Quando
ci si va a confessare occorre accusare i singoli peccati. Senza
questa condizione la Confessione non è valida, perché non ci si
deve limitare a denunciare solo uno stato generale di lontananza da
Dio: «Sono peccatore... ho vissuto male...» o espressioni simili;
l'azione della grazia agisce, infatti, sul singolo peccato accusato.
Non sembri un linguaggio troppo tecnico, che tolga qualcosa al
mistero della misericordia di Dio, o trasformi la Confessione in un
mero atto giuridico (l'elenco dei peccati...): di fatto è invece
l'espressione più bella e vera del nostro pentimento. Nella società
civile, se io vengo colto in fallo per aver rubato una bicicletta,
verrò chiamato in giudizio e sarò processato non per abuso edilizio
o per essere “un ladro” in generale: verrò giudicato
su quel furto, sul valore di quella bicicletta, sulle circo stanze
specifiche e il giudice valuterà se vi siano più o meno attenuanti:
vi sono stato costretto? L'ho fatto per fare un dispetto? Per
vendetta? È giusto che vi sia una valutazione di questo genere.
Quando
vado dal medico, non gli dirò: «Sto male», oppure: «Ho dolore da
qualche parte»; gli dovrò dire quale parte precisa del corpo mi fa
male (il fegato, l'orecchio, il polpaccio...), quando è comparso il
dolore, che sintomi ed effetti sono venuti di conseguenza. Anzi, più
domande il medico mi farà e maggiore sensazione di serietà e
professionalità mi darà.
Così
è anche la Confessione sacramentale. Ho commesso un peccato, quel
peccato, quel certo preciso peccato, e mentre commettevo quell'atto,
dicevo quella parola, lasciavo libero sfogo a quel sentimento e a
quella passione, mi allontanavo da Dio. Occorre dire il peccato
preciso, quello che ho nella memoria e nel cuore, perché è proprio
quello che mi ha allontanato dalla bontà di Dio e mi ha gettato
nell’Inferno – se mortale – o mi ha
comunque allontanato dalla grazia – se veniale.
Occorre
dunque ricordare bene il peccato: vado a confessare quello e a
ricevere l'assoluzione per quel singolo peccato, non per altri, né
ricevo assoluzione per uno stato di peccaminosità in generale. No,
il medico interviene con il suo raggio
laser – il perdono – su un oggetto specifico:
non punterà il raggio laser su un piede se la parte malata è la
mano.
Vediamo
ora alcuni errori che si possono commettere quando ci si accusa dei
peccati.
Chi
si giustifica
Quando
ci accostiamo alla Confessione non andiamo per giustificarci, non
dobbiamo valutare noi stessi la situazione: noi dobbiamo soltanto
confessare i peccati. Travisando completamente il significato del
perdono, alcuni si mettono nell'atteggiamento di non fare brutta
figura con il sacerdote: «Ho fatto questo, ma è perché quella
giornata ero nervoso; ho detto una parola sbagliata, ma è colpa di
mia suocera che mi ha fatto arrabbiare; ho mentito, ma l'ho fatto per
il bene e per evitare discussioni...». Questo è un errore. Si deve
dire solo: «Ho fatto questo», e basta. E se si vuole aggiungere
qualcosa si può dire: «Ho fatto questo, è colpa mia, soltanto mia,
non lo dovevo fare, chiedo perdono a Dio e chiedo di ricevere il
perdono per questo mio peccato».
Quale
pena è per noi sacerdoti ascoltare queste autogiustificazioni! La
persona che ci sta di fronte non si umilia per niente: si giustifica
da sé. Il sacramento allora è invalido perché il peccato viene
detto e auto-assolto immediatamente dal penitente stesso, anzi,
giustificato come se il peccato ci volesse”: «Ho detto una bugia,
ma ci voleva per mantenere la pace in famiglia». Ma come, un peccato
che “ci vuole”? Quando mai un peccato è necessario? Dov'è
scritto? Chi l'ha detto mai? Il male non è mai necessario.
Occorre
allora fermarsi all'accusa e semmai far seguire qualche istante di
silenzio... questo è il modo corretto: «Ho fatto questa azione, ho
detto questa parola», poi qualche istante di sospensione, in cui ci
torna alla mente l'errore, ne vediamo meglio il colore, il cattivo
effetto, ne assumiamo la responsabilità. Per questa accusa ci vuole
sobrietà e piena sincerità, per quanto questo possa farci provare
vergogna. Meglio, anzi, se si prova vergogna: è l'amor proprio che
si sgretola.
Le
vane parole
Il
penitente non deve perdersi in lunghi discorsi, perché la
Confessione non è la conversazione su temi di fede o la direzione
spirituale: è il ricorso dal tuo giudice e dal tuo medico. Dio sta
per intervenire con potenza su di te e occorre aprirgli la porta. Tu
devi solo dirgli il peccato. Ma come, non lo sa già?
Certo
che lo sa, ma tu dicendolo lo oggettivi meglio, lo vedi, lo riguardi,
lo riconsideri, affinché appaia ai tuoi occhi nella sua realtà
obiettiva e tu ti proponga di non ripetere più quell'esperienza dolo
rosa. I Padri del deserto dicevano che un peccato manifestato è già
mezzo vinto, mentre un peccato che si tiene nascosto – di
proposito, maliziosamente – rende nulla la Confessione.
Tutti i peccati devono essere espressi e manifestati, ma solo quelli.
Si può e si deve dare qualche dettaglio di come può essere
avvenuto, quali circostanze vi siano state, se è stato commesso una
o più volte, se uno ha peccato da solo o con altre persone... ma si
parla sempre di quel peccato, quella piaga, quell'azione. Tutto il
resto non conta e non va detto. Un buon confessore dovrebbe
interrompere una persona che divaga o che parla di tutt'altro,
facendola tornare sul peccato da accusare e rimandando la
conversazione o direzione ad altro momento, perché lì siamo in sede
di sacramento, l'unico dei sette che prevede una parte discorsiva:
l'atto del parlare in modo libero senza alcun formulario. Attenzione
quindi a non scambiare il sacramento per occasione di
conversazione – per quanto pia e devota - e tanto meno in
richiesta di consigli di carattere più o meno spirituale o
psicologico. Per quello ci devono essere altri momenti e altri
luoghi.
Oggi
l'uomo ha molto bisogno di parlare e di es sere considerato,
ascoltato, accolto, ma non è durante il ministero glorioso della
remissione dei peccati, che esige sobrietà e spirito religioso, che
tutto ciò deve avvenire. Anche papa Francesco ha chiarito questo
affermando: «Confessare i nostri peccati non è andare ad una seduta
di psichiatria, neppure andare in una sala di tortura: è dire al
Signore “Signore
sono peccatore... E sono peccatore per questo, per questo e per
questo”.
Concretezza,
onestà e anche una sincera capacità di vergognarsi dei propri
sbagli: non ci sono viottoli in ombra alternativi alla strada aperta
che porta al perdono di Dio, a percepire nel profondo del cuore il
suo perdono e il suo amore».
La
persona che si umilia parlando del proprio peccato compie un grande
passo verso il Signore
che, come il padre misericordioso della parabola, non aspetta altro.
Dio
non vuole la nostra umiliazione di per sé: desidera donarci il suo
perdono, ma a causa dell'orgoglio e dell'indurimento del cuore
abbiamo bisogno di riposizionarci, di tornare piccoli e poveri, e per
questo non è male provare umiliazione e vergogna, anzi, sarà
proprio il Signore
che ci risolleverà dalla nostra umiliazione ridonandoci la dignità
perduta.
L'importanza
della vergogna è richiamata anche da papa Francesco che la definisce
una grazia: «Quando noi confessiamo i nostri peccati come sono alla
presenza di Dio, sempre sentiamo quella grazia della vergogna.
Vergognarsi davanti a Dio è una grazia. È una grazia: “Io mi
vergogno”. Pensiamo a Pietro quando, dopo il miracolo di Gesù nel
lago: “Ma, Signore, allontanati da me, io sono peccatore”.
Si vergognava del suo peccato davanti alla santità di Gesù Cristo».
Questa
obbedienza confonde il maligno; egli sa bene che lì, nel
confessionale, noi abbandoniamo il suo terreno. Proprio per questo
dobbiamo arrivare alla Confessione preparati: dire i peccati e basta.
Questo lo annienta, perché di fronte all'azione di Dio, il demonio,
non può fare nulla: è costretto a lasciarci andare.
Confessare
i peccati e non le tentazioni
Insistiamo
ancora: vanno detti i peccati con cuore umile, sincero, contrito. Non
si devono raccontare le tentazioni o gli stati d'animo. Alcuni
mettono a fuoco le tentazioni avute, poi magari concludono dicendo
che hanno resistito e non sono caduti nel peccato. Che dovrebbe fare
il confessore a quel punto? Un bell'applauso? Tale incoraggiamento
può andare bene, ma fuori dalla sede del sacramento. Le tentazioni
possono essere descritte solo nel caso in cui uno abbia ceduto e
commesso il relativo peccato; in questo caso il confessore potrà
dare un buon consiglio su come cercare di scappare davanti alle
tentazioni che si presenteranno in seguito, anche se, pure in questo
caso, siamo più nel campo della direzione spirituale che del
sacramento: in ogni modo sarà sempre il peccato l'oggetto
della Confessione. Meglio dunque non perdere troppo tempo nel
descrivere le tentazioni, confondendo appunto il peccato con la
tentazione. Anche nostro Signore Gesù fu tentato, ma non entrò mai
in un confessionale.
“Non
ho niente da dire”
Singolare
poi la situazione dei penitenti che si accostano alla Confessione e
cominciano a raccontare le proprie virtù. È un sotto-tipo di
autogiustificazione: «Non ho rubato, non ho ammazzato, ho sempre
partecipato alla Messa domenicale, non odio nessuno». Questa sarebbe
l'accusa dei peccati? Cosa dovrebbe fare, anche in questo caso, il
confessore? Uscire dal confessionale e dare il diploma di buon
comporta mento al penitente? Come bene si può comprendere, il caso
che stiamo descrivendo è l'anti-confessione. Non c'è nessuna
accusa, nessun pentimento – di che cosa ci si dovrebbe
pentire? – ma
solo auto-celebrazione. Quindi non c'è bisogno di assoluzione. Forse
il penitente va in confessionale per commettere proprio l'unico
peccato, quello di riconoscere le proprio presunte virtù, come fece
un giorno il fariseo della parabola (Lc 18,9-14). Allora il sacerdote
dovrebbe convincere la persona di quell'unico peccato – di
orgoglio – ma rischia di irritare il penitente: «Come
osa accusarmi di aver peccato?».
A
volte è successo che, dopo l'auto-celebrazione, il sacerdote chieda:
«Sì, va bene, ma quali sono i peccati da confessare?», per
sentirsi rispondere: «Peccati? Non ne ho fatti. Su questo non ho
niente da dire».
Dobbiamo
concludere che la persona in questione non solo non sa confessarsi,
ma forse non ha mai conosciuto Dio né il demonio, non si rende conto
di essere il terreno di battaglia di una terribile lotta.
In
tali situazioni occorre chiedere il dono dello Spirito Santo, che ci
convinca in quanto al peccato e ci faccia conoscere, anche solo
parzialmente, l'abisso della bontà di Dio e del bisogno assoluto che
abbia mo di incontrarlo. Sant'Efrem il Siro così pregava: «O
Signore,
fa' che io veda i miei peccati!». È questa una preghiera da
consigliare a chi nel confessionale “non ha niente da dire”.
I
peccati degli altri
Alcuni
si confessano bene, sì, ma sbagliano persona: confessano i peccati
degli altri. Succede quando si vivono situazioni di sofferenza e di
ingiustizia a causa del prossimo, e si denuncia questa pena finendo
però per dire i peccati degli altri e non quelli propri. Anche in
questo caso la Confessione, se rimane così, è sbagliata. Quale
malato va dal medi co dicendo le malattie del vicino di casa? Dopo un
minuto il medico gli direbbe: «Vada, non ho tempo da perdere!».
Potremmo noi biasimare quel dottore? Che
cosa può fare sulla tromboflebite del vicino di casa? Proprio
niente.
Quando
entriamo in confessionale, allora, dimentichiamo completamente i
nostri vicini, le sofferenze che ci infliggono,
le pene che ci procurano, chiunque essi siano. Facciamo come se fosse
l'ultimo istante della nostra vita, soli col Solo, unici davanti a
Dio e al suo divino giudizio, faccia a faccia con lui, immaginando di
avere solo pochi istanti ancora di vita. Ci dovessimo trovare in
quella situazione ci ricorderemmo di sicuro solo dei nostri mali e
supplicheremmo una grande pietà, e se per caso dovessimo ricordare
il prossimo, sarebbe solo per chiedere pietà anche per lui. Siamo
tutti della stessa pasta, siamo tutti pecca tori: chi siamo noi per
giudicare le intenzioni e gli errori del prossimo?
La
vera accusa dei peccati
Ecco
che cosa occorre dunque fare: prepararsi bene, avere in mente quel
nostro singolo peccato – se non si ricordano le cose,
scriverle su un foglietto, non c'è niente di male in questo –,
umiliarsi profondamente davanti a Dio vergognandosi di aver tradito
la sua fiducia e rammaricandosi di aver perduto così facilmente la
luce della grazia divina. Poi una volta inginocchiati – meglio
confessarsi in ginocchio che seduti o in piedi – dire più
o meno così: «Ho peccato davanti a Dio, ho commesso questo, l'ho
fatto proprio io, pur sapendo che non dovevo farlo perché è male,
chiedo umilmente perdono». Basta così. Meno cose si dicono e meglio
è, se sono cose che partono dal cuore. Senza tacere per vergogna
quanto fatto, anche se si trattasse di cose gravi: i confessori ne
hanno sentite di tutti i colori, e poi non è a loro che si parla, ma
a Dio. Poi fare una breve pausa, se si vuole, cercando di mettere la
nostra vita così com'è, piagata e ferita, sporcata e lacera,
davanti al Medico, il quale lavora tanto meglio quanto più noi
apriamo il cuore a un'esposizione reale e responsabile del fatto. Se
il confessore tace, andiamo avanti ad accusare alla stessa maniera
gli altri peccati, con questo tono umile e sobrio, contrito e
semplice. Davvero necessario è tenere sempre l'atteggiamento umile,
come quello del pubblicano in fondo al tempio, che stava a occhi
bassi.
Insisto
sull'assumersi pienamente e totalmente la responsabilità di quel
peccato, senza scappare: quel peccato l'ho fatto proprio io, sono io
il colpevole. Ho colpa piena per questo.
Il
confessore che non aiuta
Purtroppo
non tutti i confessori sono preparati a questo ministero. Uno dei
difetti che si può trovare in loro è che scusano tutto senza
mettere realmente il penitente di fronte alla propria responsabilità.
«Padre, ho fatto questo». «Ma sì, va beh, forse eri stanco o
nervoso». «Padre, ho fatto quest'altro». «Va là... che male vuoi
che sia, non preoccuparti». Risponde te: «No, invece mi preoccupo,
e molto. Un solo peccato può farmi andare all'Inferno e io non posso
minimizzare, dal momento che di anima ne ho una sola e voglio che
essa dia gloria a Dio per tutta l'eternità».
Anche
l'abito liturgico, per quanto possa sembrare un aspetto secondario
nella celebrazione del sacra mento, ha la sua importanza. Il
confessore dovrebbe essere sempre con l'abito sacerdotale (il camice
e la stola). Si tratta di un sacramento e non di una conversazione.
Noi sacerdoti dobbiamo aiutare i penitenti anche con i segni
esteriori, quelli usati da sempre nella Chiesa: sono semplici aiuti,
però necessari. Una cosa buona può essere anche quella di avere
sempre un sacerdote a disposizione per le confessioni, laddove si
può. Sapendo che durante certi orari il confessore c'è sempre,
senza dover chiedere un appuntamento, vi sarebbe certamente più
gente che si confessa.
Il
confessore deve essere paterno e severo al tempo stesso. Severo con
il peccato: non minimizzarlo, non ridicolizzarlo. Gesù è morto
sulla croce per la re missione dei peccati, non per altro. Severo con
il peccato: «Sì, quanto hai fatto è davvero male». Paterno: è
segno e strumento dell'amore del Padre misericordioso, pronto a
riversarsi nel cuore pentito, scoraggiato e deluso del penitente.
L'amore, questo grande dono proveniente dal Cuore squarciato di Gesù
che si riversa sull'uomo che chiede sinceramente perdono, Il bravo
sacerdote fa da tramite tra il penitente e Dio e incoraggia
la persona aiutandola a uscire dal rovo pieno di spine in cui è
caduto e, dopo avergli curato le ferite, lo assicura della bellezza
della grazia ritrovata, esortandolo alla fedeltà e alla
perseveranza.
Una
buona Confessione, in genere, è breve. Da padre Pio ci si stava
pochi istanti, massimo qualche minuto. La stessa cosa dal santo
Curato d’Ars. Mi si dirà che avevano file tali di penitenti che
non era possibile per loro tenere le persone per ore. Il motivo
invece era un altro: padre Pio e il Curato d’Ars confessavano, non
ascoltavano discorsi. Quando una persona sta un'ora, due, nel
confessionale, sorgono dubbi sulla realtà di quello che sta facendo.
In mezz'ora, si dice, si può dire tutta la propria vita. Per
i
peccati basta meno.
Tutto
ruota, si diceva, sul senso di Dio, della sua bontà. L'accusa
potrebbe essere fatta davvero in po che parole se fossimo veramente
totalmente pentiti di quel peccato, anche perché una volta detto non
avremmo più voglia di parlarne: esso ci brucerebbe e non vedremmo
l'ora di sentire le parole: «E ora io ti assolvo...».
Si
entra in confessionale per liberarsi delle tenebre e ricevere la
luce; per immergersi di nuovo nell'amore insanguinato di Gesù. Sono
cose gravi, importanti e, come tutte le cose grandi, sono solenni e
sobrie, quindi brevi. Una Confessione sola può cambiarti al vita: a
Charles de Foucauld (1858-1916) bastarono pochi minuti. L'azione di
Dio fu per lui un fulmine che cadde sul tetto e scoperchiò la casa.
Poi ci fu il tempo di tutta l'esistenza per costruire il nuovo
edificio: la Confessione altro non fu che il punto di partenza.
Ma,
a ben pensare, ogni Confessione vera lo è.
I
consigli del confessore
Il
confessore dovrebbe attenersi esclusivamente ai peccati ascoltati,
cercando di aiutare il penitente a uscirne e a non ricadervi più.
Dio è presente nel sacramento con la sua grazia e può ispirare il
suo ministro a dire le parole giuste nel momento giu sto. Il buon
consiglio può essere un aiuto e, a volte, può essere l'unico che ci
arriva: non tutti hanno il padre spirituale cui poter ricorrere con
costanza o nel momento del bisogno; per questo motivo il ruolo del
sacerdote confessore può essere importante. Ma rimane vero che la
Confessione non è la direzione spirituale: è l'assoluzione dei
peccati, l'aumento della grazia, la vita nuova in Cristo, il
proponimento di vivere per sempre nella luce di Dio.
Sapersi
accusare
Una
delle condizioni necessarie per la validità del sacramento è il
vero pentimento per i peccati commessi. Questo lo si intuisce
facilmente: se io non sono pentito dei peccati e vado a confessarmi,
non faccio che prendere in giro il sacramento e commettere quindi un
sacrilegio, perché il Signore non si irride: Dio non è un gioco e
non si sottopone alla falsità.
Un
esempio della Sacra Scrittura che ci può aiutare è la vicenda del
re Davide e del suo peccato di adulterio con Betsabea prima, e
l'assassinio di Uria poi; un doppio gravissimo peccato. Il re Davide
è una figura esaltata nella Bibbia, per la fede, l'eroismo e per
tante altre buone virtù, tra le quali la generosità e il senso
dell'amicizia; ma una volta cadde rovinosa mente: preso dalla
passione per la moglie di un altro fece in modo di commettere peccato
con lei e successivamente di mandare a morte il marito perché
l'adulterio non venisse alla luce. Nessuno si accorse di nulla, ma
ovviamente la cosa non poteva sfuggire
agli occhi di Dio il quale, per recuperare Davide, gli mandò Natan.
Il profeta gli narrò la parabola dell'uomo povero con l'unica
pecorella e del ricco con un numeroso gregge
che pretese la pecorella del povero per preparare un pranzo a un
amico di passaggio. Quando il profeta chiese che cosa ne pensasse il
re Davide, questi si indignò e commentò che una tale brutale azione
meritava una grave punizione. Natan gli disse: «Guarda che
quell'uomo sei tu: sto parlando di te!», e puntandogli contro il
dito gli fece capire la gravità di quanto aveva fatto. Il re,
subito, replicò: «Ho peccato». Immediata fu la risposta del
profeta: «Il Signore ha perdonato il tuo peccato» (2Sam 11 e 12).
Notiamo
la prontezza di Davide nel riconoscere la propria colpa: quando viene
smascherato, non cerca scuse, non dice: «È colpa di Betsabea che
faceva il bagno senza mettere una tenda davanti», o: «È colpa
della mia passionalità disordinata, ho gli ormoni scompensati», o:
«Sono il re e faccio quello che voglio». Niente di tutto questo, ma
due semplici parolette: «Ho peccato». Sono le parole più grandi di
tutta la vita di Davide. Sì, Davide l'eroe, colui che sconfigge il
gigante Golia, Davide che porta l’Arca a Gerusalemme, Davide che
conquista i territori e consolida il regno, Davide... ma anche lui è
un po ver’uomo soggetto al peccato. La grandezza di Da vide, dopo
il disastro commesso, è quella di alzare le mani e confessare: «Ho
peccato», ossia: «Sì, sono stato io, non ci sono altri discorsi da
aggiungere».
Ma
altrettanto grande è la risposta di Natan! Se io fossi stato il
profeta o Dio, gli avrei detto: «E bravo Davide! Con tutto quello
che il Signore ti aveva fatto! Bella riconoscenza! Adesso dovrai come
mini mo abdicare dal regno, poi fare una penitenza di un anno,
chiedere perdono a tutti e forse, ma forse, dopo un bel periodo di
solitudine e penitenza, ottenere il perdono e la remissione dei
peccati». Niente di tutto questo: bastò che il re alzasse le mani,
umilmente, sinceramente, e ottenne l'insperato: «Il Signore ti ha
perdonato!».
Come
è facile ottenere il perdono di Dio! Basta riconoscersi peccatori!
Sembra
facile, ma in realtà è difficile.
Occorre
l'umiltà, l'abbassamento di riconoscersi fragili e manchevoli,
peccatori e bisognosi. Grande è l'atto di questo sentito
riconoscimento, tanto che Dio lo premia con la remissione immediata e
totale. Potremo mai capire questo? Sì, se saremo umili. L'orgoglioso
invece non può accettare di essere per donato così facilmente: egli
non conosce Dio né il suo amore. Davide, a differenza di Zaccheo,
del buon ladrone, del pubblicano Levi, non incontra lo sguardo di Dio
per pentirsi, e questo ci aiuta a capire che sono tanti i modi per
arrivare al pentimento e alla re missione dei peccati. In questo caso
egli è tanto umi le da accettare che un amico gli punti contro il
dito, in nome di Dio e intimi: «Tu
sei quell'uomo!» (2Sam 12,7). Così
anche a noi può capitare che qualcuno ci aiuti puntandoci contro il
dito. La Chiesa deve fare questo nei confronti del peccato;
ringraziamo allora se ogni tanto Dio ci manda un Natan a dirci che
siamo peccatori: non difendiamoci, perché spesso ci dice il vero. A
questo proposito scriveva il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer
(1788-1860): «Gli ami ci si dicono sinceri, ma in realtà sinceri
sono i nemici». Gli amici, sembra voler dire il filosofo, vedono le
nostre mancanze, ma non sempre hanno il coraggio di venircele a dire,
perché temono di offenderci o di perdere l'amicizia. Quando un
nemico ci insulta, in vece, spesso ci dice il vero. Dovremmo allora
toglie re il fango dell'offesa e lasciare la sostanza di quello che
ci ha detto. Essendo un nostro nemico, egli non avrà il timore di
perdere la nostra amicizia e anche se quanto detto ci ha urtati
gravemente, vi troveremo una verità su noi stessi che altri non
riescono a dirci. Anche i nemici, quindi, hanno la loro funzione.
Un
penitente timido
Un
giorno si presentò a confessarsi un uomo che, per eccessiva
timidezza o paura, più che manifestare i propri peccati, cercava di
scusarli. Il santo Curato d'Ars, che leggeva nel cuore dei suoi
penitenti, lo la sciò fare per un po' di tempo ma poi, interrompendo
lo, gli disse con bel garbo:
«Scusi,
è venuto per accusarsi o per scusarsi?». «Oh, padre! Per
accusarmi!».
«Dunque,
si accusi e dica senz'altro: ho pensato così e così; ho fatto così
e così; ne è avvenuto questo e questo» e gli disse chiare e tonde
tutte le sue mi serie.
Quel
poveretto, confuso, ma arcicontento, baciandogli anche le mani, gli
domandò: «Ma come ha fatto a sapere tutte queste cose? Chi gliele
ha dette?».
«Me
le ha dette la sua confusione e paura; o meglio, gliele ho lette nel
cuore. Perdoni sa, se l'ho indovinato; non volevo che facesse un
sacrilegio e andasse all'Inferno, giacché chi si accusa, Dio lo
scusa; chi si scusa, Dio lo accusa».
Ora
sei di nuovo mio fratello
Un
giorno un uomo entrato nella celletta di san Leopoldo Mandic si
ostinava a difendere i suoi numerosi peccati con sottili
ragionamenti. Il Santo le aveva provate tutte ma poi, di fronte alla
raffinata derisione dell'uomo, si era alzato in piedi e aveva
esclamato: «Se ne vada! Se ne vada! Lei si mette dalla parte dei
maledetti da Dio!». L'uomo quasi svenne dalla paura e si prostrò a
terra piangendo; allora padre Leopoldo lo sollevò e, abbracciatolo,
gli disse: «Vedi, ora sei di nuovo mio fratello».
Il
diavolo giustifica il peccato
«Padre
Pio usava dire che il diavolo è una creatura malvagia, ma resta
sempre un angelo decaduto, per ciò dotato di un'intelligenza
superiore a quella degli uomini, anche se pervertita. Il Santo di
Pietrelcina ebbe modo di sperimentare tale intelligenza, subdolamente
sottile. E la sperimentò in un modo del tutto singolare.
Satana
un giorno si è “confessato” da padre Pio! Il padre,
dopo una mia pressante richiesta, mi ha raccontato come erano andate
le cose: “Una mattina, mentre stavo confessando gli uomini, mi
si presenta un signore alto, snello, vestito con una certa
raffinatezza e dai modi garbati, gentili. Inginocchiatosi, questo
sconosciuto incomincia a palesare i suoi pec cati che erano di ogni
genere contro Dio, contro il prossimo, contro la morale, tutti
aberranti.
Mi
colpì una cosa: per tutte le accuse, dopo la mia riprensione, fatta
adducendo come prova la Parola di Dio, il Magistero della Chiesa, la
morale dei santi, questo enigmatico penitente controbatteva le mie
parole giustificando, con estrema abilità e con ricercatissimo
garbo, ogni genere di peccato, svuotandolo di qualsiasi malizia e
cercando allo stesso tempo di rendere normali, naturali, umanamente
indifferenti tutti gli atti peccaminosi. Le risposte che questo
enigmatico penitente dava di volta in volta alle mie argomentazioni,
con abile sottigliezza e con ovattata malizia, mi impressionavano.
Tra me e me, interrogandomi, dicevo: “Chi è costui? Da che
mondo vie ne? Chi sarà mai?'. E cercavo di fissarlo bene in volto
per leggere eventualmente qualcosa tra le pieghe del suo viso; e allo
stesso tempo aguzzavo le orecchie a ogni sua parola in modo che
nessuna di esse mi sfuggisse per soppesarle in tutta la loro portata.
A
un certo momento, per una luce interiore vivida e fulgida, percepii
chiaramente chi era colui che mi stava dinanzi. E con tono deciso e
imperioso gli dissi: “Dì: viva Gesù, viva Maria!'.
Appena
pronunziati questi soavissimi e potentissimi nomi, Satana sparì
all'istante in un guizzo di fuoco, lasciando dietro a sé un
insopportabile fetore”».
Confessioni
brevi
Scrive
un monsignore di Padova: «La Confessione con padre Leopoldo era
ordinariamente brevissima. Egli ascoltava, perdonava, non molte
parole, spesso anche in dialetto quando si rivolgeva a persone non
istruite, qualche motto, uno sguardo al crocifisso, talvolta un
sospiro. Sapeva che in via ordinaria le Confessioni lunghe sono a
scapito del dolore e sono, il più delle volte, accontentamento di
amor proprio, pertanto sulla modalità della Confessione si atteneva
a quanto indicato nel catechismo della dottrina cristiana».
In
una lettera indirizzata a un sacerdote, padre Leopoldo scrive: «Mi
perdoni padre, mi perdoni se mi permetto... ma vede, noi nel
confessionale non dobbiamo fare sfoggio
di cultura, non dobbiamo parlare di cose superiori alla capacità
delle singole anime, né dobbiamo dilungarci in spiegazioni,
altrimenti, con la nostra imprudenza, roviniamo quello che il Signore
va in esse operando. E Dio, Dio solo che opera nelle anime! Noi
dobbiamo scomparire, limitarci ad aiutare questo divino intervento
nelle misteriose vie della loro salvezza e santificazione».
La
maldicenza
Si
racconta che un giorno una donna, notoriamente chiacchierona, andò a
confessarsi da san Filippo Neri. Egli, dopo averla ascoltata
attentamente, le diede una curiosa penitenza: «Vai a casa, spenna
una gallina, e spargi le sue piume per tutta la città. Poi torna da
me». La donna, benché stupita, fece ciò che il confessore le aveva
comandato e, tornata, si sentì dire: «La penitenza non è finita.
Ora va' e raccogli tutte le piume che hai sparso». «Ma è
impossibile», rispose lei sconsolata. «Ed è così per ciò che hai
fatto con le tue chiacchiere. Non è possibile rimediare al male che
è stato fatto».
La
bugia
Un
giorno, un signore disse a padre Pio: «Padre, dico bugie quando sono
in compagnia, tanto per te nere in allegria gli amici». E padre Pio
rispose: «Eh, vuoi andare all’Inferno scherzando?!».
L'aborto
Un
altro giorno, in sacrestia di fronte al confessionale, dove padre Pio
ascoltava i penitenti, attendeva il suo turno Mario Tentori, seduto
sulla panca. Mentre era intento a fare il suo esame di coscienza,
sentì il padre gridare: «Vai via, animale, vai via!». Le parole
del Santo erano indirizzate a un uomo che si era appena inginocchiato
ai suoi piedi per confessarsi e che usciva da dietro la tendina
umiliato, sconvolto e confuso.
Il
giorno dopo Mario si mise sul treno a Foggia per far ritorno a
Milano. Prese posto in uno scompartimento in cui c'era un solo
viaggiatore. Questi cominciò a guardarlo ed esprimeva nel suo
atteggiamento voglia di iniziare un discorso. Finalmente ruppe gli
indugi e domandò: «Tu ieri non eri a San Giovanni Rotondo, in
sacrestia, per confessarti da padre Pio?».
«Sì!»
rispose Tentori.
Riprese
l'altro: «Noi eravamo seduti sulla stessa panca, io ti precedevo nel
turno. Io sono quello che padre Pio ha cacciato, appellandolo col
titolo di “ani male”. Ricordi?».
«Sì!»,
disse ancora Mario.
Continuò
il compagno di viaggio: «Voi che stava te intorno al confessionale
forse non avete sentito le parole che hanno motivato il padre a
cacciarmi via. Ebbene, padre Pio ha detto testualmente: “Vai
via, animale, vai via, perché d'accordo con tua moglie hai abortito
tre volte”».
Continuò:
«Capisci? Il Padre ha detto hai abortito!». E ancora: «Si è
diretto a me, perché l'iniziati va di fare abortire mia moglie era
partita sempre da me».
E
scoppiò in un pianto dirotto che esprimeva – come egli
stesso confessò – dolore, volontà di non peccare più e
la ferma determinazione di tornare da padre Pio per ricevere
l'assoluzione e cambiare vita.
Il
rigore di padre Pio aveva salvato la vita di un padre che, dopo aver
negato la vita a tre creature, sta va correndo il pericolo di
perdersi per tutta l'eternità.
Tratto dal libro “ Dio perdona sempre” di padre Serafino Tognetti
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