Il
Discorso della montagna delinea - come abbiamo visto - un quadro
completo della giusta umanità. Vuole indicarci come si fa a
essere uomini. Le sue concezioni fondamentali si potrebbero
riassumere nell' affermazione: solo a partire da Dio si può
comprendere l'uomo e solo se egli vive in relazione con Dio, la sua
vita diventa giusta. Dio però non è un lontano sconosciuto. Egli ci
mostra il suo volto in Gesù; nel suo agire e nella sua volontà
riconosciamo i pensieri e la volontà di Dio stesso.
Se
essere uomo significa essenzialmente relazione con Dio, è chiaro
allora che ne fa parte il parlare con Dio e l'ascoltare Dio. Per
questo il Discorso della montagna comprende anche un insegnamento
sulla preghiera; il Signore ci dice come dobbiamo pregare.
In
Matteo la preghiera del Signore è preceduta da una breve catechesi
sulla preghiera, che vuole metterci in guardia soprattutto contro le
forme errate del pregare. La preghiera non deve essere un'esibizione
davanti agli uomini; esige quella discrezione che è essenziale in
una relazione di amore. Dio si rivolge a ogni singolo, chiamandolo
col suo nome che nessun altro conosce, ci dice la Scrittura (cfr. Ap
2,17). L'amore di Dio per ogni individuo è totalmente
personale e ha in sé questo mistero dell'unicità che non può
essere divulgata davanti agli uomini.
Questa
essenziale discrezione della preghiera non esclude la dimensione
comunitaria: lo stesso Padre nostro è una preghiera alla prima
persona plurale, e solo entrando a far parte del «noi» dei figli di
Dio possiamo superare i confini di questo mondo ed elevarci fino a
Dio. Questo «noi» risveglia, tuttavia, la parte più intima della
mia persona; nell'atto del pregare, l'aspetto esclusivamente
personale e quello comunitario devono sempre compenetrarsi, come
vedremo più da vicino nella spiegazione del Padre nostro. Come nella
relazione tra uomo e donna esiste la sfera totalmente personale, che
necessita dello spazio protettivo della discrezione, e allo stesso
tempo il rapporto a due nel matrimonio e nella famiglia per sua
essenza include pure una responsabilità pubblica, così è anche
nella relazione con Dio: il «noi» della comunità orante e la
dimensione personalissima di ciò che si può comunicare solo a Dio
si compenetrano a vicenda.
L'altra
forma errata di preghiera, da cui il Signore ci mette in guardia, è
il chiacchiericcio, il profluvio di parole, in cui lo spirito
soffoca. Tutti conosciamo il pericolo di recitare formule abituali,
mentre lo spirito è altrove. Raggiungiamo il massimo grado di
attenzione quando chiediamo qualcosa a Dio spinti da un'intima pena o
quando Lo ringraziamo con il cuore colmo di gioia per un bene
ricevuto. La cosa più importante
al
di là di tali situazioni momentanee - è però che la relazione con
Dio sia presente sul fondo della nostra anima. Perché ciò accada, è
necessario tener sempre desta questa relazione e ricondurvi in
continuazione gli avvenimenti quotidiani. Pregheremo tanto
meglio quanto più nel profondo della nostra anima è presente
l'orientamento verso Dio. Quanto più esso diventa la base portante
di tutta la nostra esistenza, tanto più saremo uomini di pace. Tanto
più saremo in grado di sopportare il dolore, di capire gli altri e
di aprirci a loro. Questo orientamento che segna totalmente la nostra
coscienza, la silenziosa presenza di Dio sul fondo del nostro
pensare, meditare ed essere, noi lo chiamiamo «preghiera continua».
Ed è anche questo, in fondo, che intendiamo quando parliamo di
«amore di Dio»; allo stesso tempo è la condizione più intima e la
forza trainante dell' amore del prossimo.
Questa
autentica preghiera, il silente, interiore stare con Dio ha
bisogno di nutrimento, ed è a questo che serve la preghiera concreta
con parole, immaginazioni o pensieri. Quanto più Dio è presente in
noi, tanto più potremo davvero stare presso di Lui nelle preghiere
orali. Ma vale anche il contrario: la preghiera attiva realizza e
approfondisce il nostro stare con Dio. Questa preghiera può e deve
sgorgare soprattutto dal nostro cuore, dalle nostre pene, speranze,
gioie, sofferenze, dalla vergogna per il peccato come dalla
gratitudine per il bene ed essere così preghiera del tutto
personale.
Ma
noi abbiamo sempre bisogno anche dell' appoggio di quelle preghiere
in cui ha preso forma l'incontro con Dio dell'intera Chiesa, come in
essa delle singole persone. Senza questi sussidi, infatti, la nostra
preghiera personale e la nostra immagine di Dio diventano soggettive
e finiscono per rispecchiare più noi stessi che il Dio
vivente. Nelle formule di preghiera emerse dapprima dalla
fede di Israele e poi dalla fede degli oranti della Chiesa, impariamo
a conoscere Dio e a conoscere noi stessi. Sono una scuola di
preghiera e così stimolo a mutamenti e aperture della nostra vita.
Nella
sua Regola san Benedetto ha coniato la formula «mens nostra
concordet voci nostrae» - il nostro spirito concordi con la
nostra voce (Reg 19,7). Di solito il pensiero precede la
parola, cerca e forma la parola. Ma nella preghiera dei Salmi, nella
preghiera liturgica in generale, avviene il contrario: la parola, la
voce ci precede, e il nostro spirito deve adeguarsi a questa voce.
Noi uomini, infatti, non sappiamo da soli «che cosa sia conveniente
domandare» (Rm 8,26) - troppo lontani siamo da Dio, troppo
misterioso e grande è Lui per noi.
E
così Dio ci è venuto in aiuto: ci suggerisce Egli stesso le
parole di preghiera e ci insegna a pregare, ci dona, nelle parole
di preghiera provenienti da Lui, di metterci in cammino verso di Lui
e di conoscerlo a poco a poco attraverso la preghiera con i fratelli
che ci ha dato, di avvicinarci a Lui.
In
Benedetto la frase appena citata si riferisce direttamente ai Salmi,
il grande libro di preghiera del popolo di Dio nell' Antica e nella
Nuova Alleanza: queste sono parole che lo Spirito Santo ha donato
agli uomini, sono Spirito di Dio divenuto parola. Così noi preghiamo
«nello Spirito», con lo Spirito Santo. Naturalmente, questo vale
ancora di più nel caso del Padre nostro: quando lo recitiamo,
preghiamo Dio con parole date da Dio, dice san Cipriano. E aggiunge:
quando recitiamo il Padre nostro, in noi si compie la promessa di
Gesù riguardo ai veri adoratori, che adorano il Padre «in spirito e
verità» (Gv 4,23). Cristo, che è la Verità, ci ha donato queste
parole, e in esse ci dona lo Spirito Santo (cfr. De domo or. 2). Così
qui diventa evidente anche un elemento proprio della mistica
cristiana. Essa non è anzitutto un immergersi in se stessi, ma
incontro con lo Spirito di Dio nella parola che ci precede, incontro
con il Figlio e lo Spirito Santo e così un entrare in unione con il
Dio vivente, che è sempre sia dentro sia sopra di noi.
Mentre
in Matteo il Padre nostro è introdotto da una piccola catechesi
sulla preghiera in generale, in Luca lo troviamo in un altro contesto
- sulla strada di Gesù verso Gerusalemme. Luca introduce la
preghiera del Signore con la seguente osservazione: «Un giorno Gesù
si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito, uno dei
discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare... "»
(11,1).
Il
contesto è dunque l'incontro con il pregare di Gesù, che desta nei
discepoli il desiderio di apprendere da Lui a pregare. Questo è
assai caratteristico in Luca, il quale nel suo Vangelo riserva alla
preghiera di Gesù una rilevanza del tutto particolare. L'insieme
dell'operare di Gesù scaturisce dalla sua preghiera, è da essa
sostenuto. Così avvenimenti essenziali del suo cammino, nei quali si
rivela via via il suo mistero, appaiono come eventi di preghiera. La
confessione di Pietro su Gesù come il Santo di Dio è in rapporto
all'incontro con il Gesù in preghiera (cfr. Lc 9,19ss); la
trasfigurazione di Gesù è un evento di preghiera (cfr. Lc 9,28s).
È
quindi significativo che Luca metta in relazione il Padre nostro con
la preghiera personale di Gesù stesso. Egli ci rende così
partecipi del suo pregare, ci introduce nel dialogo interiore
dell' Amore trinitario, solleva per così dire le nostre umane
necessità fino al cuore di Dio. Questo però significa anche che le
parole del Padre nostro indicano la via verso la preghiera interiore,
rappresentano orientamenti fondamentali per la nostra esistenza,
vogliono conformarci a immagine del Figlio. Il significato del Padre
nostro va oltre la comunicazione di parole di preghiera. Vuole
formare il nostro essere, vuole esercitarci nei sentimenti di Gesù
(cfr. FiI2,5).
Per
l'interpretazione del Padre nostro questo ha un duplice significato.
Da un lato è molto importante ascoltare con la maggior precisione
possibile la parola di Gesù, così come ci è stata tramandata nella
Scrittura. Dobbiamo cercare di riconoscere davvero, come meglio
possiamo, i pensieri di Gesù, che Egli voleva trasmetterci con
queste parole. Ma dobbiamo anche tener presente che il Padre nostro
proviene dalla sua preghiera personale, dal dialogo del Figlio con il
Padre.
Ciò
vuol dire che esso raggiunge una grande profondità al di là delle
parole. Comprende tutta la vastità dell' esistere umano di ogni
tempo e perciò non può essere scandagliato con un'interpretazione
meramente storica, per quanto importante essa sia.
I
grandi oranti di tutti i secoli, per la loro unione intima col
Signore, hanno potuto scendere nelle profondità al di là della
parola e sono così in grado di dischiudere ulteriormente la
ricchezza nascosta della preghiera. E ognuno di noi, con il
suo rapporto del tutto personale con Dio, può trovarsi accolto e
custodito in questa preghiera. Sempre di nuovo egli deve con
la sua mens - con il proprio spirito - andare incontro alla vox -
alla parola che viene a noi dal Figlio, deve aprirsi a essa e da essa
lasciarsi guidare. Così si aprirà anche il suo stesso cuore e farà
conoscere a ciascuno come il Signore voglia pregare proprio con lui.
Il
Padre nostro ci è stato tramandato da Luca in una forma più breve,
da Matteo nella forma accolta dalla Chiesa e utilizzata nella sua
preghiera. Il dibattito su quale testo sia più vicino all' origine
non è superfluo, ma nemmeno decisivo. Nell'una come nell'altra
redazione noi preghiamo insieme con Gesù e siamo grati che nella
forma matteana delle sette domande si presenti chiaramente sviluppato
ciò che in Luca sembra in parte solo accennato.
Prima
di addentrarci nell'interpretazione delle singole parti, vediamo ora
brevemente la struttura del Padre nostro, così come ci è stata
tramandata da Matteo. Consiste di un'invocazione iniziale e sette
domande. Tre di queste sono alla seconda persona singolare, quattro
alla prima persona plurale. Le prime tre domande riguardano la causa
stessa di Dio in questo mondo; le quattro che seguono riguardano le
nostre speranze, i nostri bisogni e le nostre difficoltà. Si
potrebbe paragonare la relazione tra i due tipi di domande del Padre
nostro con quella tra le due tavole del Decalogo che, in fondo, sono
spiegazioni delle due parti del comandamento principale - l'amore
verso Dio e l'amore verso il prossimo -, parole guida nella via
dell'amore.
Così
anche nel Padre nostro viene affermato dapprima il primato di Dio,
dal quale deriva da sé la preoccupazione per il retto modo di essere
uomo. Anche qui si tratta innanzitutto della via dell' amore, che è
allo stesso tempo una via di conversione. Perché l'uomo possa
chiedere nel modo giusto, deve essere nella verità. E la verità è:
«prima Dio, il regno di Dio» (cfr. Mt 6,33). Dobbiamo innanzitutto
uscire da noi stessi e aprirci a Dio. Niente può diventare retto, se
noi non stiamo nel retto ordine con Dio. Perciò il Padre nostro
comincia con Dio e, a partire da Lui, ci conduce sulle vie
dell'essere uomini. Alla fine scendiamo sino all'ultima minaccia per
l'uomo, dietro cui si apposta il Maligno - può affiorare in noi
l'immagine del drago apocalittico che fa guerra agli uomini «che
osservano i comandamenti di Dio e sono in possesso della
testimonianza di Gesù» (Ap 12,17). Ma sempre resta presente
l'inizio: «Padre nostro»sappiamo che Egli è con noi, ci tiene
nella sua mano, ci salva. Padre Hans- Peter Kolvenbach, nel suo libro
di Esercizi spirituali, racconta di uno staretz ortodosso a cui
premeva «di far intonare il Padre nostro sempre con l'ultima parola,
per diventare degni di terminare la preghiera con le parole iniziali:
"nostro Padre"». In questo modo, spiegava lo staretz, si
percorre il cammino pasquale: «Si inizia nel deserto con la
tentazione, si ritorna in Egitto, si ripercorre poi la via dell'
esodo con le stazioni del perdono e della manna di Dio e si giunge
grazie alla volontà di Dio nella terra promessa, il regno di Dio,
dove Egli ci comunica il mistero del suo Nome: "nostro Padre"»
(p. 65s).
Possano
entrambi i cammini, quello ascendente e quello discendente,
ricordarci che il Padre nostro è sempre una preghiera di Gesù e che
essa si dischiude a partire dalla comunione con Lui. Noi preghiamo il
Padre celeste, che conosciamo attraverso il Figlio; e così sullo
sfondo delle domande c'è sempre Gesù, come vedremo nelle singole
spiegazioni. Infine, poiché il Padre nostro è una preghiera di
Gesù, è una preghiera trinitaria: con Cristo mediante lo Spirito
Santo preghiamo il Padre.
Padre
nostro nei cieli
Iniziamo
con l'invocazione «Padre». Nella sua interpretazione del Padre
nostro Reinhold Schneider scrive a questo proposito: «Il Padre
nostro inizia con una grande consolazione; noi possiamo dire Padre.
In questa sola parola è racchiusa l'intera storia della redenzione.
Possiamo
dire Padre, perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il
Padre; perché per opera di Cristo siamo tornati ad essere figli di
Dio» (p. 10). L'uomo di oggi, però, non avverte immediatamente la
grande consolazione della parola «padre», poiché l'esperienza del
padre è spesso o del tutto assente o offuscata dall'insufficienza
dei padri.
Così
dobbiamo imparare, a partire da Gesù, innanzitutto che cosa «padre»
propriamente significhi. Nei discorsi di Gesù il Padre appare
come la fonte di ogni bene, come il criterio di misura
dell'uomo divenuto retto («perfetto»): «Ma io vi dico: amate i
vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli
del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi
e sopra i buoni...» (Mt 5,44s). «L'amore sino alla fine» (cfr. Gv
13,1), che il Signore ha portato a compimento sulla croce pregando
per i suoi nemici, ci mostra la natura del Padre: Egli è questo
Amore. Poiché Gesù lo pratica, Egli è totalmente «Figlio» e ci
invita a diventare a nostra volta «figli» - a partire da questo
criterio.
Prendiamo
ancora un altro testo. Il Signore ricorda che i padri non danno una
pietra ai loro figli che chiedono un pane e continua: «Se voi dunque
che siete cattivi sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più
il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele
domandano!» (Mt 7,9ss). Luca specifica le «cose buone» che dà il
Padre, dicendo: «Quanto più il Padre vostro celeste darà lo
Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!» (Le 11,13). Ciò vuol
dire: il dono di Dio è Dio stesso. La «cosa buona» che Egli ci
dona è Lui stesso. A questo punto diviene sorprendentemente palese
che cosa è in gioco quando si prega: non si tratta di questo o di
quello, ma di Dio che vuole donarsi a
noi questo è il dono dei doni, la «sola cosa di cui c'è
bisogno» (cfr. Le 10,42). La preghiera è una via per purificare a
poco a poco i nostri desideri, correggerli e conoscere pian piano di
che cosa abbiamo veramente bisogno: di Dio e del suo Spirito.
Quando
il Signore insegna a conoscere la natura di Dio Padre a partire dall'
amore per i nemici e a trovare in ciò la propria «perfezione» così
da diventare noi stessi «figli», allora la relazione tra Padre e
Figlio è perfettamente manifesta. Allora diventa evidente che nello
specchio della figura di Gesù noi conosciamo chi è e come è
Dio: attraverso il Figlio troviamo il Padre. «Chi ha
visto me ha visto il Padre», dice Gesù nel Cenacolo a Filippo in
risposta alla sua richiesta: «Mostraci il Padre» (Gv 14,8s).
«Signore, mostraci il Padre», ripetiamo in continuazione a Gesù e
la risposta, sempre di nuovo, è il Figlio: attraverso di Lui, solo
attraverso di Lui impariamo a conoscere il Padre. E così diventa poi
evidente il criterio della vera paternità. Il Padre nostro
non proietta un'immagine umana nel cielo, ma a partire dal cielo - da
Gesù - ci mostra come dovremmo e come possiamo diventare uomini.
Ora,
però, dobbiamo guardare ancora meglio, per renderci conto che,
secondo il messaggio di Gesù, in Dio l'essere Padre presenta per noi
due dimensioni. Dio è innanzi tutto nostro Padre in quanto è nostro
Creatore. Poiché Egli ci ha creato, noi apparteniamo a Lui: l'essere
come tale viene da Lui e perciò è buono, è partecipazione di Dio.
Ciò vale per l'uomo in modo tutto particolare. Il Salmo 33,15,
secondo la traduzione latina, dice: «Egli che ha plasmato i cuori di
tutti [...] fa attenzione a tutte le loro opere». Il pensiero che
Dio ha creato ogni singolo essere umano fa parte dell'immagine
biblica dell'uomo. Ogni uomo, individualmente e come tale, è
voluto da Dio. Egli conosce ciascuno singolarmente. In questo
senso, già in virtù della creazione l'essere umano è in modo
speciale «figlio» di Dio, Dio è il suo vero Padre: che l'uomo sia
immagine di Dio è un altro modo di esprimere questo pensiero.
Questo
ci conduce alla seconda dimensione della paternità di Dio. Cristo è
in modo unico «immagine di Dio»(cfr. 2 Cor4,4; Col 1,15). In base a
ciò i Padri della Chiesa dicono che Dio, quando creò l'uomo «a sua
immagine», guardò in anticipo a Cristo e creò l'uomo a immagine
del «nuovo Adamo», dell'Uomo che è il canone dell'umanità.
Soprattutto, però, Gesù è «il Figlio» in senso proprio - è
della stessa sostanza del Padre. Egli vuole accoglierci tutti nel suo
essere uomo e così nel suo essere Figlio, nella piena appartenenza a
Dio.
Così
la filiazione è divenuta un concetto dinamico: noi non siamo
già in modo compiuto figli di Dio, ma dobbiamo diventarlo ed esserlo
sempre di più mediante una nostra sempre più profonda comunione con
Gesù. Essere figli diventa l'equivalente di seguire Cristo.
La parola che qualifica Dio come Padre diviene così un appello per
noi: a vivere come «figlio» e «figlia».
«Tutte
le cose mie sono tue», dice Gesù al Padre nella preghiera
sacerdotale (Gv 17,10), e la stessa cosa ha detto il padre al
fratello maggiore del figlio prodigo (cfr. Lc 15,31). La parola
«Padre» ci invita a vivere sulla base di questa consapevolezza.
Così viene superata anche la smania della falsa emancipazione che
stava all'inizio della storia del peccato dell'umanità. Adamo,
infatti, sulla parola del serpente, vuole essere lui stesso dio e non
aver più bisogno di Dio. Diviene evidente che «essere figli»
non significa dipendenza, ma quel rimanere nella relazione di
amore che sostiene l'esistenza umana, le dà senso e grandezza.
Rimane
infine ancora la domanda: Dio non è anche madre? Il paragone
dell'amore di Dio con l'amore di una madre esiste: «Come una madre
consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,13). «Si
dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi
per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si
dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai» (Is 49,15). In
modo particolarmente toccante appare il mistero dell'amore materno di
Dio nella parola ebraica rahamim, che originariamente significa
«grembo materno», ma poi diventa il termine per il con-patire di
Dio con l'uomo, per la misericordia di Dio. Nell' Antico Testamento,
organi del corpo umano vengono spesso impiegati per indicare
atteggiamenti fondamentali dell'uomo o anche i sentimenti di Dio,
così come «cuore» o «cervello» sono ancora oggi impiegati per
esprimere qualche aspetto della nostra esistenza. In questo modo
l'Antico Testamento illustra gli atteggiamenti fondamentali dell'
esistenza non con termini astratti, ma con il linguaggio di immagini
tratte dal corpo. Il grembo materno è l'espressione più concreta
dell'intimo intreccio di due esistenze e delle attenzioni verso la
creatura debole e dipendente che, in corpo e anima, è totalmente
custodita nel grembo della madre. Il linguaggio figurato del corpo ci
offre così una comprensione dei sentimenti di Dio per l'uomo più
profonda di quanto permetterebbe un qualsiasi linguaggio concettuale.
Se
nel linguaggio plasmato a partire dalla corporeità dell'uomo l'amore
della madre appare inscritto nell'immagine di Dio, è tuttavia anche
vero che Dio non viene mai qualificato né invocato come madre, sia
nell'Antico che nel Nuovo Testamento. «Madre» nella Bibbia è
un'immagine ma non un titolo di Dio. Perché? Solo a tastoni possiamo
cercare di comprenderlo. Naturalmente Dio non è né uomo né donna,
ma appunto Dio, il Creatore dell'uomo e della donna. Le
divinità-madri, che circondavano il popolo d'Israele come anche la
Chiesa del Nuovo Testamento, mostravano un'immagine del rapporto tra
Dio e mondo decisamente antitetica rispetto all'immagine biblica di
Dio. Esse includevano sempre e forse inevitabilmente concezioni
panteistiche, nelle quali la differenza tra Creatore e creatura
scompariva. Partendo da questo presupposto, l'essere delle cose e
degli uomini appare necessariamente come un' emanazione dal grembo
materno dell'Essere che, entrando nella dimensione del tempo, si
concretizza nella molteplicità delle realtà esistenti. Al
contrario, l'immagine del padre era ed è adatta a esprimere
l'alterità tra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto
creativo. Solo mediante l'esclusione delle divinità-madri l'Antico
Testamento poteva portare a maturità la sua immagine di Dio, la pura
trascendenza di Dio. Ma anche se non possiamo dare delle ragioni
assolutamente cogenti, resta per noi normativo il linguaggio della
preghiera di tutta la Bibbia, nella quale, come detto or ora,
nonostante le grandi metafore dell' amore materno, «madre» non è
un titolo di Dio, non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Noi
preghiamo così come Gesù, sullo sfondo della Sacra Scrittura, ci ha
insegnato a pregare, non come ci viene in mente o come ci piace. Solo
così preghiamo nel modo giusto.
Da
ultimo dobbiamo ancora riflettere sulla parola «nostro». Solo Gesù
poteva dire «Padre mio» a pieno diritto, perché solo Lui è
davvero il Figlio unigenito di Dio, della stessa sostanza del Padre.
Noi tutti dobbiamo invece dire: «Padre nostro». Solo nel «noi»
dei discepoli possiamo dire «Padre» a Dio, perché solo mediante la
comunione con Gesù Cristo diventiamo veramente «figli di Dio».
Così questa parola «nostro» è decisamente impegnativa: ci chiede
di uscire dal recinto chiuso del nostro «io». Ci chiede di entrare
nella comunità degli altri figli di Dio. Ci chiede di abbandonare
ciò che è soltanto nostro, ciò che separa. Ci chiede di accogliere
l'altro, gli altri - di aprire a loro il nostro orecchio, il nostro
cuore. Con questa parola «nostro» diciamo «sì» alla Chiesa
vivente, nella quale il Signore ha voluto raccogliere la sua nuova
famiglia. Così il Padre nostro è una preghiera molto
personale e insieme pienamente ecclesiale.
Nel
recitare il Padre nostro noi preghiamo totalmente col nostro cuore,
ma preghiamo allo stesso tempo in comunione con l'intera famiglia di
Dio, con i vivi e con i defunti, con gli uomini di ogni estrazione
sociale, di ogni cultura, di ogni razza. Il Padre nostro fa di noi
una famiglia al di là di ogni confine.
A
partire da questo «nostro» comprendiamo ora anche l'ulteriore
aggiunta: «che sei nei cieli». Con queste parole noi non
collochiamo Dio, il Padre, su un qualche astro lontano, ma affermiamo
che noi, pur avendo padri terreni diversi, proveniamo tutti da un
unico Padre, che è misura e origine di ogni paternità. «lo piego
le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e
sulla terra prende nome», dice san Paolo (Ef 3,14s). Sullo sfondo
udiamo la parola del Signore: «Non chiamate nessuno "padre"
sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo»
(Mt 23,9).
La
paternità di Dio è più reale della paternità umana, perché
ultimamente il nostro essere lo abbiamo da Lui; perché Egli
ci ha pensati e voluti fin dall' eternità; perché è Lui che ci
dona l'autentica casa del Padre, quella eterna. E se la paternità
terrena separa, quella celeste unisce: cielo significa dunque
quell'altra altezza di Dio, dalla quale tutti noi veniamo e verso la
quale tutti noi dobbiamo essere in cammino.
La
paternità «nei cieli» ci rimanda a quel «noi» più grande che
oltrepassa ogni frontiera, abbatte tutti i muri e crea la pace.
Sia
santificato il tuo nome
La
prima domanda del Padre nostro ci ricorda il secondo comandamento del
Decalogo: «Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio» (Es
20,7; cfr. Dt 5, 11). Ma che cos'è «il nome di Dio»? Quando ne
parliamo, ci torna in mente l'immagine di Mosè, che nel deserto vede
un roveto che arde, ma non si consuma. In un primo momento, spinto
dalla curiosità, si avvicina per vedere questo avvenimento
misterioso quand'ecco che dal roveto una voce lo chiama, e questa
voce gli dice: «lo sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il
Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6). Questo Dio lo rimanda
in Egitto con l'incarico di condurre fuori dall'Egitto il popolo
d'Israele e guidarlo nella terra promessa. Nel nome di Dio, Mosè
dovrà chiedere al faraone la liberazione di Israele.
Ma
nel mondo di allora c'erano molti dèi; così Mosè chiede a Dio il
suo nome, il nome con il quale questo Dio dimostra la sua particolare
autorità di fronte agli altri dèi. L'idea del nome di Dio
appartiene quindi inizialmente al mondo politeistico; in esso anche
questo Dio deve darsi un nome. Ma il Dio che chiama Mosè è
veramente Dio. Dio nel senso vero e proprio non esiste nella
pluralità. Dio è per sua natura uno solo. Per questo non può
entrare nel mondo degli dèi come uno dei tanti, non può avere un
nome in mezzo agli altri nomi.
Così
la risposta di Dio è insieme rifiuto e assenso. Egli dice di sé
semplicemente: «Io sono colui che sono» - Egli è, e basta. Questa
affermazione è insieme nome e non-nome. Perciò era assolutamente
corretto che in Israele non si pronunciasse questa autodefinizione di
Dio percepita nella parola YHWH, che non la si degradasse a una
specie di nome idolatrico.
E
pertanto non è corretto che nelle nuove traduzioni della Bibbia si
scriva come un qualsiasi nome questo nome per Israele sempre
misterioso e impronunciabile, riducendo così il mistero di Dio, del
quale non esistono né immagini né nomi pronunciabili,
all'ordinarietà di una comune storia delle religioni.
Resta
però vero che Dio non ha semplicemente rifiutato la richiesta di
Mosè, e per comprendere questo strano intreccio di nome e non-nome
dobbiamo renderci conto di che cos'è veramente un nome. Potremmo
dire in modo molto semplice: il nome crea la possibilità
dell'invocazione, della chiamata. Stabilisce una relazione. Se
Adamo dà un nome agli animali, ciò non significa che egli esprima
la loro natura, ma che li integra nel suo mondo umano, li mette nella
condizione di poter essere chiamati da lui. Da lì capiamo ora che
cosa, positivamente, sia inteso col nome di Dio: Dio stabilisce una
relazione tra sé e noi. Si rende invocabile. Egli entra in rapporto
con noi e ci dà la possibilità di stare in rapporto con Lui. Ma ciò
significa: Egli si consegna in qualche modo al nostro mondo umano. È
divenuto accessibile e perciò anche vulnerabile. Affronta il rischio
della relazione, dell'essere con noi.
Ciò
che giunge a compimento nell'incarnazione ha avuto inizio con la
consegna del nome. Di fatto vedremo nella riflessione sulla preghiera
sacerdotale di Gesù che Egli lì si presenta come il nuovo Mosè:
«Ho
fatto conoscere il tuo nome agli uomini...» (Gv 17,6). Ciò che
ebbe inizio presso il roveto ardente nel deserto del Sinai si compie
presso il roveto ardente della croce. Dio ora è davvero divenuto
accessibile nel suo Figlio fatto uomo. Egli fa parte del nostro
mondo, si è consegnato, per così dire, nelle nostre mani.
Da
qui comprendiamo che cosa significhi la richiesta della
santificazione del nome di Dio. Ora del nome di Dio si può abusare e
così macchiare Dio stesso. Possiamo impadronirci del nome di Dio per
i nostri scopi e deturpare così l'immagine di Dio. Quanto più Egli
si consegna nelle nostre mani, tanto più noi possiamo oscurare la
sua luce; quanto più Egli è vicino, tanto più il nostro abuso può
renderlo irriconoscibile. Martin Buber ha detto una volta che con
tutto l'infame abuso fatto del nome di Dio potremmo perdere il
coraggio di pronunciarlo. Ma tacerlo sarebbe ancor più un rifiuto
del suo amore che ci viene incontro. Buber dice che potremmo quindi
solo con profondo rispetto raccogliere di nuovo i frammenti del nome
imbrattato e cercare di purificarli. Ma da soli non ne siamo affatto
capaci. Possiamo soltanto implorare Lui stesso che non lasci
annientare la luce del suo nome in questo mondo.
E
questa supplica affinché Egli stesso si prenda cura della
santificazione del suo nome, protegga il meraviglioso mistero della
sua accessibilità da parte nostra e, sempre di nuovo, esca nella sua
vera identità dalla deformazione causata da noi - questa supplica,
tuttavia, costituisce sempre per noi anche un grande esame di
coscienza: come tratto io il santo nome di Dio?
Sto
con timor riverenziale davanti al mistero del roveto ardente, davanti
all'incomprensibile modalità della sua vicinanza fino alla presenza
nell'Eucaristia, nella quale Egli si consegna davvero totalmente
nelle nostre mani? Mi preoccupo che la santa coabitazione di Dio con
noi non trascini Lui nel sudiciume, ma elevi noi alla sua purezza e
santità?
Venga
il tuo regno
Riflettendo
sulla domanda relativa al regno di Dio ci torneranno in mente tutte
le considerazioni che abbiamo fatto in precedenza sull' espressione
«regno di Dio». Con questa domanda riconosciamo anzitutto il
primato di Dio: dove Lui non c'è, niente può essere buono. Dove non
si vede Dio, decade l'uomo e decade il mondo. È in questo senso che
il Signore ci dice: «Cercate prima il regno di Dio e la sua
giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt
6,33). Con questa parola viene stabilito un ordine di
priorità per l'agire umano, per il nostro atteggiamento nella vita
di tutti i giorni.
Non
ci viene affatto promesso un paese della cuccagna per il caso che si
sia pii o in qualche modo desiderosi del regno di Dio. Non viene
prospettato alcun automatismo di un mondo funzionante come quello
proposto nell'utopia della società senza classi, nella quale tutto
dovrebbe andar bene da sé, solo perché non esiste la proprietà
privata. Gesù non ci offre ricette così facili. Stabilisce
piuttosto - come detto - una priorità decisiva per tutto: «regno di
Dio» vuol dire «signoria di Dio» e ciò significa che la sua
volontà è assunta come criterio. Questa volontà crea giustizia,
nella quale è insito che noi riconosciamo a Dio il suo diritto e in
ciò troviamo il criterio su cui misurare il diritto tra gli uomm1.
L'ordine
delle priorità che Gesù qui ci indica può ricordar ci la
narrazione veterotestamentaria circa la prima preghiera di Salomone
dopo la sua intronizzazione. Lì si racconta che il Signore di notte
apparve in sogno al giovane re e gli concesse di porgli una richiesta
per la quale gli assicurava l'esaudimento. Un classico tema dei sogni
dell'umanità! Che cosa chiede Salomone? «Concedi al tuo servo un
cuore docile perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia
distinguere il bene dal male» (1 Re 3,9). Dio lo loda perché non ha
chiesto - come sarebbe stato spontaneo – né ricchezza, né beni,
né gloria, né la morte dei suoi nemici e neppure una lunga vita
(cfr. 2 Cr 1,11), ma la cosa veramente essenziale: il cuore docile,
la capacità di distinguere il bene dal male. E perciò Salomone
ottiene poi anche il resto in aggiunta. Con la domanda: «venga il
tuo regno» (non il nostro!) il Signore vuole condurci proprio a
questo modo di pregare e di stabilire le priorità del nostro
agire. La prima cosa, quella essenziale, è il cuore docile,
perché sia Dio a regnare e non noi. Il regno di Dio viene
attraverso il cuore docile. Questa è la sua via. E per questo
noi dobbiamo pregare sempre.
A
partire dall'incontro con Cristo questa domanda assume una valenza
ancora più profonda, diventa ancora più concreta. Abbiamo visto che
Gesù è il regno di Dio in persona; dove è Lui, là è «regno di
Dio».
Così
la domanda per avere il cuore docile è divenuta la domanda per la
comunione con Gesù Cristo, la domanda di poter diventare sempre di
più «uno» con Lui (cfr. Gal 3,28).
È
la domanda per la vera sequela, che diventa comunione e ci rende un
solo corpo con Lui. Reinhold Schneider lo ha espresso in modo
penetrante: «La vita di questo regno è la prosecuzione della vita
di Cristo nei suoi; nel cuore che non viene più alimentato dalla
forza vitale di Cristo, il regno finisce; nel cuore che da essa viene
toccato e trasformato, comincia [... ] Le radici dell'albero
inestirpabile cercano di penetrare in ogni cuore. Il regno è uno;
sussiste soltanto mediante il Signore che è la sua vita, la sua
forza, il suo centro...» (p. 31s). Pregare per il regno di Dio
significa dire a Gesù: Facci essere tuoi, Signore! Pervadici, vivi
in noi; raccogli nel tuo Corpo l'umanità dispersa, affinché in te
tutto venga sottomesso a Dio e tu poi possa consegnare l'universo al
Padre, cosicché «Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15,26-28).
Sia
fatta la tua volontà come in cielo così in terra
Dalle
parole di questa domanda si rendono immediatamente evidenti due cose:
c'è una volontà di Dio con noi e per noi che deve diventare il
criterio del nostro volere e del nostro essere. E ancora: la
caratteristica del «cielo» è che lì immancabilmente vien fatta la
volontà di Dio, o con altre parole: dove si fa la volontà
di Dio, è cielo. L'essenza del cielo è l'essere una cosa
sola con la volontà di Dio, l'unione tra volontà e verità. La
terra diventa «cielo», se e in quanto in essa vien fatta la volontà
di Dio, mentre è solo «terra», polo opposto del cielo, se e in
quanto essa si sottrae alla volontà di Dio. Perciò noi chiediamo
che le cose in terra vadano come in cielo, che la terra
diventi «cielo».
Ma
che cosa significa «volontà di Dio»? Come la riconosciamo? Come
possiamo adempierla? Le Sacre Scritture partono dal presupposto che
l'uomo nel suo intimo sappia della volontà di Dio, che esista una
comunione di sapere con Dio, profondamente inscritta in noi, che
chiamiamo coscienza (cfr., per es., Rm 2,15). Ma esse sanno anche che
questa comunione di sapere con il Creatore, che Egli stesso ci ha
dato creandoci «a sua somiglianza», è stata sepolta nel corso
della storia mai estinguibile totalmente, essa tuttavia è stata
ricoperta in molti modi; una fiamma debolmente guizzante, che troppo
spesso rischia di essere soffocata sotto la cenere di tutti i
pregiudizi immessi in noi. E per questo Dio ci ha parlato nuovamente,
con parole nella storia che si rivolgono a noi dall' esterno e danno
un aiuto al nostro sapere interiore ormai troppo velato.
Il
nucleo di queste «lezioni sussidiarie» della storia, nella
rivelazione biblica, è il Decalogo del monte Sin ai che - come
abbiamo visto - dal Discorso della montagna non viene per nulla
abolito o reso una «legge vecchia» ma, sviluppato ulteriormente,
risplende ancora più chiaramente in tutta la sua profondità e
grandezza. Questa Parola - l'abbiamo visto - non è una cosa che
all'uomo viene imposta dall'esterno. Essa è - nella misura in cui
siamo capaci di riceverla - rivelazione della natura di Dio stesso e
con ciò spiegazione della verità del nostro essere: ci
viene svelato lo spartito della nostra esistenza, di modo che
possiamo leggerlo e tradurlo nella vita. La volontà di Dio
deriva dall' essere di Dio e ci introduce quindi nella verità del
nostro essere, ci libera dall' autodistruzione mediante la menzogna.
Poiché
il nostro essere proviene da Dio, possiamo, nonostante tutte le
sozzure che ci ostacolano, metter ci in cammino verso la volontà di
Dio. Il concetto veterotestamentario di «giusto» significava
proprio questo: vivere della parola di Dio e così della volontà di
Dio ed entrare progressivamente in sintonia con questa volontà.
Ma
quando Gesù ci parla della volontà di Dio e del cielo, in cui si
compie la volontà di Dio, questo ha di nuovo a che fare in modo
centrale con la sua missione personale. Presso il pozzo di Giacobbe
Egli dice ai discepoli che gli portano da mangiare: «Mio cibo è
fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4,34). Ciò
significa: essere una cosa sola con la volontà del Padre è la fonte
della vita di Gesù. L'unità di volontà col Padre è il nocciolo
del suo essere in assoluto. Nella domanda del Padre nostro
avvertiamo, però, sullo sfondo soprattutto l'appassionata lotta
interiore di Gesù durante il suo dialogo nell'Orto degli ulivi:
«Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non
come voglio io, ma come vuoi tu!» - «Padre mio, se questo calice
non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua
volontà» (Mt 26,39.42). Di questa preghiera di Gesù, nella quale
Egli ci permette di guardare nella sua anima umana e nel suo
diventare «una»con la volontà di Dio, dovremo occuparci ancora in
modo particolare quando rifletteremo sulla passione di Gesù.
L'autore
della Lettera agli Ebrei ha individuato nella lotta interiore
dell'Orto degli ulivi lo svelamento del centro del mistero di Gesù
(cfr. 5,7) e - partendo da questo sguardo nell' anima di Gesù - ha
interpretato questo mistero con il Salmo 40. Egli legge il Salmo
così: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo
invece mi hai preparato. L..] Allora ho detto: ecco io vengo - poiché
di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua
volontà» (Eb 10,5ss; cfr. Sal 40,7 -9). L'intera esistenza di Gesù
è riassunta nella parola: «Ecco io vengo, per fare la tua volontà».
Solo così comprendiamo pienamente la parola: «Mio cibo è fare la
volontà di colui che mi ha mandato». E a partire di là
comprendiamo ora che Gesù stesso è «il cielo» nel
senso più profondo e più autentico Egli, nel quale e mediante il
quale la volontà di Dio vien fatta pienamente.
Guardando
a Lui impariamo che, di nostro, noi non possiamo mai essere
pienamente «giusti»: la forza di gravità della nostra volontà ci
trascina sempre di nuovo lontano dalla volontà di Dio, ci fa
diventare semplice «terra». Egli invece ci accoglie, ci attrae in
alto verso di sé, dentro di sé, e nella comunione con Lui
apprendiamo anche la volontà di Dio. Così, in questa terza domanda
del Padre nostro, chiediamo ultimamente di avvicinarci sempre di più
a Lui affinché la volontà di Dio vinca la forza di gravità del
nostro egoismo e ci faccia capaci dell' altezza alla quale siamo
chiamati.
Dacci
oggi il nostro pane quotidiano
La
quarta domanda del Padre nostro ci appare come la più «umana» di
tutte: il Signore che orienta il nostro sguardo su ciò che è
essenziale, sull' «unica cosa necessaria», sa però anche delle
nostre necessità terrene e le riconosce. Egli, che ai suoi discepoli
dice: «Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete»
(Mt 6,25), ci invita tuttavia a pregare per il nostro cibo e a
trasmettere così la nostra preoccupazione a Dio. Il pane è «frutto
della terra e del lavoro dell'uomo», ma la terra non porta alcun
frutto, se non riceve dall'alto sole e pioggia. Questa sinergia delle
forze cosmiche, che non è stata consegnata nelle nostre mani, si
contrappone alla tentazione della nostra superbia di darci la vita da
soli e con le sole nostre capacità. Tale superbia rende violenti e
freddi. Finisce per distruggere la terra; non può essere altrimenti,
perché contrasta con la verità, che cioè noi esseri umani siamo
destinati a superarci, e che solo nell'apertura a Dio diventiamo
grandi, liberi e noi stessi. Possiamo chiedere e dobbiamo
chiedere. Lo sappiamo: se già i padri terreni danno cose
buone ai figli quando le chiedono, così Dio non ci rifiuterà i beni
che solo Lui può donare (cfr. Lc 11,9-13).
Nella
sua interpretazione della preghiera del Signore, san Cipriano
richiama l'attenzione su due aspetti importanti della domanda. Come
già nell'invocazione «Padre nostro» aveva sottolineato la parola
«nostro» nel suo ampio significato, così anche qui pone in risalto
che si parla del pane «nostro». Anche qui preghiamo nella
comunione dei discepoli, nella comunione dei figli di Dio, e pertanto
nessuno può pensare solo a se stesso. Ne consegue un secondo passo:
noi preghiamo per il nostro pane - chiediamo quindi anche il pane per
gli altri. Chi ha pane in abbondanza è chiamato alla condivisione.
San Giovanni Crisostomo, nella sua spiegazione della Prima Lettera ai
Corinzi - a proposito dello scandalo che davano i cristiani a Corinto
-, sottolinea «che ogni boccone di pane è in qualche modo un
boccone del pane che appartiene a tutti, del pane del mondo».
Padre
Kolvenbach aggiunge: «Come si può, invocando il Padre nostro sulla
mensa del Signore e durante la celebrazione eucaristica nel suo
insieme, dispensarsi dall'esprimere l'inalterabile volontà di
aiutare tutti gli uomini, propri fratelli, ad ottenere il pane
quotidiano?» (p. 98). Con la domanda alla prima persona plurale il
Signore ci dice: «Voi stessi date loro da mangiare» (Me 6,37).
È
importante ancora una seconda osservazione di Cipriano. Chi chiede il
pane per l'oggi è povero. La preghiera presuppone la povertà dei
discepoli. Presuppone persone che, a causa della fede, hanno
rinunciato al mondo, alle sue ricchezze e alle sue lusinghe e
chiedono ormai solo quanto è necessario per la vita.
«A
ragione il discepolo chiede il necessario per vivere solo per il
giorno stesso, perché gli è vietato di preoccuparsi del domani. Per
lui sarebbe anche contraddittorio voler vivere a lungo in questo
mondo, dal momento che chiediamo, appunto, che il regno di Dio venga
presto» (De dom. or. 19).
Nella
Chiesa devono sempre esserci persone che abbandonano tutto per
seguire il Signore; persone che in modo radicale si affidano a Dio,
alla sua bontà che ci nutre - persone, cioè, che in questa maniera
propongono un segno di fede che ci scuote dalla nostra spensieratezza
e debolezza nel credere.
Le
persone che si affidano a Dio al punto da non cercare altra
sicurezza, riguardano anche noi. Ci incoraggiano a fidarci di
Dio - a contare su di Lui nelle grandi sfide della vita.Questa
povertà motivata totalmente dall'impegno per Dio e il suo regno è
allo stesso tempo un atto di solidarietà con i poveri del mondo un
atto che nel corso della storia ha creato nuove valutazioni e una
nuova disponibilità al servizio, all'impegno per gli altri.
La
domanda per il pane, per il pane solo per l'oggi, suscita però anche
il ricordo dei quarant'anni di peregrinazione di Israele nel deserto,
quando il popolo visse di manna - di quel pane che Dio mandava dal
cielo. Ciascuno poteva raccoglierne sempre solo la quantità
necessaria per quel giorno; solo nel sesto giorno se ne poteva
raccogliere la razione necessaria per due giorni, per osservare così
il precetto del sabato (cfr. Es 16,16-22). La comunità dei
discepoli, che ogni giorno rivive della bontà di Dio, rinnova
l'esperienza del popolo di Dio peregrinante, che veniva nutrito da
Dio anche nel deserto.
Così
la domanda per il pane solo per l'oggi apre prospettive che vanno
oltre l'orizzonte del necessario nutrimento quotidiano. Presuppone la
sequela radicale della comunità più ristretta dei discepoli, la
quale rinuncia al possesso in questo mondo e si associa al cammino di
chi stima «l'obbrobrio di Cristo ricchezza maggiore dei tesori
d'Egitto» (Eb 11,26). Appare l'orizzonte escatologico -le cose
future che sono più importanti e più reali di quelle presenti.
Con
ciò tocchiamo adesso una parola di questa domanda che, nelle nostre
abituali traduzioni, suona innocua: dacci oggi il nostro pane
«quotidiano».
Con
«quotidiano» viene resa la parola greca epiousios. Uno dei
grandi maestri della lingua greca - il teologo Origene (t 254 circa)
- dice che in greco questo termine non esiste altrove, è stato
creato dagli evangelisti. È vero che nel frattempo è stata trovata
una testimonianza di questa parola in un papiro del V secolo dopo
Cristo. Ma da sola anch' essa non può dare una certezza sul
significato della parola, in ogni caso molto insolita e rara. Si dève
pertanto dipendere dalle etimologie e dallo studio del contesto.
Esistono
oggi due interpretazioni principali. Una dice che la parola
significherebbe «[il pane] necessario per
l'esistenza»; dunque la domanda sarebbe: dacci oggi il pane di cui
abbiamo bisogno per poter vivere. L'altra interpretazione dice che la
traduzione giusta sarebbe «[il pane] futuro» - quello
per il prossimo giorno. Ma la domanda di ricevere oggi il pane per
domani, alla luce del modo di vivere dei discepoli, non sembra avere
molto senso. Il rimando al futuro sarebbe più comprensibile, se si
pregasse per il pane veramente futuro: per la vera manna di Dio.
Allora si tratterebbe di una domanda escatologica, della domanda per
un' anticipazione del mondo a venire, che cioè il Signore voglia
donare già «oggi» il pane futuro, il pane del mondo nuovo
- se stesso. Allora la domanda otterrebbe un senso
escatologico. Alcune traduzioni antiche vanno in questa direzione,
come per esempio la Vulgata di san Girolamo che traduce la misteriosa
parola con supersubstantialis, interpretandola nel senso della
«sostanza» nuova, superiore, che il Signore ci dona nel santo
Sacramento quale vero pane della nostra vita.
I
Padri della Chiesa, di fatto, hanno inteso in modo praticamente
unanime la quarta domanda del Padre nostro come domanda
per l'Eucaristia; in questo senso la preghiera del
Signore si trova nella liturgia della santa Messa come preghiera
eucaristica. Questo non vuol dire che, con ciò, sia stato tolto alla
domanda dei discepoli il semplice significato terreno, che poc'anzi
abbiamo chiarito quale significato immediato del testo. I Padri
pensano a diverse dimensioni di una parola che inizia dalla domanda
dei poveri per il pane del giorno corrente, ma proprio così -
guardando al Padre celeste che ci nutre - ricorda il popolo di Dio
peregrinante che venne nutrito da Dio stesso.
Per
i cristiani, alla luce del grande discorso di Gesù sul pane, il
miracolo della manna rimandava quasi automaticamente al di là di se
stesso al nuovo mondo, nel quale il Logos -l'eterna parola di Dio -
sarà il nostro pane, il cibo dell' eterno banchetto nuziale.
È
lecito pensare in tali dimensioni o ciò costituisce una
«teologizzazione» sbagliata di una parola che ha invece un
significato semplicemente terreno?
Oggi
queste «teologizzazioni» incutono un timore che non è del tutto
infondato, ma che non si può nemmeno esagerare. lo penso che nella
spiegazione della domanda del pane non si debba perdere di vista il
più ampio contesto delle parole e delle opere di Gesù, nel quale
hanno un ruolo importante contenuti essenziali della vita umana:
l'acqua, il pane e - come segni della festosità e della bellezza del
mondo -la vite e il vino. Il tema del pane occupa un posto rilevante
nel messaggio di Gesù - dalla tentazione nel deserto attraverso la
moltiplicazione dei pani fino all'Ultima Cena.
Il
grande discorso sul pane nel sesto capitolo del Vangelo di Giovanni
dischiude l'intero spettro di significato di questo tema. All'inizio
c'è la fame degli uomini che hanno ascoltato Gesù e che Egli non
congeda senza averli sfamati, c'è quindi il «pane necessario» di
cui abbiamo bisogno per vivere. Ma Gesù non permette poi che ci si
fermi lì, non permette di ridurre il bisogno dell'uomo al pane, alle
necessità biologiche e materiali. «Non di solo pane vivrà l'uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4; Dt 8,3). Il
pane miracolosamente moltiplicato evoca il ricordo del miracolo della
manna nel deserto e rimanda così al contempo oltre se stesso: indica
che il vero cibo dell'uomo è il Logos, la Parola eterna,
il senso eterno da cui proveniamo e in attesa del quale viviamo. Se
questo primo superamento dell' ambito fisico dice inizialmente solo
ciò che anche la grande filosofia ha trovato ed è in grado di
trovare, ecco giungere però immediatamente il secondo superamento:
il Logos eterno diventa concretamente pane per l'uomo solo perché
Egli «si è fatto carne» e ci parla con parole umane.
A
questo segue il terzo ed essenziale superamento che ora, però,
diviene uno scandalo per la gente di Cafarnao: Colui che è diventato
uomo si dà a noi nel Sacramento, e solo così la Parola eterna
diventa pienamente manna, il dono del pane futuro già oggi. Poi,
però, il Signore unisce ancora una volta il tutto: questa estrema
corporeizzazione è appunto la vera spiritualizzazione: «È lo
Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla» (Gv 6,63).
Bisogna forse supporre che nella domanda del pane Gesù abbia escluso
tutto ciò che ci dice sul pane e che voleva darci come pane? Se
prendiamo il messaggio di Gesù nella sua interezza, allora non si
può cancellare la dimensione eucaristica nella quarta domanda del
Padre nostro. La domanda del pane quotidiano per tutti è essenziale
proprio nella sua concretezza terrena. Altrettanto, però, essa ci
aiuta anche a superare l'aspetto puramente materiale e a chiedere già
ora la realtà del «domani», il nuovo pane. E pregando oggi per la
realtà del «domani», veniamo esortati a vivere già ora
del «domani», dell' amore di Dio che ci chiama tutti alla
responsabilità reciproca.
A
questo punto vorrei dare la parola ancora una volta a Cipriano che
sottolinea entrambe le dimensioni di significato. Egli riferisce però
la parola «nostro», di cui abbiamo parlato più sopra, proprio
anche all'Eucaristia che in un senso particolare è pane «nostro»,
pane dei discepoli di Gesù Cristo. Egli dice: noi, che possiamo
ricevere l'Eucaristia come il nostro pane, dobbiamo tuttavia sempre
pregare, affinché nessuno sia tagliato fuori, separato dal Corpo di
Cristo. «Per questo preghiamo, affinché il "nostro" pane,
cioè Cristo, ci sia dato quotidianamente, affinché noi che
rimaniamo e viviamo in Cristo non ci allontaniamo dalla sua forza
santificante e dal suo Corpo» (De dom. or. 18).
E
rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai
nostri debitori
La
quinta domanda del Padre nostro presuppone un mondo nel quale
esistono debiti - debiti di uomini verso uomini, debiti di fronte a
Dio; ogni colpa tra uomini comporta in qualche modo un ferimento
della verità e dell' amore e si oppone così a quel Dio che è la
Verità e l'Amore. Il superamento della colpa è una questione
centrale di ogni esistenza umana; la storia delle religioni gira
intorno a tale questione. Colpa chiama ritorsione; si forma così una
catena di indebitamenti, in cui il male della colpa cresce di
continuo e diventa sempre più difficile sfuggirvi.
Il
Signore, con questa domanda, ci dice: la colpa può essere superata
solo attraverso il perdono, non attraverso la ritorsione. Dio è
un Dio che perdona, perché ama le sue creature; ma il perdono può
penetrare, può diventare efficace solo in colui che, da parte sua,
perdona.
Il
tema «perdono» pervade tutto il Vangelo. Lo incontriamo subito
all'inizio del Discorso della montagna nella nuova interpretazione
del quinto comandamento, in cui il Signore ci dice: «Se dunque
presenti la tua offerta sull' altare e lì ti ricordi che tuo
fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti
all' altare e va' prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi
torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5,23s).
Non
si può presentare al cospetto di Dio chi non si è riconciliato con
il fratello; prevenirlo nel gesto della riconciliazione, andargli
incontro - questo è il presupposto per un giusto culto a Dio. Al
riguardo è spontaneo pensare che Dio stesso, sapendo che noi uomini
come ribelli eravamo in contrasto con Lui, dalla sua divinità si è
mosso incontro a noi, per riconciliarci. Ci ricorderemo che, prima
del dono dell'Eucaristia, Egli si è inginocchiato davanti ai suoi
discepoli e ha lavato i loro piedi sporchi, li ha purificati con il
suo umile amore. A metà del Vangelo di Matteo (cfr. 18,23-35) c'è
la parabola del servo spietato: a lui che era un alto dignitario del
re è stato condonato il debito inimmaginabile di diecimila talenti;
ma lui poi non è disposto a condonare la somma, al confronto
addirittura ridicola, di cento denari: qualunque cosa abbiamo da
perdonar ci a vicenda, è sempre piccola cosa rispetto alla bontà di
Dio che perdona a noi. E infine sentiamo dalla croce la preghiera di
Gesù: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc
23,34).
Se
vogliamo comprendere fino in fondo e fare nostra la domanda del Padre
nostro, dobbiamo andare ancora un passo avanti e chiedere: che
cos'è veramente il perdono? Che cosa avviene lì? La colpa
è una realtà, una forza oggettiva; essa ha causato una distruzione
che deve essere superata.
Perciò
perdonare deve essere più di un ignorare, di un semplice voler
dimenticare. La colpa deve essere smaltita, sanata e così superata.
Il perdono ha il suo prezzo - innanzitutto per colui che perdona:
egli deve superare in sé il male subìto, deve come bruciarlo dentro
di sé e con ciò rinnovare se stesso, così da coinvolgere poi in
questo processo di trasformazione, di purificazioni interiori anche
l’altro, il colpevole, e ambedue, soffrendo fino in fondo il male e
superandolo, diventare nuovi. A questo punto ci imbattiamo nel
mistero della croce di Cristo. Ma innanzitutto ci imbattiamo nei
limiti della nostra forza di guarire, di superare il male. Ci
imbattiamo nello strapotere del male che, con le sole nostre forze,
non riusciamo a dominare. Reinhold Schneider commenta: «Il male vive
in mille forme; occupa i vertici del potere [...] sgorga dall'abisso.
L'amore ha un'unica forma; è il tuo Figlio» (p. 68).
Il
pensiero che Dio per il perdono della colpa, per la guarigione degli
uomini dal di dentro abbia pagato il prezzo della morte del suo
Figlio, ci è diventato oggi assai estraneo: che il Signore si sia
«caricato delle nostre sofferenze e addossato i nostri dolori», che
Egli sia «stato trafitto per i nostri delitti,
schiacciato per le nostre iniquità»; che «per le sue piaghe noi
siamo stati guariti» (1s 53,4-6) - di tutto ciò non riusciamo più
a capacitarci. Vi si oppone, da una parte, la banalizzazione del
male, nella quale ci rifugiamo, mentre, dall' altra, prendiamo
tuttavia gli orrori della storia, proprio anche di quella più
recente, come pretesto irrefutabile per negare un Dio buono e
diffamare la sua creatura, l'uomo. Alla comprensione del grande
mistero dell' espiazione è poi di ostacolo, però, anche la nostra
concezione individualistica dell'uomo: non riusciamo più a capire il
significato della vicarietà, perché secondo noi ogni uomo vive
isolato in se stesso; non siamo più in grado di capire il profondo
intreccio di tutte le nostre esistenze e il loro essere abbracciate
dal1' esistenza dell'Uno, del Figlio fattosi uomo. Quando parleremo
della crocifissione di Cristo, dovremo riprendere questi temi.
Per
il momento basti un pensiero del Cardinale John Henry Newman, il
quale disse una volta che Dio fu sì capace di creare il mondo intero
dal nulla con una parola, ma la colpa e la sofferenza degli uomini
poté superarle solo mettendosi Egli stesso in gioco, divenendo nel
suo Figlio Egli stesso un sofferente che ha portato questo peso e lo
ha superato per mezzo del dono di se stesso. Il superamento della
colpa richiede il prezzo dell'impegno del cuore - di più: l'impegno
dell'intera nostra esistenza. E anche questo impegno non basta; può
divenire efficace solo mediante la comunione con Colui che ha portato
il peso di tutti noi.
La
domanda del perdono è più di un appello morale - è anche questo, e
come tale ci sfida nuovamente ogni giorno. Ma nel più profondo essa
è - come anche le altre domande - una preghiera cristologica.
Ci
ricorda Colui che per il perdono ha pagato il prezzo della discesa
nella miseria dell' esistenza umana e della morte in croce.
Così
ci invita innanzitutto alla gratitudine e poi anche a smaltire
con Lui il male mediante l'amore, a consumarlo soffrendo. E se
ogni giorno dobbiamo riconoscere quanto poco a ciò bastino le nostre
forze, quanto spesso torniamo a essere noi stessi debitori, allora
questa domanda ci dona la grande consolazione che il nostro pregare è
assunto nella forza del suo amore e con esso, per esso e in esso può,
nonostante tutto, divenire forza di guarigione.
E
non c'indurre in tentazione
Le
parole di questa domanda sono di scandalo per molti: Dio non ci
induce certo in tentazione! Di fatto, san Giacomo afferma: «Nessuno,
quando è tentato, dica: "Sono tentato da Dio"; perché Dio
non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male»
(1,13).
Ci
aiuta a fare un passo avanti il ricordarci della parola del Vangelo:
«Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere
tentato dal diavolo» (Mt 4,1). La tentazione viene dal diavolo, ma
nel compito messianico di Gesù rientra il superare le grandi
tentazioni che hanno allontanato e continuano ad allontanare gli
uomini da Dio. Egli deve, come abbiamo visto, sperimentare su di sé
queste tentazioni fino alla morte sulla croce e aprirci in questo
modo la via della salvezza. Così, non solo dopo la morte, ma in essa
e durante tutta la sua vita deve in certo qual modo «discendere
negli inferi», nel luogo delle nostre tentazioni e sconfitte, per
prenderci per mano e portarci verso l'alto. La Lettera agli Ebrei ha
sottolineato in modo tutto particolare questo aspetto, mettendolo in
risalto come parte essenziale del cammino di Gesù: «Infatti,
proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto
personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono
la prova» (2,18). «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non
sappia compatire le nostre infermità, essendo stato Lui stesso
provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato»
(4,15).
Uno
sguardo al Libro di Giobbe, in cui sotto tanti aspetti si delinea già
il mistero di Cristo, può fornirei ulteriori chiarimenti. Satana
schernisce l'uomo per schernire in questo modo Dio: la sua creatura,
che Egli ha formato a sua immagine, è una creatura miserevole.
Quanto in essa sembra bene, è invece solo facciata. In realtà
all'uomo - a ogni uomo - interessa sempre e solo il proprio
benessere. Questa è la diagnosi di Satana, che l'Apocalisse
definisce «l'accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava
davanti al nostro Dio giorno e notte» (Ap 12,10). La diffamazione
dell'uomo e della creazione è in ultima istanza diffamazione di Dio,
giustificazione del suo rifiuto.
Satana
vuole dimostrare la sua tesi con Giobbe, il giusto: se solo gli
venisse tolto tutto, allora egli lascerebbe presto perdere anche la
sua religiosità. Così Dio concede a Satana la libertà di mettere
alla prova Giobbe, anche se entro limiti ben definiti: Dio non lascia
cadere l'uomo, ma permette che venga messo alla prova. Qui traspare
già in modo sommesso e non ancora esplicito il mistero della
vicarietà, che prende una forma grandiosa in Isaia 53: le sofferenze
di Giobbe servono alla giustificazione dell'uomo. Mediante la sua
fede provata nella sofferenza, egli ristabilisce l'onore dell'uomo.
Così le sofferenze di Giobbe sono anticipatamente sofferenze in
comunione con Cristo, che ristabilisce l'onore di noi tutti al
cospetto di Dio e ci indica la via per non perdere, neppure nell'
oscurità più profonda, la fede in Dio.
Il
Libro di Giobbe può anche esserci d'aiuto nel discernimento
tra prova e tentazione. Per maturare, per trovare davvero sempre
più la strada che da una religiosità di facciata conduce a una
profonda unione con la volontà di Dio, l'uomo ha bisogno della
prova. Come il succo dell'uva deve fermentare per divenire vino di
qualità, così l'uomo ha bisogno di purificazioni, di trasformazioni
che per lui sono pericolose, che possono provocarne la caduta, che
però costituiscono le vie indispensabili per giungere a se stessi e
a Dio. L'amore è sempre un processo di purificazioni, di rinunce, di
trasformazioni dolorose di noi stessi e così una via di maturazione.
Se Francesco Saverio poté pregare Dio dicendo: «Ti amo, non perché
puoi donarmi il paradiso o l'inferno, ma semplicemente perché sei
quello che sei - mio re e mio Dio», era stato certamente necessario
un lungo percorso di purificazioni interiori per giungere a
quest'ultima libertà - un percorso di maturazioni, in cui era in
agguato la tentazione, il pericolo della caduta - e tuttavia un
percorso necessario.
Così
possiamo ora interpretare la sesta domanda del Padre nostro già in
maniera un po' più concreta. Con essa diciamo a Dio: «So che ho
bisogno di prove affinché la mia natura si purifichi. Se tu decidi
di sottopormi a queste prove, se - come nel caso di Giobbe - dai un
po' di mano libera al Maligno, allora pensa, per favore, alla misura
limitata delle mie forze. Non credermi troppo capace. Non
tracciare troppo ampi i confini entro i quali posso essere tentato, e
siimi vicino con la tua mano protettrice quando la prova diventa
troppo ardua per me».
In
questo senso san Cipriano ha interpretato la domanda. Dice: quando
chiediamo «e non c'indurre in tentazione», esprimiamo la
consapevolezza «che il nemico non può fare niente contro di noi se
prima non gli è stato permesso da Dio; così che ogni nostro timore
e devozione e culto si rivolgano a Dio, dal momento che nelle nostre
tentazioni niente è lecito al Maligno, se non gliene vien data di là
la facoltà»(De dom. or. 25).
E
poi, ponderando il profilo psicologico della tentazione, egli spiega
che ci possono essere due differenti motivi per cui Dio concede al
Maligno un potere limitato.
Può
accadere come penitenza per noi, per smorzare la nostra superbia,
affinché sperimentiamo di nuovo la povertà del nostro credere,
sperare e amare e non presumiamo di essere grandi da noi: pensiamo al
fariseo che racconta a Dio delle proprie opere e crede di non aver
bisogno di alcuna grazia. Cipriano, purtroppo, non specifica poi il
significato dell'altro tipo di prova: la tentazione che Dio ci impone
ad gloriam - per la sua gloria. Ma in questo caso non dovremmo
ricordarci che Dio ha messo un carico particolarmente gravoso di
tentazioni sulle spalle delle persone a Lui particolarmente vicine, i
grandi santi, da Antonio nel deserto fino a Teresa di Lisieux nel pio
mondo del suo Carmelo? Tali persone stanno, per così dire, sulle
orme di Giobbe come apologia dell'uomo, che è al con tempo difesa di
Dio. Ancor più: sono in modo del tutto particolare in comunione con
Gesù Cristo, che ha sofferto fino in fondo le nostre tentazioni.
Sono chiamate a superare, per così dire, nel proprio corpo, nella
propria anima le tentazioni di un' epoca, a sostenerle per noi, anime
comuni, e ad aiutarci nel passaggio verso Colui che ha preso su di sé
il gravame di tutti noi.
Nella
preghiera che esprimiamo con la sesta domanda del Padre nostro deve
così essere racchiusa, da un lato, la disponibilità a prendere su
di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze; dall'altro,
appunto, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in
grado di sopportare; che non ci lasci cadere dalle sue mani.
Pronunciamo questa richiesta nella fiduciosa certezza per la quale
san Paolo ci ha donato le parole: «Dio è fedele e non permetterà
che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà
anche la via d'uscita e la forza per sopportarla» (1 Cor 10,13).
Ma
liberaci dal male
L'ultima
domanda del Padre nostro riprende ancora la penultima e la volge al
positivo; pertanto entrambe le domande sono strettamente connesse. Se
nella penultima domanda dominava il «non» (non dare spazio al
Maligno oltre la misura sopportabile), nell'ultima ci presentiamo al
Padre con la speranza centrale della nostra fede. «Salvaci,
redimici, liberaci!» In fin dei conti è la domanda della
redenzione. Da che cosa vogliamo essere redenti? Nelle traduzioni
recenti del Padre nostro «il male» di cui si parla può indicare
sia «il male» impersonale, sia «il Maligno». In fondo, i due
significati non si possono separare. Sì, vediamo davanti a noi il
drago di cui parla l'Apocalisse (cfr. capitoli 12 e 13). Giovanni ha
caratterizzato «la bestia»che ha visto «salire dal mare», dagli
abissi oscuri del male, con gli attributi del potere politico romano,
dando così una forma molto concreta alla minaccia che i cristiani
del suo tempo vedevano incombere su di loro: il diritto totale sulla
persona che veniva rivendicato attraverso il culto dell'imperatore,
portando cosi il potere politico-militare-economico al massimo grado
dell' onnipotenza esclusiva - all'espressione del male che minaccia
di ingoiarci. A questo si accompagna la disgregazione degli ordini
morali mediante una forma cinica di scetticismo e di illuminismo.
Sotto questa minaccia, il cristiano del tempo della persecuzione
invoca il Signore come l'unica potenza in grado di salvarlo: liberaci
dal male!
Anche
se l'impero romano e le sue ideologie non esistono più - quanto è
ancora attuale tutto ciò! Anche oggi ci sono, da un lato, le potenze
del mercato, del traffico di armi, di droghe e di uomini - potenze
che gravano sul mondo e trascinano l'umanità in vincoli ai quali non
ci si può sottrarre. Anche oggi c'è, dall'altro lato, l'ideologia
del successo, del benessere, che ci dice: Dio è solo una finzione,
ci fa solo perdere tempo e ci toglie la voglia di vivere. Non ti
preoccupare di Lui! Cerca da solo di carpire dalla vita quanto puoi!
Anche a queste tentazioni sembra impossibile sottrarsi. Il Padre
nostro nella sua interezza, e questa domanda in particolare, vogliono
dirci: solo quando hai perduto Dio, hai perduto te stesso; allora sei
ormai soltanto un prodotto casuale dell' evoluzione. Allora il
«drago» ha vinto davvero. Finché egli non riesce a strapparti Dio,
tu, nonostante tutte le sventure che ti minacciano, sei ancora
rimasto intimamente sano.
Così
è giusto che la traduzione dica: liberaci dal male. Le sventure
possono essere necessarie alla nostra purificazione, ma il male
distrugge.
Questo
dunque chiediamo nel più profondo: che non ci venga strappata la
fede che ci fa vedere Dio, che ci unisce a Cristo. Chiediamo che per
i beni non perdiamo il Bene stesso; che anche nella perdita di beni
non vada perso per noi il Bene, Dio; che non andiamo persi noi:
liberaci dal male!
Anche
qui Cipriano, il Vescovo martire, che dovette sostenere di persona la
situazione descritta nell' Apocalisse, trovò al riguardo parole
splendide: «Quando diciamo "liberaci dal male", non resta
niente che dovremmo ancora oltre ciò chiedere. Una volta ottenuta la
protezione chiesta contro il male, noi siamo sicuri e custoditi
contro tutto ciò che diavolo e mondo possono mettere in atto. Quale
paura potrebbe ancora sorgere dal mondo per colui, il cui protettore
nel mondo è Dio stesso?» (De dom. or. 27). Questa certezza ha
sostenuto i martiri e li ha resi lieti e fiduciosi in un mondo colino
di angustie, ha «liberato» essi stessi nel più profondo, li ha
liberati alla vera libertà.
È
la stessa fiducia che san Paolo ha meravigliosamente espresso con le
parole: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? [...] Chi
ci separerà dunque dall' amore di Cristo? Forse la
tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il
pericolo, la spada? [...] In tutte queste cose noi siamo più che
vincitori per virtù di colui che ci ha amati. lo sono infatti
persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né
presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né
alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in
Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,31-39).
Pertanto,
con l'ultima domanda ritorniamo alle prime tre: chiedendo la
liberazione dal potere del male, chiediamo in definitiva il regno di
Dio, la nostra unificazione con la sua volontà, la santificazione
del suo nome. Gli oranti di tutti i tempi hanno però interpretato la
domanda in senso più vasto. Nelle tribolazioni del mondo pregavano
Dio anche di porre un limite ai «mali» che devastano il mondo e la
nostra vita.
Questo
modo molto umano di interpretare la domanda è entrato nella
liturgia: in tutte le liturgie, eccetto solo quella bizantina,
l'ultima domanda del Padre nostro viene ampliata in una preghiera
particolare che, nell' antica liturgia romana, diceva: «Liberaci, o
Signore, da tutti i mali, passati, presenti e futuri. Per
l'intercessione [...] di tutti i santi, concedi la pace ai nostri
giorni, affinché, con l'aiuto della tua misericordia, viviamo sempre
liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento». Si percepisce l'eco
delle necessità in tempi turbolenti, si percepisce il grido per una
redenzione completa. Questo «embolismo», con cui nelle liturgie
viene rafforzata l'ultima domanda del Padre nostro, mostra l'aspetto
umano della Chiesa. Sì, noi possiamo, noi dobbiamo pregare il
Signore anche di liberare il mondo, noi stessi e i molti uomini e
popoli sofferenti dalle tribolazioni che rendono la vita quasi
insopportabile.
Possiamo
e dobbiamo intendere questo ampliamento dell'ultima domanda del Padre
nostro anche come esame di coscienza per noi - come esortazione a
collaborare affinché venga infranto lo strapotere dei «mali». Ma
con ciò non dobbiamo perdere di vista la vera gerarchia dei beni e
il rapporto dei mali con il Male per eccellenza: la nostra richiesta
non deve decadere nella superficialità; anche in questa
interpretazione della domanda del Padre nostro resta centrale il
pensiero che «veniamo liberati dai peccati», che riconosciamo «il
Male» come la vera avversità e che non ci venga mai
impedito lo sguardo sul Dio vivente.
Tratto dal sito: http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/joseph_ratzinger_jesus.htm
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