lunedì 18 giugno 2018

ACHAB E NABOTH - PERSONAGGI DI OGNI TEMPO... di Ambrogio, Santo e dottore della Chiesa, vescovo e patrono di Milano



1. La storia di Naboth è antica per età, ma nel costume è quotidiana. Quale ricco, infatti, non desidera ogni giorno avidamente i beni altrui? Quale potente non pretende di cacciare via il povero dal suo piccolo podere e di togliere chi non ha mezzi dalla terra dei padri? Chi è mai contento di quel che ha? Quale ricco non sente accendersi l'animo dal desiderio di possedere i beni del vicino? Sicché di Achab non ne è nato uno solo; e, ciò che è peggio, Achab nasce ogni giorno e non muore mai a questo mondo. Appena ne scompare uno, ne vengono fuori altri, in gran numero, e sono più quelli che rubano che quelli che accettano di rimetterci. Ma neppure Naboth è l'unico povero che sia stato ucciso; ogni giorno un Naboth è prostrato, ogni giorno un povero viene ucciso. Angosciata da questo timore la gente si ritira dalle sue terre; e il povero, carico del suo pegno d'amore, emigra' con i figli, mentre la moglie lo segue in lacrime, come se accompagnasse il marito al sepolcro. A dire il vero, minore ragione ha di dolersi colei che piange la morte dei suoi cari, poiché, sebbene abbia perduto l'aiuto del marito, ne possiede la tomba; e se ha perduto i figli, almeno non ha lo strazio di vederli senza casa, e non geme perché mancano del pane, dolore più acerbo che non la stessa morte della tenera prole.
2. Fin dove fate arrivare, o ricchi, le vostre assurde cupidigie? Pensate di rimanere soli ad abitare la terra? Perché scacciate chi è compartecipe ai beni della natura e rivendicate per voi soli il possesso dei beni naturali? La terra è stata messa in comune a tutti, ricchi e poveri: perché, voi ricchi, vi arrogate il diritto di proprietà del suolo?
La natura non sa cosa siano i ricchi, lei che genera tutti ugualmente poveri. Quando nasciamo non abbiamo vestiti, non veniamo al mondo carichi d'oro e d'argento. Questa terra (in cui viviamo) ci mette alla luce nudi, bisognosi di cibo, di vesti e di bevande; quando moriamo ci accoglie nudi, come nudi ci ha generato; e non è in grado di rinserrare dentro il sepolcro tutta l'ampiezza di quanto l'uomo possiede. In morte, un piccolissimo pezzo di terra è più che bastevole tanto al povero che al ricco; e quella terra che, mentre era vivo, non bastava alla bramosia del ricco, può, ora, contenerlo tutto nel suo seno. La natura dunque non fa distinzioni tra di noi quando nasciamo o quando moriamo: ci crea tutti uguali e tutti ugualmente ci racchiude nel grembo di un sepolcro. Chi potrebbe distinguere la condizione sociale dei morti? Apri di nuovo la terra e riconosci il ricco, se puoi; scopri dopo qualche giorno la tomba e, se ne sei capace, indica il povero:ma forse c'è questa differenza, che insieme col corpo del ricco si guastano le molte cose che ha addosso.

3. Le vesti di seta e i veli tessuti d'oro, di cui è avvolto il corpo del ricco, sono dannosi ai vivi e sono inutili ai morti. O ricco, ti si spalma il corpo di unguenti, ma tu sei fetido; sciupi la gradevolezza di una cosa e non te ne avvantaggi.
Tu lasci degli eredi che litigano. Lasci agli eredi piuttosto un deposito ereditario che non un libero profitto; di modo che devono temere di diminuire o di manomettere ciò che è stato loro lasciato. Se gli eredi sono frugali, si preoccupano di custodire il patrimonio; se sono amanti dei piaceri, lo dilapidano. Così, o condanni gli eredi virtuosi a vivere in continue sollecitudini, o lasci in mano agli eredi scapestrati il mezzo per condannare le tue opere.
LA NATURA NEI CONFRONTI DEL RICCO E DEL POVERO
4. Ma che cosa pensi del fatto che, mentre sei vivo, hai abbondanza di tutto? O ricco, tu non sai quanto sei povero; tu non sai quanto puoi apparire miserabile ai tuoi stessi occhi, tu che pure ti dici ricco. Più hai e più vuoi: quanto più guadagni, più hai bisogno di altro. L'avidità è mantenuta accesa dal lucro, non ne è spenta; perché l'avidità ha come vari gradini: più uno sale, più si affretta a raggiungerne la cima, di dove cadrà con grande sfacelo. Eppure costui, quando aveva di meno, considerando il suo censo sapeva meglio contenersi, e aspirava a cose modeste; la crescita del suo patrimonio ha aumentato la sua avidità. Non vuole abbandonare le sue brame, non vuol essere povero nei desideri; e così congiunge insieme due cose incompatibili: aumentare sempre le ambiziose aspirazioni dei ricchi, senza abbandonare gli atteggiamenti propri del mendicante. Un racconto della divina Scrittura ci insegna infatti quanto il ricco sia miserabilmente povero, e in che modo abietto egli mendichi.
5. Vi era in Israele un re, Achab, e un povero, Naboth. Il primo aveva in abbondanza le ricchezze del regno, l'altro possedeva solo un modesto pezzo di terra. Al povero non passò in mente di desiderare i beni del ricco: al re sembrava invece che gli mancasse qualcosa, perché il povero che gli stava vicino possedeva una vigna. Dei due, chi dunque ti sembra veramente il povero? Chi è contento del suo o chi vorrebbe avere quel che appartiene agli altri? È certo che, mentre l'uno appare povero di censo, l'altro è povero d'amore. La ricchezza di affetto non conosce bisogno; l'abbondanza di censo non può colmare il cuore dell'avido. Accade perciò che proprio il ricco avido si trova a invidiare i beni altrui e a lamentarsi della propria povertà.
6. Ma ormai è tempo di considerare le parole della Scrittura: «Ecco ciò che accadde dopo questi fatti. Naboth, di Izreel, possedeva una vigna, nel territorio di Israele, vicino al palazzo di Achab, re di Samaria. Achab si rivolse a Naboth per dirgli: Dammi la tua vigna e ne farò per me un campo di ortaggi, perché è vicina alla mia casa; ti darò in cambio un'altra vigna. Se preferisci, ti darò invece denaro in contanti per codesta tua vigna, di cui intendo fare un campo di ortaggi. Rispose Naboth ad Achab: Dio non voglia che io ti ceda l'eredità dei miei padri. Il re rimase turbato nell'animo: andò a letto, coprendosi il volto, senza aver preso cibo».?
7. Qualche pagina prima la sacra Scrittura aveva raccontato' che Eliseo, il quale era povero, per correre dietro a Elia rinunciò ai suoi buoi: li fece a pezzi, li diede da mangiare al popolo e si mise alla sequela del profeta. È chiaro che questi fatti sono stati premessi a condanna del ricco, che viene tratteggiato, simbolicamente, in questo re: si tratta appunto di Achab, il quale, pur ricevendo benefici da parte di Dio - il Signore gli diede in dono il regno e gli concesse la fine della siccità, per intercessione del profeta Elia – violò i comandamenti divini.
8. Ascoltiamo quindi che cosa egli dice: «Dammi», dice Achab. Il linguaggio di un indigente è forse diverso? Che altro dice colui che chiede pubblicamente un obolo, se non «dammi»? Ciò significa: «Dammi», perché ho bisogno. «Dammi», perché non posso avere un altro mezzo di sussistenza. «Dammi», perché non ho pane per nutrirmi, denaro per procurarmi da bere, non ho di che sostentarmi e di che vestirmi. «Dammi», perché a te il Signore ha dato di che elargire, mentre a me non ha dato. «Dammi», perché se non mi darai tu, io non potrò avere. «Dammi», perché è scritto: fate elemosina!!1 Un simile linguaggio come è abietto e indegno, là dove non è dettato da sentimento di umiltà, ma dalla cupidigia che brucia! Che provocante sfrontatezza nell'atto stesso di abbassarsi! «Dammi», dice, «la tua vigna». Riconosce che non è sua, per pretenderla indebitamente.
9. «E ti darò», aggiunge, «in cambio, un'altra vigna». Ciò che è suo, il ricco lo guarda con fastidio, come roba di poco conto; ma quello che è di altri, lo agogna come ciò che vi è di più prezioso.
10. «Se poi lo preferisci ti darò del denaro». Ecco che di colpo denuncia da sé il proprio torto, mettendosi a offrire denaro per quella vigna: perché chi vuole essere padrone di tutto non può accettare che l'altro possieda qualcosa.
L’AVIDITÀ DEL RICCO E L'INEFFICACIA DELL'AVARIZIA
11. «E ne farò per me», disse, «un campo di ortaggi». Tutte queste stranezze, tutta questa smania miravano a trovare un posto per ortaggi che non costavano nulla! Voi desiderate possedere una cosa non perché è utile, ma perché volete toglierla agli altri. Siete preoccupati più di spogliare i poveri che non di arricchire voi stessi: la sentite come un'offesa fatta a voi se il povero ha qualcosa che vi sembra degno di essere posseduto da un ricco. Considerate tolto a voi tutto ciò che appartiene ad altri. Che piacere potete mai trovare di fronte alla dispendiosa generosità della natura? Il mondo è stato creato per tutti; quel mondo che voi pochi ricchi cercate di rivendicare per voi soli. E non solo il possesso della terra, ma perfino il cielo, l'aria, il mare vengono requisiti a servizio di pochi ricchi. Quest'aria che tu racchiudi nei tuoi vasti possedimenti, quanti popoli può rinvigorire! Forse che gli spazi celesti si trovano ripartiti tra gli angeli nel modo in cui tu fissi i confini e dividi la terra?
12. Grida il profeta: «Guai a coloro che aggiungono casa a casa, podere a podere»; li mette sotto accusa per la sterilità della loro avarizia. Rifuggono infatti dall'abitare insieme agli uomini, e perciò cacciano via i vicini; ma non riescono a evitarli, perché quando hanno cacciato via i primi ne trovano ancora degli altri; e quando hanno allontanato anche loro, di necessità giungono a dover subire la vicinanza di terzi: perché è evidente che non possono abitare la terra essi soli. Gli uccelli si uniscono agli uccelli, al punto che talora il cielo appare tutto intessuto da file compatte di volatili; così il bestiame si unisce al bestiame, i pesci ai pesci. Per il fatto di unirsi in molti, questi animali provano non un danno ma una comunione di vita: e si sentono protetti a vicenda quando hanno questo conforto di una compagine più numerosa. Tu, uomo, sei il solo che scacci il tuo simile, e per questo accetti la compagnia delle fiere, costruisci dimore per le bestie, mentre distruggi quelle degli uomini; fai entrare il mare nei tuoi poderi, perché non vengano meno gli animali, e al tempo stesso allarghi i confini del tuo territorio in modo da non avere vicini.
13. Abbiamo ascoltato la voce del ricco che chiedeva per sé i beni altrui; ascoltiamo ora la voce del povero, che difende i suoi: «Dio non voglia che io ti dia l'eredità dei miei padri». Egli è convinto che il denaro del ricco sia per lui come qualcosa di contagioso; quindi è come se dicesse: «Va' in perdizione tu e il tuo denaro». Quanto a me, non posso vendere il patrimonio dei miei antenati. O ricco, se capisci qualcosa,ti è stato dato un consiglio da seguire: non vendere la tua terra per una notte con una prostituta; non sacrificare i tuoi veri diritti al piacere di spendere in bagordi e gozzoviglie; non giocarti a dadi la casa, perché non ti manchi un titolo alla pietà filiale degli eredi.
14. Udita questa risposta l'animo del re ingordo rimase turbato: «E andò a letto, coprendosi il volto, senza aver preso cibo». I ricchi piangono se non hanno potuto dilapidare i beni altrui; se il povero non rinuncia ai propri diritti, essi non riescono a nascondere l'intensità del loro rammarico. Vorrebbero dormire, e si velano il volto perché non gli capiti di vedere sulla faccia della terra qualche cosa che è di altri; per non sapere che qualcosa, in questo mondo, non appartiene a loro; per non sentire che qualcuno, vicino a loro, possiede qualcosa; per non sentire il povero che dice loro di no. Ad anime come queste si rivolgeva il profeta, gridando: «Ricche signore, è l'ora di alzarvi!».
IL DIGIUNO DEL RICCO E IL DIGIUNO DEL POVERO
15. Prosegue la Scrittura: «E non prese cibo»: perché desiderava quello degli altri. Bisogna sapere che i ricchi sono abituati a mangiare il pane altrui piuttosto che il proprio: è gente che vive di rapina e che al suo mantenimento provvede rubando. O meglio: non prese cibo volendo condannarsi a morire, dal momento che qualche cosa gli era stata negata.
16. Fa' ora il confronto col comportamento del povero. Non ha nulla, e non sa digiunare di sua iniziativa se non per Dio; è capace di digiunare solo per necessità. O ricchi, voi che strappate ai poveri tutti i loro beni, che portate via tutto e non lasciate loro nulla, proprio voi, sopportate la pena che spetta al povero! Essi digiunano quando non hanno da mangiare, voi digiunate anche se ne avete. Sicché scontate voi per primi la pena che volete infliggere ai poveri. A causa della vostra passione subite anche voi le pene di una tormentosa miseria; ma mentre i poveri non dispongono di nulla, voi invece né disponete (di quel che avete) né permettete che ne dispongano gli altri. Estraete l'oro dal fondo delle miniere, ma subito lo nascondete.
17. Quante vite sotterrate in quell'oro! Per chi conservate quei beni, ora che avete letto a proposito del ricco avaro: «Mette da parte tesori, e non sa per chi ammucchia» ? L'erede a cui non preme, aspetta; ma l'erede impaziente impreca, perché tardate a morire: guarda con odio la crescita della sua eredità, ha fretta di liquidarla. Che cosa c'è di più squallido, se neppure in colui per cui vi state affaticando lasciate un senso di gratitudine? A causa sua voi sopportate giorni e giorni, malinconicamente, la fame, con il timore di guai quotidiani per il bilancio domestico; per lui calcolate quotidiani digiuni.
18. Ho conosciuto personalmente un ricco che, quando andava in campagna, aveva l'abitudine di contare i piccoli pani portati dalla città, di modo che dal numero dei pani si poteva sapere quanti giorni sarebbe rimasto in campagna. Non voleva aprire il granaio sigillato, per non togliervi niente di quanto vi aveva riposto. L'unico pane che era previsto per l'intera giornata a malapena può saziare quell'avaro. Mi hanno anche assicurato che quando gli veniva servito un uovo si lamentava perché era stato ucciso un pulcino. Scrivo questo appunto perché sappiate che la giustizia di Dio punisce: mediante il vostro digiuno essa vendica le lacrime dei poveri.
L'OPULENZA DEL RICCO SI COSTRUISCE SULLA MISERIA DEL POVERO
19. Quanto sarebbe invece religioso il digiuno, se quello che spendi per il tuo banchetto tu lo inviassi ai poveri! Quel ricco dalla cui tavola cadevano le briciole che il povero Lazzaro raccoglieva perché aveva desiderio di sfamarsi è già più accettabile di te: eppure, il suo banchettare costava il sangue di molti poveri, e le coppe sulla sua tavola stillavano del sangue di coloro che egli aveva costretto a impiccarsi.
20. Quanta gente occorre ammazzare per procurarvi ciò che vi piace! La vostra fame è funesta, è funesto il vostro lusso. Uno precipita dalla sommità del tetto, mentre lavora per allargare il granaio dove si depositano i vostri frumenti. Un altro precipita dall'alta cima di un albero, mentre sceglie tra i diversi tipi di uva quella che è da portare a tavola e quella da cui spremere vini degni dei tuoi banchetti. Un terzo affoga in mare, mentre si adopera perché ostriche o pesci non manchino mai alla tua mensa. Un quarto muore assiderato dal gelo invernale, mentre segue la traccia delle lepri o cerca il modo di catturare gli uccelli al laccio. Un quinto, che ha avuto il torto di dispiacerti in qualche cosa, viene sferzato a morte dinanzi ai tuoi occhi, e il suo sangue bagna i cibi sulla tavola imbandita. Per concludere: era un ricco colui il quale comandò che si portasse alla sua mensa il capo del profeta - di un povero! - e non riuscì a trovare altro premio per la danzatrice se non di far uccidere un povero.
21. Ho visto con i miei occhi un povero portato via perché obbligato a pagare quel che non aveva; condotto in carcere perché mancava vino alla mensa del potente; costretto a vendere all'incanto i suoi figli, perché fosse rimandata momentaneamente la pena. Si trovò per fortuna qualcuno che lo aiutasse in quel frangente; e il poveretto ritornò coi suoi a casa, ma vi trovò tutto saccheggiato: nulla era stato lasciato loro per sostentarsi. Allora, disperato per la fame dei figli, arrivò a rammaricarsi di non averli venduti a chi sarebbe stato in grado di nutrirli. Ritornò quindi sulla sua decisione e decise di venderli. Contrastavano in lui l'evidenza del danno che lo aveva ridotto in miseria e la forza dell'amor paterno: la fame lo spingeva a procurarsi soldi, e invece la natura lo spingeva a rispettare i propri doveri. Era pronto a morire con i figli, piuttosto che separarsi da loro, e quante volte mosse il piede, altrettante lo trattenne. Finalmente vinse la necessità, non la volontà propria, e il sentimento paterno venne sacrificato di fronte al bisogno.
22. Riflettiamo ora sulla tempesta di quel cuore paterno, sconvolto perché doveva scegliere quale figlio consegnare per primo. «Quale», si chiedeva, «venderò per primo? So che il prezzo di uno non è sufficiente al nutrimento degli altri. La mia fecondità di padre l'unica abbondanza che mi procura è l'angoscia. Quale di questi offrirò? Su quale poserà uno sguardo di preferenza l'incettatore di frumento? Gli consegnerò il primogenito. Ma fu il primo che mi chiamò padre; è il maggiore dei figli e come tale io dovutamente lo onoro. Darò allora il più giovane. Ma io l'amo di un più tenero affetto. Di quello arrossisco, di questo ho compassione; di quello piango la dignità, di questo i teneri anni; quegli è già in grado di sentir la sventura, questi la ignora; di quello mi commuove l'angoscia, di questo l'inconsapevolezza. Mi volgerò agli altri. L'uno mi fa più carezze, l'altro mi rispetta di più; quello è più simile al padre, questo gli rende più servizi; vendendo quello, vendo la mia stessa immagine; vendendo questo, tradisco ogni mia speranza. Me infelice! Non so cosa fare, non so cosa scegliere. Da ogni parte mi stringe il volto della sventura e il coro delle tribolazioni.
23. È disperazione di belva senza scampo dover scegliere quale figlio dar via. Gli animali, quando si accorgono che dei pericoli incombono su loro e sulla loro prole, si trovano a scegliere quali figli salvare, non già quali sacrificare. Come dunque farò a mettere da parte il mio impulso naturale? Come farò a dimenticare, come farò a spogliarmi del mio animo di padre? Sarò capace di mettere in vendita il figlio mio? Come farò a trattare per il prezzo? In che mani consegnerò schiavo mio figlio? Con quali occhi lo vedrò ridotto in servitù? Con che baci gli dirò addio quando si separerà da me? Che parole gli dirò per giustificare il mio operato? “Figlio mio, andrai schiavo per i tuoi fratelli, perché perfino la mensa quotidiana è divenuta più funesta per il povero che per il ricco. Lui fa schiavi per debiti i figli altrui, io vendo il mio: lui impone agli altri una costrizione, io gli debbo sottomettere la volontà”. Per cercare di giustificarmi, aggiungerò: “Figlio mio, andrai schiavo per i tuoi fratelli, perché essi abbiano di che nutrirsi. Anche Giuseppe fu venduto schiavo dai fratelli, e più tardi nutrì loro e il padre”. Ma mi risponderà: “Non fu però il padre che lo vendette; al contrario, pianse per averlo perduto. E poi anche il figlio finì nelle mani del ricco, e a stento riuscì a liberarsene. In seguito tutta la sua famiglia, per lunghi anni, fu schiava dei ricchi d'Egitto. Insomma, padre mio, vendimi pure, a patto che non siano i ricchi a comperarmi”.
24. Sono rimasto esitante, lo confesso; ma che cosa dovrei fare? Non venderne nessuno? Ma così, mentre uso riguardo a uno, li vedrò tutti morire di fame! Se poi ne darò via uno, con che occhi potrò guardare gli altri, allarmati dalla mia mancanza di affetto paterno e preoccupati che io venda anche loro? Con che vergogna rientrerò a casa? Come farò a ritornare? E con quale animo potrò abitarvi, dopo essermi privato di un figlio senza che me lo strappasse una malattia o me lo rapisse la morte? Con quale coscienza guarderò la mia mensa, che era adorna tutt'intorno della presenza di tanti figli simili a virgulti intorno a un ceppo d'ulivo?».
25. Così il povero, o ricco, si va lamentando alla tua presenza; ma l'avarizia ti ha chiuso le orecchie, e il tuo cuore non si lascia impietosire dall'orrore di una situazione così miserevole. Tutto il popolo se ne affligge; solo tu, o ricco, non ti pieghi; tu non ascolti la voce della Scrittura che dice: «Bisogna perdere del denaro per amore del fratello e dell'amico, non già nasconderlo sotto una pietra, a tua rovina». E appunto perché tu mostri di non udire, l'Ecclesiaste esclama: «C'è un torto indegno che ho visto sotto il sole: le ricchezze accumulate a danno di chi le possiede».Ma già! Forse tornando a casa ti consiglierai con tua moglie: e lei ti incoraggerà a riscattare il ragazzo venduto. Anzi, ti inviterà a mettere insieme i suoi ornamenti femminili, per liberare il povero con una piccola parte di essi. Ma no! Proprio lei invece ti imporrà la necessità di fare spese, per bere in coppe gemmate, per dormire in letti di porpora, per distendersi su divani di argento, per appesantirsi le mani di oro e il collo di monili.
26. Piace alle donne vivere in catene, purché siano catene d'oro. Purché siano costosi, sono sempre disposte a portare pesi; e non li considerano dei legami purché in essi brilli un tesoro. Anche dalle ferite traggono occasione di piacere, per mettere alle orecchie monili d'oro e appendervi gioielli.
Anche le gemme pesano, e ci sono vestiti che fanno soffrire il freddo. Si suda sotto le gioie; si gela in abiti di seta; ma il loro costo compensa tutto ciò, e il piacere di possedere certe cose fa trovare apprezzabile quello che l'istinto naturale respinge. Con brama insaziabile vanno in cerca di smeraldi, giacinti, agate, topazi, zaffiri, ametiste, diaspri, corniole: anche dovesse andarsene metà del patrimonio, non badano a spese quando si tratta di appagare la propria cupidigia. Non nego che queste pietre abbiano a momenti riflessi luminosi gradevolissimi; ma sono pur sempre pietre. Tutt'al più si può dire che tali pietre, per perdere la rozzezza originaria del sasso, furono levigate in contrasto con la loro natura, e quindi ci insegnano a levigare ancor più la durezza del cuore.
LA REALE MISERIA DEL RICCO
27. Ci fu mai un inventore che riuscisse ad allungare la vita umana anche di un solo giorno? Chi è mai stato sottratto agli inferi dalle ricchezze? A chi mai il denaro ha alleviato una malattia? «La sua vita», è scritto, «non è riposta nell'abbondanza». E altrove: «Nulla giovano i tesori agli iniqui, e invece l'innocenza ci libera dalla morte». Ben a ragione Davide esclama: «Se abbondano le ricchezze, non attaccateci il cuore». Perché, a che servono, se non sono capaci di liberarmi dalla morte? A che servono, se non possono rimanere con me dopo la morte? Si acquistano qui, si abbandonano qui. Dovremmo perciò parlarne come di un sogno, non come di un vero patrimonio. Allora aveva ragione il profeta citato poc'anzi quando diceva dei ricchi: «Hanno dormito il loro sonno e non si sono trovati più nulla nelle mani, questi uomini che sono vissuti per il denaro». Ciò che equivale a dire: i ricchi che nulla largirono ai poveri si resero conto di non aver guadagnato nulla con tutto il loro daffare; non alleviarono la miseria di alcuno, e perciò non riuscirono a trovare nulla di quanto avevano fatto che avesse un significato per loro.
28. Considera il significato stesso di dives. I gentili chiamano «Dite» il re degli inferi, il signore della morte. Chiamano ditem anche il ricco, perché il ricco non è capace di apportare null'altro che la morte, egli che regna su cose morte e ha di casa l'inferno. Di fatto, che cos'è mai il ricco, se non una voragine senza fondo di ricchezze, una fame o sete insaziabile di oro? Più ne ingoia e più avvampa di desiderio. Si trova scritto: «Chi ama il denaro, non si sazia mai di denaro». E un poco più giù, nello stesso testo: «È anche questo un torto gravissimo, che egli se ne vada come era venuto, e il suo benessere sia fatica che si perde al vento; e che tutti i suoi giorni passino nell'oscurità e nel lutto e tra agitazioni, malattie e arrabbiature», sicché, in confronto alla sua, riesce più tollerabile la condizione di schiavo. Infatti lo schiavo è servo degli uomini, quello del peccato: perché chi pecca è schiavo del peccato, vive sempre in ceppi e in catene, non è mai libero da legami perché sempre implicato nel delitto. Che miserabile schiavitù essere schiavi del peccato!
29. Il ricco ignora i doveri imposti dalla natura: non conosce il liberante avvicendarsi del sonno, non gusta la soavità del cibo, lui che non è mai esente dalla sua schiavitù. È scritto infatti che «dolce è il sonno per lo schiavo, abbia egli mangiato poco o molto: ma per chi si è saziato di ricchezze, non c'è possibilità di riposo»; la cupidigia lo desta, lo tormenta la brama assillante di impossessarsi delle cose altrui, lo tortura l'invidia, lo agita l'attesa, lo sconvolge la scarsezza dei guadagni e l'abbondanza non gli dà pace. È la storia di quel ricco, a cui il podere aveva dato frutti abbondanti, e che «ragionava fra sé e sé e diceva: Come farò, che non ho posto dove ammassare i miei raccolti? Ecco, diceva, farò così: demolirò i miei granai, ne costruirò di più grandi, vi ammasserò tutto il mio raccolto; e poi dirò alla mia anima: Anima mia, tu hai una grande riserva di beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti. Ma Dio gli rispose: Insensato, questa notte stessa ti verrà chiesta indietro l'anima; quello che hai ammassato, di chi sarà?». Dio stesso, nemmeno lui, gli permette di dormire: lo apostrofa mentre sta riflettendo, lo desta quando dorme.
30. Ma neanche lui accetta di restar calmo, lui che si angustia per via del suo stesso benessere, e che proprio di fronte all'abbondanza del raccolto pronuncia la frase tipica di chi è nel bisogno. Si chiede infatti: «Come farò?». Questa non è forse l'espressione propria del povero, di colui che non ha mezzi per vivere? Chi manca di tutto volge lo sguardo qua e là, fruga l'alloggio dove sta e non riesce a trovare nulla da mangiare. Per lui è chiaro che non si dà sventura maggiore dell'essere consumato dalla fame e del morire per mancanza di cibo: si dà a cercare un modo di morire più sbrigativo, e decide di farla finita con minor travaglio; ecco perché afferra la spada, o fissa in alto un laccio, o prepara un incendio, o si procura un veleno. E, incerto su quale soluzione scegliere, si chiede: «Come farò?». Poi, richiamato dalla dolcezza di questa vita, vorrebbe cambiare idea, se soltanto riuscisse a trovare i mezzi per vivere. Ma vede tutto spoglio, tutto squallido intorno a sé; e torna a chiedersi: «Come farò?». Da dove prendere gli alimenti, i vestiti? Voglio vivere, se ho di che sostentare questa mia vita; ma con che cibi, con che risorse?
31. Perciò si chiede: «Come farò, perché non ho?». Anche il ricco dichiara di non avere: ma è il discorso proprio della povertà; si lamenta che gli manca qualcosa proprio chi è ricco di proventi. «Non ho», dice, «dove ammassare i raccolti». Pensavi forse che dicesse: non ho proventi per vivere? È forse felice chi si sente messo in difficoltà dall'abbondanza? Nonostante le sue ricchezze, egli è più disperato del povero, il quale almeno si trova in pericolo solo per l'indigenza. Il povero ha come giustificare la sua tribolazione: certamente egli ha subìto l'ingiustizia, non ha colpa di quanto gli accade; l'altro invece non ha chi accusare se non se stesso.
32. E il ricco ha detto: «Farò così, demolirò i miei granai». Questa volta ti immaginerai che egli intenda dire: spalancherò i granai, in modo che entrino coloro che non ce la fanno più per la fame e vengano gli indigenti, si introducano qui i poveri e riempiano i loro grembiuli. Abbatterò le pareti che tengono fuori l'affamato. A che scopo dovrei nascondere qualcosa io, a cui Dio fa avere in abbondanza le cose da dare agli altri? Perché dovrei chiudere, con porte sprangate, le granaglie che Dio ha sparso dappertutto dovunque si allarghino i campi, e che germogliano in abbondanza senza che ci sia chi le custodisca?
Tratto da “ La vigna di Naboth” di Ambrogio, Santo e dottore della Chiesa, vescovo e patrono di Milano.

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