venerdì 26 aprile 2019

L’accusa dei peccati...



Quando ci si va a confessare occorre accusare i singoli peccati. Senza questa condizione la Confessione non è valida, perché non ci si deve limitare a denunciare solo uno stato generale di lontananza da Dio: «Sono peccatore... ho vissuto male...» o espressioni simili; l'azione della grazia agisce, infatti, sul singolo peccato accusato. Non sembri un linguaggio troppo tecnico, che tolga qualcosa al mistero della misericordia di Dio, o trasformi la Confessione in un mero atto giuridico (l'elenco dei peccati...): di fatto è invece l'espressione più bella e vera del nostro pentimento. Nella società civile, se io vengo colto in fallo per aver rubato una bicicletta, verrò chiamato in giudizio e sarò processato non per abuso edilizio o per essere “un ladro” in generale: verrò giudicato su quel furto, sul valore di quella bicicletta, sulle circo stanze specifiche e il giudice valuterà se vi siano più o meno attenuanti: vi sono stato costretto? L'ho fatto per fare un dispetto? Per vendetta? È giusto che vi sia una valutazione di questo genere.
Quando vado dal medico, non gli dirò: «Sto male», oppure: «Ho dolore da qualche parte»; gli dovrò dire quale parte precisa del corpo mi fa male (il fegato, l'orecchio, il polpaccio...), quando è comparso il dolore, che sintomi ed effetti sono venuti di conseguenza. Anzi, più domande il medico mi farà e maggiore sensazione di serietà e professionalità mi darà.

Così è anche la Confessione sacramentale. Ho commesso un peccato, quel peccato, quel certo preciso peccato, e mentre commettevo quell'atto, dicevo quella parola, lasciavo libero sfogo a quel sentimento e a quella passione, mi allontanavo da Dio. Occorre dire il peccato preciso, quello che ho nella memoria e nel cuore, perché è proprio quello che mi ha allontanato dalla bontà di Dio e mi ha gettato nell’Inferno – se mortale – o mi ha comunque allontanato dalla grazia – se veniale.
Occorre dunque ricordare bene il peccato: vado a confessare quello e a ricevere l'assoluzione per quel singolo peccato, non per altri, né ricevo assoluzione per uno stato di peccaminosità in generale. No, il medico interviene con il suo raggio laser – il perdono – su un oggetto specifico: non punterà il raggio laser su un piede se la parte malata è la mano.
Vediamo ora alcuni errori che si possono commettere quando ci si accusa dei peccati.
Chi si giustifica
Quando ci accostiamo alla Confessione non andiamo per giustificarci, non dobbiamo valutare noi stessi la situazione: noi dobbiamo soltanto confessare i peccati. Travisando completamente il significato del perdono, alcuni si mettono nell'atteggiamento di non fare brutta figura con il sacerdote: «Ho fatto questo, ma è perché quella giornata ero nervoso; ho detto una parola sbagliata, ma è colpa di mia suocera che mi ha fatto arrabbiare; ho mentito, ma l'ho fatto per il bene e per evitare discussioni...». Questo è un errore. Si deve dire solo: «Ho fatto questo», e basta. E se si vuole aggiungere qualcosa si può dire: «Ho fatto questo, è colpa mia, soltanto mia, non lo dovevo fare, chiedo perdono a Dio e chiedo di ricevere il perdono per questo mio peccato».
Quale pena è per noi sacerdoti ascoltare queste autogiustificazioni! La persona che ci sta di fronte non si umilia per niente: si giustifica da sé. Il sacramento allora è invalido perché il peccato viene detto e auto-assolto immediatamente dal penitente stesso, anzi, giustificato come se il peccato ci volesse”: «Ho detto una bugia, ma ci voleva per mantenere la pace in famiglia». Ma come, un peccato che “ci vuole”? Quando mai un peccato è necessario? Dov'è scritto? Chi l'ha detto mai? Il male non è mai necessario.
Occorre allora fermarsi all'accusa e semmai far seguire qualche istante di silenzio... questo è il modo corretto: «Ho fatto questa azione, ho detto questa parola», poi qualche istante di sospensione, in cui ci torna alla mente l'errore, ne vediamo meglio il colore, il cattivo effetto, ne assumiamo la responsabilità. Per questa accusa ci vuole sobrietà e piena sincerità, per quanto questo possa farci provare vergogna. Meglio, anzi, se si prova vergogna: è l'amor proprio che si sgretola.
Le vane parole
Il penitente non deve perdersi in lunghi discorsi, perché la Confessione non è la conversazione su temi di fede o la direzione spirituale: è il ricorso dal tuo giudice e dal tuo medico. Dio sta per intervenire con potenza su di te e occorre aprirgli la porta. Tu devi solo dirgli il peccato. Ma come, non lo sa già?
Certo che lo sa, ma tu dicendolo lo oggettivi meglio, lo vedi, lo riguardi, lo riconsideri, affinché appaia ai tuoi occhi nella sua realtà obiettiva e tu ti proponga di non ripetere più quell'esperienza dolo rosa. I Padri del deserto dicevano che un peccato manifestato è già mezzo vinto, mentre un peccato che si tiene nascosto – di proposito, maliziosamente – rende nulla la Confessione. Tutti i peccati devono essere espressi e manifestati, ma solo quelli. Si può e si deve dare qualche dettaglio di come può essere avvenuto, quali circostanze vi siano state, se è stato commesso una o più volte, se uno ha peccato da solo o con altre persone... ma si parla sempre di quel peccato, quella piaga, quell'azione. Tutto il resto non conta e non va detto. Un buon confessore dovrebbe interrompere una persona che divaga o che parla di tutt'altro, facendola tornare sul peccato da accusare e rimandando la conversazione o direzione ad altro momento, perché lì siamo in sede di sacramento, l'unico dei sette che prevede una parte discorsiva: l'atto del parlare in modo libero senza alcun formulario. Attenzione quindi a non scambiare il sacramento per occasione di conversazione – per quanto pia e devota - e tanto meno in richiesta di consigli di carattere più o meno spirituale o psicologico. Per quello ci devono essere altri momenti e altri luoghi.
Oggi l'uomo ha molto bisogno di parlare e di es sere considerato, ascoltato, accolto, ma non è durante il ministero glorioso della remissione dei peccati, che esige sobrietà e spirito religioso, che tutto ciò deve avvenire. Anche papa Francesco ha chiarito questo affermando: «Confessare i nostri peccati non è andare ad una seduta di psichiatria, neppure andare in una sala di tortura: è dire al Signore “Signore sono peccatore... E sono peccatore per questo, per questo e per questo”.
Concretezza, onestà e anche una sincera capacità di vergognarsi dei propri sbagli: non ci sono viottoli in ombra alternativi alla strada aperta che porta al perdono di Dio, a percepire nel profondo del cuore il suo perdono e il suo amore».
La persona che si umilia parlando del proprio peccato compie un grande passo verso il Signore che, come il padre misericordioso della parabola, non aspetta altro.
Dio non vuole la nostra umiliazione di per sé: desidera donarci il suo perdono, ma a causa dell'orgoglio e dell'indurimento del cuore abbiamo bisogno di riposizionarci, di tornare piccoli e poveri, e per questo non è male provare umiliazione e vergogna, anzi, sarà proprio il Signore che ci risolleverà dalla nostra umiliazione ridonandoci la dignità perduta.
L'importanza della vergogna è richiamata anche da papa Francesco che la definisce una grazia: «Quando noi confessiamo i nostri peccati come sono alla presenza di Dio, sempre sentiamo quella grazia della vergogna. Vergognarsi davanti a Dio è una grazia. È una grazia: “Io mi vergogno”. Pensiamo a Pietro quando, dopo il miracolo di Gesù nel lago: “Ma, Signore, allontanati da me, io sono peccatore”. Si vergognava del suo peccato davanti alla santità di Gesù Cristo».
Questa obbedienza confonde il maligno; egli sa bene che lì, nel confessionale, noi abbandoniamo il suo terreno. Proprio per questo dobbiamo arrivare alla Confessione preparati: dire i peccati e basta. Questo lo annienta, perché di fronte all'azione di Dio, il demonio, non può fare nulla: è costretto a lasciarci andare.
Confessare i peccati e non le tentazioni
Insistiamo ancora: vanno detti i peccati con cuore umile, sincero, contrito. Non si devono raccontare le tentazioni o gli stati d'animo. Alcuni mettono a fuoco le tentazioni avute, poi magari concludono dicendo che hanno resistito e non sono caduti nel peccato. Che dovrebbe fare il confessore a quel punto? Un bell'applauso? Tale incoraggiamento può andare bene, ma fuori dalla sede del sacramento. Le tentazioni possono essere descritte solo nel caso in cui uno abbia ceduto e commesso il relativo peccato; in questo caso il confessore potrà dare un buon consiglio su come cercare di scappare davanti alle tentazioni che si presenteranno in seguito, anche se, pure in questo caso, siamo più nel campo della direzione spirituale che del sacramento: in ogni modo sarà sempre il peccato l'oggetto della Confessione. Meglio dunque non perdere troppo tempo nel descrivere le tentazioni, confondendo appunto il peccato con la tentazione. Anche nostro Signore Gesù fu tentato, ma non entrò mai in un confessionale.
Non ho niente da dire”
Singolare poi la situazione dei penitenti che si accostano alla Confessione e cominciano a raccontare le proprie virtù. È un sotto-tipo di autogiustificazione: «Non ho rubato, non ho ammazzato, ho sempre partecipato alla Messa domenicale, non odio nessuno». Questa sarebbe l'accusa dei peccati? Cosa dovrebbe fare, anche in questo caso, il confessore? Uscire dal confessionale e dare il diploma di buon comporta mento al penitente? Come bene si può comprendere, il caso che stiamo descrivendo è l'anti-confessione. Non c'è nessuna accusa, nessun pentimento – di che cosa ci si dovrebbe pentire– ma solo auto-celebrazione. Quindi non c'è bisogno di assoluzione. Forse il penitente va in confessionale per commettere proprio l'unico peccato, quello di riconoscere le proprio presunte virtù, come fece un giorno il fariseo della parabola (Lc 18,9-14). Allora il sacerdote dovrebbe convincere la persona di quell'unico peccato – di orgoglio – ma rischia di irritare il penitente: «Come osa accusarmi di aver peccato?».
A volte è successo che, dopo l'auto-celebrazione, il sacerdote chieda: «Sì, va bene, ma quali sono i peccati da confessare?», per sentirsi rispondere: «Peccati? Non ne ho fatti. Su questo non ho niente da dire».
Dobbiamo concludere che la persona in questione non solo non sa confessarsi, ma forse non ha mai conosciuto Dio né il demonio, non si rende conto di essere il terreno di battaglia di una terribile lotta.
In tali situazioni occorre chiedere il dono dello Spirito Santo, che ci convinca in quanto al peccato e ci faccia conoscere, anche solo parzialmente, l'abisso della bontà di Dio e del bisogno assoluto che abbia mo di incontrarlo. Sant'Efrem il Siro così pregava: «O Signore, fa' che io veda i miei peccati!». È questa una preghiera da consigliare a chi nel confessionale “non ha niente da dire”.
I peccati degli altri
Alcuni si confessano bene, sì, ma sbagliano persona: confessano i peccati degli altri. Succede quando si vivono situazioni di sofferenza e di ingiustizia a causa del prossimo, e si denuncia questa pena finendo però per dire i peccati degli altri e non quelli propri. Anche in questo caso la Confessione, se rimane così, è sbagliata. Quale malato va dal medi co dicendo le malattie del vicino di casa? Dopo un minuto il medico gli direbbe: «Vada, non ho tempo da perdere!». Potremmo noi biasimare quel dottoreChe cosa può fare sulla tromboflebite del vicino di casa? Proprio niente.
Quando entriamo in confessionale, allora, dimentichiamo completamente i nostri vicini, le sofferenze che ci infliggono, le pene che ci procurano, chiunque essi siano. Facciamo come se fosse l'ultimo istante della nostra vita, soli col Solo, unici davanti a Dio e al suo divino giudizio, faccia a faccia con lui, immaginando di avere solo pochi istanti ancora di vita. Ci dovessimo trovare in quella situazione ci ricorderemmo di sicuro solo dei nostri mali e supplicheremmo una grande pietà, e se per caso dovessimo ricordare il prossimo, sarebbe solo per chiedere pietà anche per lui. Siamo tutti della stessa pasta, siamo tutti pecca tori: chi siamo noi per giudicare le intenzioni e gli errori del prossimo?
La vera accusa dei peccati
Ecco che cosa occorre dunque fare: prepararsi bene, avere in mente quel nostro singolo peccato – se non si ricordano le cose, scriverle su un foglietto, non c'è niente di male in questo –, umiliarsi profondamente davanti a Dio vergognandosi di aver tradito la sua fiducia e rammaricandosi di aver perduto così facilmente la luce della grazia divina. Poi una volta inginocchiati – meglio confessarsi in ginocchio che seduti o in piedi – dire più o meno così: «Ho peccato davanti a Dio, ho commesso questo, l'ho fatto proprio io, pur sapendo che non dovevo farlo perché è male, chiedo umilmente perdono». Basta così. Meno cose si dicono e meglio è, se sono cose che partono dal cuore. Senza tacere per vergogna quanto fatto, anche se si trattasse di cose gravi: i confessori ne hanno sentite di tutti i colori, e poi non è a loro che si parla, ma a Dio. Poi fare una breve pausa, se si vuole, cercando di mettere la nostra vita così com'è, piagata e ferita, sporcata e lacera, davanti al Medico, il quale lavora tanto meglio quanto più noi apriamo il cuore a un'esposizione reale e responsabile del fatto. Se il confessore tace, andiamo avanti ad accusare alla stessa maniera gli altri peccati, con questo tono umile e sobrio, contrito e semplice. Davvero necessario è tenere sempre l'atteggiamento umile, come quello del pubblicano in fondo al tempio, che stava a occhi bassi.
Insisto sull'assumersi pienamente e totalmente la responsabilità di quel peccato, senza scappare: quel peccato l'ho fatto proprio io, sono io il colpevole. Ho colpa piena per questo.
Il confessore che non aiuta
Purtroppo non tutti i confessori sono preparati a questo ministero. Uno dei difetti che si può trovare in loro è che scusano tutto senza mettere realmente il penitente di fronte alla propria responsabilità. «Padre, ho fatto questo». «Ma sì, va beh, forse eri stanco o nervoso». «Padre, ho fatto quest'altro». «Va là... che male vuoi che sia, non preoccuparti». Risponde te: «No, invece mi preoccupo, e molto. Un solo peccato può farmi andare all'Inferno e io non posso minimizzare, dal momento che di anima ne ho una sola e voglio che essa dia gloria a Dio per tutta l'eternità».
Anche l'abito liturgico, per quanto possa sembrare un aspetto secondario nella celebrazione del sacra mento, ha la sua importanza. Il confessore dovrebbe essere sempre con l'abito sacerdotale (il camice e la stola). Si tratta di un sacramento e non di una conversazione. Noi sacerdoti dobbiamo aiutare i penitenti anche con i segni esteriori, quelli usati da sempre nella Chiesa: sono semplici aiuti, però necessari. Una cosa buona può essere anche quella di avere sempre un sacerdote a disposizione per le confessioni, laddove si può. Sapendo che durante certi orari il confessore c'è sempre, senza dover chiedere un appuntamento, vi sarebbe certamente più gente che si confessa.
Il confessore deve essere paterno e severo al tempo stesso. Severo con il peccato: non minimizzarlo, non ridicolizzarlo. Gesù è morto sulla croce per la re missione dei peccati, non per altro. Severo con il peccato: «Sì, quanto hai fatto è davvero male». Paterno: è segno e strumento dell'amore del Padre misericordioso, pronto a riversarsi nel cuore pentito, scoraggiato e deluso del penitente. L'amore, questo grande dono proveniente dal Cuore squarciato di Gesù che si riversa sull'uomo che chiede sinceramente perdono, Il bravo sacerdote fa da tramite tra il penitente e Dio e incoraggia la persona aiutandola a uscire dal rovo pieno di spine in cui è caduto e, dopo avergli curato le ferite, lo assicura della bellezza della grazia ritrovata, esortandolo alla fedeltà e alla perseveranza.
Una buona Confessione, in genere, è breve. Da padre Pio ci si stava pochi istanti, massimo qualche minuto. La stessa cosa dal santo Curato d’Ars. Mi si dirà che avevano file tali di penitenti che non era possibile per loro tenere le persone per ore. Il motivo invece era un altro: padre Pio e il Curato d’Ars confessavano, non ascoltavano discorsi. Quando una persona sta un'ora, due, nel confessionale, sorgono dubbi sulla realtà di quello che sta facendo. In mezz'ora, si dice, si può dire tutta la propria vita. Per
i peccati basta meno.
Tutto ruota, si diceva, sul senso di Dio, della sua bontà. L'accusa potrebbe essere fatta davvero in po che parole se fossimo veramente totalmente pentiti di quel peccato, anche perché una volta detto non avremmo più voglia di parlarne: esso ci brucerebbe e non vedremmo l'ora di sentire le parole: «E ora io ti assolvo...».
Si entra in confessionale per liberarsi delle tenebre e ricevere la luce; per immergersi di nuovo nell'amore insanguinato di Gesù. Sono cose gravi, importanti e, come tutte le cose grandi, sono solenni e sobrie, quindi brevi. Una Confessione sola può cambiarti al vita: a Charles de Foucauld (1858-1916) bastarono pochi minuti. L'azione di Dio fu per lui un fulmine che cadde sul tetto e scoperchiò la casa. Poi ci fu il tempo di tutta l'esistenza per costruire il nuovo edificio: la Confessione altro non fu che il punto di partenza.
Ma, a ben pensare, ogni Confessione vera lo è.
I consigli del confessore
Il confessore dovrebbe attenersi esclusivamente ai peccati ascoltati, cercando di aiutare il penitente a uscirne e a non ricadervi più. Dio è presente nel sacramento con la sua grazia e può ispirare il suo ministro a dire le parole giuste nel momento giu sto. Il buon consiglio può essere un aiuto e, a volte, può essere l'unico che ci arriva: non tutti hanno il padre spirituale cui poter ricorrere con costanza o nel momento del bisogno; per questo motivo il ruolo del sacerdote confessore può essere importante. Ma rimane vero che la Confessione non è la direzione spirituale: è l'assoluzione dei peccati, l'aumento della grazia, la vita nuova in Cristo, il proponimento di vivere per sempre nella luce di Dio.
Sapersi accusare
Una delle condizioni necessarie per la validità del sacramento è il vero pentimento per i peccati commessi. Questo lo si intuisce facilmente: se io non sono pentito dei peccati e vado a confessarmi, non faccio che prendere in giro il sacramento e commettere quindi un sacrilegio, perché il Signore non si irride: Dio non è un gioco e non si sottopone alla falsità.
Un esempio della Sacra Scrittura che ci può aiutare è la vicenda del re Davide e del suo peccato di adulterio con Betsabea prima, e l'assassinio di Uria poi; un doppio gravissimo peccato. Il re Davide è una figura esaltata nella Bibbia, per la fede, l'eroismo e per tante altre buone virtù, tra le quali la generosità e il senso dell'amicizia; ma una volta cadde rovinosa mente: preso dalla passione per la moglie di un altro fece in modo di commettere peccato con lei e successivamente di mandare a morte il marito perché l'adulterio non venisse alla luce. Nessuno si accorse di nulla, ma ovviamente la cosa non poteva sfuggire agli occhi di Dio il quale, per recuperare Davide, gli mandò Natan. Il profeta gli narrò la parabola dell'uomo povero con l'unica pecorella e del ricco con un numeroso gregge che pretese la pecorella del povero per preparare un pranzo a un amico di passaggio. Quando il profeta chiese che cosa ne pensasse il re Davide, questi si indignò e commentò che una tale brutale azione meritava una grave punizione. Natan gli disse: «Guarda che quell'uomo sei tu: sto parlando di te!», e puntandogli contro il dito gli fece capire la gravità di quanto aveva fatto. Il re, subito, replicò: «Ho peccato». Immediata fu la risposta del profeta: «Il Signore ha perdonato il tuo peccato» (2Sam 11 e 12).
Notiamo la prontezza di Davide nel riconoscere la propria colpa: quando viene smascherato, non cerca scuse, non dice: «È colpa di Betsabea che faceva il bagno senza mettere una tenda davanti», o: «È colpa della mia passionalità disordinata, ho gli ormoni scompensati», o: «Sono il re e faccio quello che voglio». Niente di tutto questo, ma due semplici parolette: «Ho peccato». Sono le parole più grandi di tutta la vita di Davide. Sì, Davide l'eroe, colui che sconfigge il gigante Golia, Davide che porta l’Arca a Gerusalemme, Davide che conquista i territori e consolida il regno, Davide... ma anche lui è un po ver’uomo soggetto al peccato. La grandezza di Da vide, dopo il disastro commesso, è quella di alzare le mani e confessare: «Ho peccato», ossia: «Sì, sono stato io, non ci sono altri discorsi da aggiungere».
Ma altrettanto grande è la risposta di Natan! Se io fossi stato il profeta o Dio, gli avrei detto: «E bravo Davide! Con tutto quello che il Signore ti aveva fatto! Bella riconoscenza! Adesso dovrai come mini mo abdicare dal regno, poi fare una penitenza di un anno, chiedere perdono a tutti e forse, ma forse, dopo un bel periodo di solitudine e penitenza, ottenere il perdono e la remissione dei peccati». Niente di tutto questo: bastò che il re alzasse le mani, umilmente, sinceramente, e ottenne l'insperato: «Il Signore ti ha perdonato!».
Come è facile ottenere il perdono di Dio! Basta riconoscersi peccatori!
Sembra facile, ma in realtà è difficile.
Occorre l'umiltà, l'abbassamento di riconoscersi fragili e manchevoli, peccatori e bisognosi. Grande è l'atto di questo sentito riconoscimento, tanto che Dio lo premia con la remissione immediata e totale. Potremo mai capire questo? Sì, se saremo umili. L'orgoglioso invece non può accettare di essere per donato così facilmente: egli non conosce Dio né il suo amore. Davide, a differenza di Zaccheo, del buon ladrone, del pubblicano Levi, non incontra lo sguardo di Dio per pentirsi, e questo ci aiuta a capire che sono tanti i modi per arrivare al pentimento e alla re missione dei peccati. In questo caso egli è tanto umi le da accettare che un amico gli punti contro il dito, in nome di Dio e intimi: «Tu sei quell'uomo!» (2Sam 12,7). Così anche a noi può capitare che qualcuno ci aiuti puntandoci contro il dito. La Chiesa deve fare questo nei confronti del peccato; ringraziamo allora se ogni tanto Dio ci manda un Natan a dirci che siamo peccatori: non difendiamoci, perché spesso ci dice il vero. A questo proposito scriveva il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860): «Gli ami ci si dicono sinceri, ma in realtà sinceri sono i nemici». Gli amici, sembra voler dire il filosofo, vedono le nostre mancanze, ma non sempre hanno il coraggio di venircele a dire, perché temono di offenderci o di perdere l'amicizia. Quando un nemico ci insulta, in vece, spesso ci dice il vero. Dovremmo allora toglie re il fango dell'offesa e lasciare la sostanza di quello che ci ha detto. Essendo un nostro nemico, egli non avrà il timore di perdere la nostra amicizia e anche se quanto detto ci ha urtati gravemente, vi troveremo una verità su noi stessi che altri non riescono a dirci. Anche i nemici, quindi, hanno la loro funzione.
Un penitente timido
Un giorno si presentò a confessarsi un uomo che, per eccessiva timidezza o paura, più che manifestare i propri peccati, cercava di scusarli. Il santo Curato d'Ars, che leggeva nel cuore dei suoi penitenti, lo la sciò fare per un po' di tempo ma poi, interrompendo lo, gli disse con bel garbo:
«Scusi, è venuto per accusarsi o per scusarsi?». «Oh, padre! Per accusarmi!».
«Dunque, si accusi e dica senz'altro: ho pensato così e così; ho fatto così e così; ne è avvenuto questo e questo» e gli disse chiare e tonde tutte le sue mi serie.
Quel poveretto, confuso, ma arcicontento, baciandogli anche le mani, gli domandò: «Ma come ha fatto a sapere tutte queste cose? Chi gliele ha dette?».
«Me le ha dette la sua confusione e paura; o meglio, gliele ho lette nel cuore. Perdoni sa, se l'ho indovinato; non volevo che facesse un sacrilegio e andasse all'Inferno, giacché chi si accusa, Dio lo scusa; chi si scusa, Dio lo accusa».
Ora sei di nuovo mio fratello
Un giorno un uomo entrato nella celletta di san Leopoldo Mandic si ostinava a difendere i suoi numerosi peccati con sottili ragionamenti. Il Santo le aveva provate tutte ma poi, di fronte alla raffinata derisione dell'uomo, si era alzato in piedi e aveva esclamato: «Se ne vada! Se ne vada! Lei si mette dalla parte dei maledetti da Dio!». L'uomo quasi svenne dalla paura e si prostrò a terra piangendo; allora padre Leopoldo lo sollevò e, abbracciatolo, gli disse: «Vedi, ora sei di nuovo mio fratello».
Il diavolo giustifica il peccato
«Padre Pio usava dire che il diavolo è una creatura malvagia, ma resta sempre un angelo decaduto, per ciò dotato di un'intelligenza superiore a quella degli uomini, anche se pervertita. Il Santo di Pietrelcina ebbe modo di sperimentare tale intelligenza, subdolamente sottile. E la sperimentò in un modo del tutto singolare.
Satana un giorno si è “confessato” da padre Pio! Il padre, dopo una mia pressante richiesta, mi ha raccontato come erano andate le cose: “Una mattina, mentre stavo confessando gli uomini, mi si presenta un signore alto, snello, vestito con una certa raffinatezza e dai modi garbati, gentili. Inginocchiatosi, questo sconosciuto incomincia a palesare i suoi pec cati che erano di ogni genere contro Dio, contro il prossimo, contro la morale, tutti aberranti.
Mi colpì una cosa: per tutte le accuse, dopo la mia riprensione, fatta adducendo come prova la Parola di Dio, il Magistero della Chiesa, la morale dei santi, questo enigmatico penitente controbatteva le mie parole giustificando, con estrema abilità e con ricercatissimo garbo, ogni genere di peccato, svuotandolo di qualsiasi malizia e cercando allo stesso tempo di rendere normali, naturali, umanamente indifferenti tutti gli atti peccaminosi. Le risposte che questo enigmatico penitente dava di volta in volta alle mie argomentazioni, con abile sottigliezza e con ovattata malizia, mi impressionavano. Tra me e me, interrogandomi, dicevo: “Chi è costui? Da che mondo vie ne? Chi sarà mai?'. E cercavo di fissarlo bene in volto per leggere eventualmente qualcosa tra le pieghe del suo viso; e allo stesso tempo aguzzavo le orecchie a ogni sua parola in modo che nessuna di esse mi sfuggisse per soppesarle in tutta la loro portata.
A un certo momento, per una luce interiore vivida e fulgida, percepii chiaramente chi era colui che mi stava dinanzi. E con tono deciso e imperioso gli dissi: “Dì: viva Gesù, viva Maria!'.
Appena pronunziati questi soavissimi e potentissimi nomi, Satana sparì all'istante in un guizzo di fuoco, lasciando dietro a sé un insopportabile fetore”».
Confessioni brevi
Scrive un monsignore di Padova: «La Confessione con padre Leopoldo era ordinariamente brevissima. Egli ascoltava, perdonava, non molte parole, spesso anche in dialetto quando si rivolgeva a persone non istruite, qualche motto, uno sguardo al crocifisso, talvolta un sospiro. Sapeva che in via ordinaria le Confessioni lunghe sono a scapito del dolore e sono, il più delle volte, accontentamento di amor proprio, pertanto sulla modalità della Confessione si atteneva a quanto indicato nel catechismo della dottrina cristiana».
In una lettera indirizzata a un sacerdote, padre Leopoldo scrive: «Mi perdoni padre, mi perdoni se mi permetto... ma vede, noi nel confessionale non dobbiamo fare sfoggio di cultura, non dobbiamo parlare di cose superiori alla capacità delle singole anime, né dobbiamo dilungarci in spiegazioni, altrimenti, con la nostra imprudenza, roviniamo quello che il Signore va in esse operando. E Dio, Dio solo che opera nelle anime! Noi dobbiamo scomparire, limitarci ad aiutare questo divino intervento nelle misteriose vie della loro salvezza e santificazione».
La maldicenza
Si racconta che un giorno una donna, notoriamente chiacchierona, andò a confessarsi da san Filippo Neri. Egli, dopo averla ascoltata attentamente, le diede una curiosa penitenza: «Vai a casa, spenna una gallina, e spargi le sue piume per tutta la città. Poi torna da me». La donna, benché stupita, fece ciò che il confessore le aveva comandato e, tornata, si sentì dire: «La penitenza non è finita. Ora va' e raccogli tutte le piume che hai sparso». «Ma è impossibile», rispose lei sconsolata. «Ed è così per ciò che hai fatto con le tue chiacchiere. Non è possibile rimediare al male che è stato fatto».
La bugia
Un giorno, un signore disse a padre Pio: «Padre, dico bugie quando sono in compagnia, tanto per te nere in allegria gli amici». E padre Pio rispose: «Eh, vuoi andare all’Inferno scherzando?!».
L'aborto
Un altro giorno, in sacrestia di fronte al confessionale, dove padre Pio ascoltava i penitenti, attendeva il suo turno Mario Tentori, seduto sulla panca. Mentre era intento a fare il suo esame di coscienza, sentì il padre gridare: «Vai via, animale, vai via!». Le parole del Santo erano indirizzate a un uomo che si era appena inginocchiato ai suoi piedi per confessarsi e che usciva da dietro la tendina umiliato, sconvolto e confuso.
Il giorno dopo Mario si mise sul treno a Foggia per far ritorno a Milano. Prese posto in uno scompartimento in cui c'era un solo viaggiatore. Questi cominciò a guardarlo ed esprimeva nel suo atteggiamento voglia di iniziare un discorso. Finalmente ruppe gli indugi e domandò: «Tu ieri non eri a San Giovanni Rotondo, in sacrestia, per confessarti da padre Pio?».
«Sì!» rispose Tentori.
Riprese l'altro: «Noi eravamo seduti sulla stessa panca, io ti precedevo nel turno. Io sono quello che padre Pio ha cacciato, appellandolo col titolo di “ani male”. Ricordi?».
«Sì!», disse ancora Mario.
Continuò il compagno di viaggio: «Voi che stava te intorno al confessionale forse non avete sentito le parole che hanno motivato il padre a cacciarmi via. Ebbene, padre Pio ha detto testualmente: “Vai via, animale, vai via, perché d'accordo con tua moglie hai abortito tre volte”».
Continuò: «Capisci? Il Padre ha detto hai abortito!». E ancora: «Si è diretto a me, perché l'iniziati va di fare abortire mia moglie era partita sempre da me».
E scoppiò in un pianto dirotto che esprimeva – come egli stesso confessò – dolore, volontà di non peccare più e la ferma determinazione di tornare da padre Pio per ricevere l'assoluzione e cambiare vita.
Il rigore di padre Pio aveva salvato la vita di un padre che, dopo aver negato la vita a tre creature, sta va correndo il pericolo di perdersi per tutta l'eternità.

Tratto dal libro “ Dio perdona sempre” di padre Serafino Tognetti






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