testamento, tutto quello cui in quell'ora suprema ci ha esortato - e cioè di rimanere in lui, di voler ci bene, di osservare i suoi comandamenti - è stato detto per noi, perché «la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Gesù fa tutto per la nostra gioia: la sua stessa morte non ha altro scopo che questo. Ma di che gioia si tratta? È gioia pasquale, gioia di vita risorta, gioia che sgorga dalla vittoria sulla tentazione, sul peccato, sul male: sul mondo ancora sotto l'inganno del maligno.
Per questo la promessa della gioia è intrinsecamente unita alla necessità del combattimento spirituale: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,21). Il mondo perseguita i discepoli di Cristo proprio perché non sono del mondo, non si adeguano alla sua mentalità e lo contraddicono. Di conseguenza, per il cristiano la sofferenza è una necessità. Occorre, però, viverla unitamente al Cristo, facendo di essa una «pasqua", un passaggio e rendendola feconda di bene. Quanto ciò sia difficile, lo dimostra il fatto che Gesù sottolinea i pericoli e le insidie in mezzo a cui i suoi discepoli verranno a trovarsi e per cui potrebbero anche disorientarsi, dubitare, non saper più riconoscere la via giusta, come spesso accade ai nostri giorni: “Vi scacceranno dalle sinagoghe: anzi, viene l'ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio” (Gv 16,2).
Insieme all'avvertimento, Gesù offre anche l'indicazione di come affrontare la prova per non venirne schiacciati, per non lasciarsi ammaliare dal tentatore (cf. Gal 3,1), ma uscirne vincitori. Nelle sue parole ritorna un tema che riveste tanta importanza in tutta la s. Scrittura, in tutta la storia del popolo eletto, cioè il tema della memoria»: «Vi ho detto queste cose affinché, quando verrà la loro ora, ve ne ricordiate, perché io ve l'ho detto» (Gv 16,4). Ricordando quanto Gesù ha detto loro, facendo memoria delle sue parole, della sua vita e della sua morte, i discepoli non si perderanno d'animo, non si scandalizzeranno, perché sapranno che si tratterà - come fu per Gesù stesso - del doloroso passaggio che approda alla gioia, della Via crucis che conduce alla risurrezione. Ma Gesù offre ai suoi discepoli ancora qualcosa di più: egli promette che non li lascerà soli, che ritornerà, che lo rivedranno e che in quel giorno la loro gioia sarà piena, una gioia che nessuno potrà più togliere; anzi, promette addirittura che sarà sempre con loro e che la loro gioia può iniziare fin d'ora, fin d'ora egli vuole che vivano l'inevitabile sofferenza con animo lieto.
È l'esperienza che ci hanno lasciato molti martiri, Origene arrivava addirittura a scrivere che il cristiano può generare la gioia:
«Tu generi la gioia se tutto stimerai gioia, quando ti imbatterai in varie tentazioni e offrirai questa gioia in sacrificio a Dio. E quando ti avvicinerai lieto a Dio, egli ti renderà nuovamente quello che avrai offerto, e ti dirà: "Di nuovo mi vedrete e gioirà il vostro cuore e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia". Così dunque riceverai moltiplicato quello che avrai offerto a Dio (Omelia ottava sulla Genesi).
Offrire la propria sofferenza, la propria povertà con «Viso lieto è proprio quanto noi spesso trascuriamo di fare, ritenendo meglio presentare a Dio le nostre lamentele per il costo della vita", per il prezzo troppo alto del nostro essere cristiani, Occorre una conversione radicale, occorre scoprire il segreto dei santi: essi, camminando in questa “valle di lacrime”, non perdevano mai di vista la meta del pellegrinaggio: la celeste Gerusalemme, là dove - come dice l'Apocalisse – saranno raggianti di felicità quelli che, passati attraverso la “grande tribolazione della presente vita, avranno lavato le loro vesti nel sangue dell'Agnello, si saranno cioè purificati mediante la sofferenza che li ha resi partecipi della croce del Redentore” (cf. Ap 7,9-15):

Non avranno più fame ne avranno più sete, non li colpirà il sole ne arsura alcuna, perché l'Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”Ap 7,16-17).
I verbi della promessa sono al futuro, ma questo futuro di salvezza e di gioia già ci appartiene, già trasfigura le fatiche del quotidiano cammino, se ogni passo è compiuto nella fede, nella speranza e nell'amore.
Ritornando ai discorsi di addio, è interessante notare che in essi si forma una specie di contrasto, si trovano verbi che indicano la partenza di Cristo dai suoi e, contemporaneamente, verbi che esprimono il suo “rimanere”. Il momento culminante si raggiunge nella splendida e commovente preghiera sacerdotale del capitolo 17 del Vangelo ili Giovanni, Gesù prega per i suoi; prega il Padre. E che cosa chiede? Che egli stesso li custodisca e li renda felici:

Ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, per ché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia. Io ho dato loro la tua parola e il mondo li ha odiati, perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,13-14)
Indicibile sofferenza di Cristo! Egli sa quale sorte toccherà ai suoi discepoli e vorrebbe evitarla loro, ma sa anche che solo per quella via potranno giungere alla meta beata.
Per i discepoli la gioia di vedere Gesù nei quaranta giorni dopo la sua risurrezione si fa poi gioia di contemplarlo mentre sale al cielo, S. Luca, narrando come avvenne l'ascensione di Cristo, diventa un vero pittore. A vivaci pennellate ritrae i discepoli: gli occhi spalancati verso l'alto, occhi che cercano di penetrare le profondità del cielo e del cielo sembrano rapire la luminosità, la bellezza, la forza di attrazione. Subito dopo, infatti, ricolmi della sua presenza spirituale, interiore, sicuri della fedeltà della sua Parola, ritornano correndo a Gerusalemme e sono pieni di gioia:

Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio”(Lc 24,52-53).

Inizia il tempo dell'attesa: emblematica nel primo capitolo degli Atti degli apostoli la descrizione della prima comunità. Nel cenacolo, luogo carico di memoria, gli apostoli con Maria, la Madre di Gesù, stanno radunati in preghiera, in attesa dell'effusione dello Spirito Santo; è un'attesa già tutta pervasa di gioia perché è pervasa di fede, di speranza, di sicurezza nell'avverarsi della parola che il Signore ha detto loro.
Lo Spirito Santo, che viene loro donato nel giorno di Pentecoste, è una forza che li investe dall'alto, una specie di ebrietas, di ebbrezza spirituale che li spinge a parlare di Gesù ex abundantia cordis, dalla pienezza del cuore. Essi sono così ricolmi di grazia divina da traboccarne. È loro gioia, quindi, poter parlare del Cristo risorto, proclamare il suo nome, annunziare il suo vangelo nonostante le minacce e le persecuzioni. Anzi, questa gioia interiore li fa esultare proprio nelle tribolazioni e nelle sofferenze patite per lui.
Un giorno, dopo essere stati flagellati, minacciati e imprigionati, gli apostoli furono di nuovo lasciati in libertà a condizione che smettessero di parlare di “quel Galileo” ma essi “se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù” (At 5,41).
In latino l'espressione è bellissima: Ibant gaudentes, se ne andavano saltando di gioia: per loro era un vanto, un motivo di fierezza l'avere patito qualche cosa per colui che tanto aveva patito per loro. Non più impauriti dalle minacce dei capi dei giudei, “ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo” (At 5,42).
Davvero è un lieto annunzio quello che essi coraggiosamente diffondono! Il vangelo della gioia, portato dovunque con franchezza ed entusiasmo, fa aumentare il numero dei credenti. E mentre cresce il nucleo originario della prima comunità, cresce anche la gioia.
Questa gioia dei discepoli consiste proprio nel fare comunione, nello stare insieme fraternamente a pregare, a loda Te il Signore, a condividere i beni, a spezzare insieme il pane, cioè a celebrare l'eucaristia, memoriale della passione-morte-risurrezione del Signore. Attorno a loro si crea un'atmosfera di novità e di stupore che diventa una forza evangelizzatrice.
Attraverso quei primi credenti la gioia del vangelo si diffonde anche in altre città, in mezzo ad altre popolazioni, Segno e dono dello Spirito Santo, la gioia caratterizza coloro che ricevono il sacramento del battesimo, come attestano ampiamente gli Atti degli apostoli. Ad esempio, quando Filippo andò ad annunziare il vangelo in una città della Samaria, trovò una folla di persone attente all'ascolto, piene di stupore per le meraviglie che vedevano e pronte all'adesione di fede. Molti, dunque, si fecero battezzare e “vi fu grande gioia in quella città” (cf. At 8,8). Anche nel singolare incontro tra Filippo e l'etiope, dopo che questi ebbe ricevuto il battesimo e l'apostolo era scomparso dalla sua vista, portato altrove dallo Spirito, il neobattezzato proseguì il suo cammino “pieno di gioia”, di quella gioia che viene dall'alto. Si riconosce in questo pagano, che viaggiava leggendo senza comprenderlo il libro di Isaia, la sovrabbondanza della gioia messianica annunziata dai profeti per tutti gli uomini.
In tal modo la Chiesa “si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero” (At 9,31), portava agli altri l'annunzio della salvezza perché dentro le urgeva l'amore, il dinamismo della vita divina che tende sempre a effondersi, a comunicarsi, a donarsi.
I passi della Chiesa nascente, dapprima piccoli e timidi, poi sempre più arditi, diventano una vera e propria corsa con la conversione dell'apostolo delle genti.
Con la predicazione di Barnaba e Paolo ad Antiochia, infatti, veniamo a trovarci in pieno mondo pagano. E gli Atti non mancano di annotare che i pagani “si rallegravano e glorificavano la parola del Signore” (cf. At 13,48), mentre “i discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo” (At 13,52): eppure, erano a tal punto perseguitati da dover lasciare la città... Stupendo! Questo è il miracolo della carità nel cuore dei fedeli.

La gioia pasquale dell'apostolo delle genti

Folgorato e conquistato dall'incontro con Gesù sulla strada di Damasco, mentre si recava a perseguitare i credenti in lui, s. Paolo diventò uno dei più grandi diffusori della gioia nel mondo pagano. “C'è in lui – ha potuto scrivere Igino Giordani – il genio del conquistatore, per cui ricorda Alessandro Magno (San Paolo, in G. BARRA, Santi per oggi, Borla, Torino 1955, 127) e Mario Luzi ne ha parlato come di una persona incendiata dal fuoco di profezia» che “mentre parla per istruire si illumina egli stesso, è abbagliato e scosso dalla forza di ciò che sul momento gli si presenta come nuovo argomento di rivelazione. Non cessa dunque di essere in atto profeta. E il primo a far sentire la fede come sublime non-senso... Esaspera ed enfatizza questa differenza per aumentare lo scandalo della rottura, per mettere in chiaro una volta per sempre la natura sconvolgente della fede” (La porta del cielo, Piemme, Casa le Monferrato (AL) 1977, 16.73).
Sulla via di Damasco, Paolo fa l'esperienza interiore del Cristo crocifisso e risorto. Da questo incontro rimane come stigmatizzato: per sempre porterà impresse nel suo corpo e nel suo spirito le ferite gloriose del Cristo. Da tutte le sue lettere traspare che la gioia di Paolo gronda sempre con il sangue della croce, e, viceversa, la sua sofferenza è sempre illuminata dalla luce gloriosa della risurrezione. Come nel Vangelo secondo Giovanni, egli vive sempre l'unità in atto del mistero pasquale; c'è sempre l'esperienza del Cristo crocifisso e insieme risorto. E con questo sguardo legge la storia e contempla il creato.
Nel grandioso capitolo ottavo della sua Lettera ai Romani, Paolo esprime il gemito dell'umanità e di tutta la creazione come travaglio di parto, come passaggio alla vera vita mediante una nuova nascita. L'intera umanità e tutta la creazione gemono, ma in questo gemito si fa strada un grido di esultanza. Mentre tutto piange, al contempo tutto gioisce in modo indicibile passando dalla croce alla gloria, Per questo un ruolo centrale nelle lettere di Paolo ha pure la virtù della speranza, strettamente legata alla gioia. Come afferma ancora scrivendo ai romani: “nella speranza siamo stati salvati” (Rm 8,24). «I cristiani hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell'insieme che la loro vita non finisce nel vuoto. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente. Cosi possiamo ora dire: il cristianesimo non era soltanto una "buona notizia"..., una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del tempo, del futuro, è stata spalancata, Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova” (BENEDETTO XVI, Spe salvi 2).
Siamo dunque ancora in cammino; dobbiamo soffrire per passare alla pienezza della gioia nella luce gloriosa del Regno, tuttavia il saperci su un cammino sicuro già trasfifura il dolore, Cosi nella Seconda lettera ai Corinzi s. Paolo parla delle sue debolezze e delle sue tribolazioni, di tutto quello che ha patito nel suo avventuroso viaggio apostolico, in termini di beatitudine.
In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo” (2Cor 4,8-10).
E poco oltre afferma ancora:
In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio con molta fermezza: nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; [...] afflitti, ma sempre lieti”(2Cor 6,4-5,10).
Sul piano della logica umana tutto è paradossale, ma sul piano della fede ogni cosa è nel suo giusto ordine. Essere partecipi del mistero pasquale di Gesù è l'esperienza più beatificante, perché il vero segreto della gioia è sempre l'amore. Si trova grande gioia, dunque, nel saper dare e darsi generosamente con spirito di fede e di carità; si trova gioia anche nell'aiutarsi a scoprire e a riconoscere il male, il peccato che ci separa da Dio e ci porta alla tristezza.
Per questo, s. Paolo si dice contento d'aver scritto ai Corinzi una lettera severa che li ha rattristati, ma che anche li ha stimolati al pentimento, dopo il loro riprovevole comportamento:
Se anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se mi è dispiaciuto - vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tempo, vi ha rattristati -, ora ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e cosi non avete ricevuto alcun danno da parte nostra, perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte” (2Cor 7,8-10).
Tornando poi alla propria personale esperienza, s. Paolo confida umilmente che il Signore gli ha dato una prova senza tregua, una spina nella carne, e che alla sua supplica per esserne liberato gli ha risposto: “Ti basta la mia grazia” (2Cor 12,9). Egli, dunque, accettando volentieri e umilmente le proprie debolezze, esce in quella stupenda esclamazione: “Superabundo gaudio in infirmitatibus meis sovrabbondo di gioia nelle mie infermità. Perché? Perché è lì che si può sperimentare maggiormente la potenza di Cristo: “Quando sono debole, e allora che sono forte” (2Cor 12,10).
Proprio in base alla sua esperienza l'apostolo può con verità infondere coraggio ed esortare gli altri. Quando, concludendo la sua “lettera severa”, esorta i corinzi a essere nella gioia, le sue parole non sono solo un augurio, ma hanno la forza del “comandamento”.
Fratelli, siate gioiosi, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell'amore e della pace sarà con voi” (2Cor 13,11).
Il cristiano non può accontentarsi di singoli momenti di gioia dovuti a situazioni particolarmente felici, egli tende a essere lui stesso presenza di gioia, irradiazione della gioia che lo inabita.
La gioia, infatti, come dice ancora s. Paolo nella Lettera ai Galati, è frutto dello Spirito Santo (Gal 5,22). Il segreto della gioia è perciò vivere secondo lo Spirito. Se è cosi, bisogna allora guardarsi dallo spegnere lo Spirito, poiché si spegnerebbe la fonte di tutti i buoni frutti (cf. Ef 4,30). Se con una condotta indegna contristiamo soffochiamo, mortifichiamo - lo Spirito Santo che è in noi, diventiamo terreno arido; i frutti della grazia non possono maturare e il lavoro dell'Agricoltore è reso vano, mentre siamo stati creati per essere «lode della sua gloria» (cf. Ef 1,12), cioè per essere un canto di gioia a colui che per primo ci ha amato e che in Cristo ci ha benedetto con ogni benedizione spirituale
La Lettera ai Filippesi ci offre un modello di un'intera comunità matura nella fede, raggiante di gioia cristiana. Fin dal saluto iniziale S. Paolo si rivolge a quei suoi carissimi figli con un inno di ringraziamento, perché il loro ricordo è per lui motivo di gioia e di consolazione (cf. Fil 1,3ss), “perché a voi è stata data la grazia non solo di credere in lui, ma anche di soffrire per lui, sostenendo la stessa lotta che mi avete visto sostenere e sapete che sostengo anche ora” (Fil 1,29-30). Accennando quindi alle sue sofferenze mentre è in prigione, Paolo giunge ad affermare:
Anche se io devo essere versato sul sacrificio e sull'offerta della vostra fede, sono contento e ne godo con tutti voi. Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me”(Fil 2,17-18).
Nella stessa Lettera raccomanda di accogliere con premura e con grande carità Epafrodito che sta tornando tra loro, perché ha molto sofferto per il vangelo.
Proprio perché vede questi neo-cristiani così ferventi e ben saldi nel cammino di fede, l'apostolo, con accenti vibranti di affetto e di commozione, dice:
Rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi" (Fil 2,2).
S. Paolo è molto consapevole che non basta formare i singoli cristiani, occorre che essi formino Chiese visibili, comunità in cui risplenda la testimonianza dell'amore reciproco. Questo senso della comunione e della reciprocità costituisce una vera e propria caratteristica della teologia paolina. Nelle sue lettere sovrabbondano i verbi formati con la preposizione “cum", “con”, che indica la profonda unione del cristiano al mistero di Cristo: si patisce con lui, si gioisce con lui; in lui si è battezzati, con lui si muore, con lui si risorge. Sovrabbonda però anche il “pro”, «per» di solidarietà con i fratelli.
Scrivendo ai colossesi, ad esempio, Paolo esprime la propria gioia di soffrire per loro e per tutte le Chiese:
Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa “ (Col 1,24).
Quindi li accende di fervore inondandoli di gioia pasquale, ricordando loro che, in forza di questa sofferenza redentrice, sono ormai risorti con Cristo, sono figli della luce, figli della gioia: “Rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità [...]. Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto” (Col 3,12.14ss), vale a dire: rivestitevi di Cristo e cantate il cantico dell'uomo nuovo, il cantico della salvezza, in un continuo rendimento di grazie,
Vivere nel rendimento di grazie e nella gioia significa essere davvero rivestiti dei sentimenti di Cristo che nei giorni della sua vita terrena “esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: "Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra..," (Lc 10,21ss). Ecco, s. Paolo, quale apostolo di Gesù Cristo - come egli stesso si dichiara con fierezza e con timore a un tempo - si sente chiamato a essere collaboratore della gioia nel cuore dei credenti (cf. 2Cor 1,24). E questa è la vocazione specifica di tutti i cristiani.

Preparazione alla gioia del Cielo

La consegna della gioia del Signore è stato l'impegno anche di tutti gli altri apostoli e discepoli. Nelle cosiddette Lettere cattoliche troviamo un vero insegnamento a questo riguardo. Se è vero che la gioia è dono dello Spirito Santo, è non meno vero che essa va coltivata, difesa, alimentata. Le persecuzioni, che ben presto si abbatterono contro quanti abbracciavano il vangelo, potevano generare sfiducia, paura, dubbio sulla validità stessa del messaggio cristiano. Ecco allora che s. Pietro nella sua Prima lettera aiuta i cristiani a leggere con fede la storia. L'eredità, che ci ha acquistato Cristo con la sua passione e morte, è sicura: è “conservata nei cieli”; lungo il cammino, poi, siamo custoditi dalla potenza di Dio “in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell'ultimo tempo”. Per questo, anche se nel tempo presente i cristiani devono essere afflitti da varie prove, possono egualmente “esultare di gioia indicibile e gloriosa” (cf. 1Pt 1,6-9).
E la gioia di cui aveva parlato Gesù nelle sue parabole del Regno: una gioia che fiorisce nella terra della pazienza. Così s. Giacomo mostra a modello del credente il contadino:
Guardate l'agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina” (Gc 5,7-8).
Naturalmente si tratta di non di una pazienza rassegnata», ma piena di fede e di gioia:
Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la vostra fede, messa alla prova, produce pazienza. E la pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla” (Go 1,2-4).
È la pazienza che avevano i profeti nell'attesa della venuta del Messia: "Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore. Ecco, noi chiamiamo beati quelli che sono stati pazienti, Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione” (Gc 5,10-12).
Proprio la comunione con tutti coloro che prima di noi hanno portato avanti la storia della salvezza è per noi sostegno e fonte di gioia. Della gioia di questa comunione traboccano le lettere dell'apostolo Giovanni, che, avendo più da vicino attinto alla sorgente del cuore di Cristo, con i suoi scritti torna a farci contemplare le origini eterne del la nostra gioia:
Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si manifesto, noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi - quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena”(16v 1,1-4).
I discepoli avevano visto e toccato la Gioia divina divenuta visibile nella persona di Gesù; l'avevano vista affondare nelle tenebre del Venerdì santo e risorgere all'alba del giorno nuovo, il giorno senza tramonto. Riempiti della sua presenza, non possono fare a meno di testimoniarla, anche a prezzo di molte sofferenze, affinché essa diventi la gioia pura e inalienabile di tutti. Tale gioia è la comunione con il Padre e il Figlio nell'Amore: è il mistero ineffabile della ss. Trinità nella cui sfera siamo attirati.
Cosi quello che era “in principio” – cioè all'origine di tutte le cose - si trova anche alla fine e rimane per sempre. In principio era la gioia e sempre rimarrà la gioia: Dio. Questo è il nostro destino felice. Questo desideriamo ardentemente raggiungere.
Vita felice - esclama s. Agostino - è il gaudio per la verità; è quindi gioire di te che sei la verità, o Dio, mia luce, salvezza del mio volto, mio Dio. Questa vita beata tutti la vogliono...” Confessioni X, 23).
Si, tutti la vogliono, ma come la cercano? «C'è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene? - domanda il Signore. Se, all'udirlo, tu rispondi: Io, così ti soggiunge: Se vuoi avere la vera ed eterna vita, preserva la tua lingua dal male, le tue labbra da parole bugiarde, sta' lontano dal male e fa' il bene, cerca la pace e perseguila- (Prologo alla Regola di san Benedetto, 15-17).
Bisogna dunque cercare la gioia sull'unica diritta stra da della verità che è il vangelo, come ci insegna s. Agostino nelle Confessioni:
Lontano, Signore, lontano dal cuore del tuo servo che a te si confessa, lontano il pensiero che godendo di qualunque gioia possa essere felice. Vi è infatti una gioia che non è data agli empi, ma a coloro che ti servono con gratuità - per puro amore - e la gioia di costoro sei tu stesso. Questa è la vita felice: gioire per te, di te, a causa di te, Altra felicità non esiste”. (Confessioni X, 22).

Ti rendiamo grazie, Signore! Amen! Alleluia!

Tratto dal libro “ … e al mattino ecco la gioia “ - di sr Anna Maria Cànopi

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