“Grazia
e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo” (1
Cor 1,3)
Con
le parole dell’Apostolo Paolo mi rivolgo a voi, cari fratelli e
sorelle nel Signore. Voi siete la mia famiglia, che il
Signore ha affidato alle mie cure pastorali. Da quando il Santo Padre
mi ha nominato Arcivescovo di Genova, ho sentito rinnovarsi
quell’affetto - dono dall’Alto prima che decisione del cuore -
che esprime la paternità spirituale di ogni Pastore verso il suo
popolo. In verità, il mio amore per Genova ha radici nella mia
infanzia e nasce nel centro storico della nostra Città, dove ho
vissuto con la mia famiglia. Si è poi alimentato ed è cresciuto nel
tempo della formazione in Seminario con l’aiuto di tanti Sacerdoti;
si è sviluppato nei trentadue anni di ministero là dove - in
parrocchia e altrove - i miei Arcivescovi mi hanno inviato dandomi
fiducia. A Genova non immaginavo più di tornare; ha
disposto diversamente, e dopo dieci anni sono tornato con tremore e
gioia. Ma anche con fiducia nella bontà e nella benevolenza di
tutti. A tutti sono profondamente grato, a cominciare dai miei
confratelli.
Ho
iniziato a scrivervi parlando della preghiera (2007), poi della
divina Eucaristia (2008) e infine di Eucaristia e famiglia (2009).
Sulla famiglia abbiamo riflettuto nei vari Consigli e nei Vicariati
arrivando ad un aggiornamento circa la preparazione al matrimonio. Le
precedenti Lettere erano ispirate dalle parole che il Santo Padre
aveva indirizzato ai Vescovi Liguri a conclusione della Visita ad
Limina, l’incontro che ogni Vescovo fa periodicamente al Successore
di Pietro. Egli infatti diceva: “La fiaccola della fede, che avete
ricevuto nel battesimo, va tenuta ben accesa con la preghiera e con
la pratica dei sacramenti” (1). Ora ci troviamo nel cuore di un
evento particolare che coinvolge tutta , “l’Anno
Sacerdotale” che il Papa ha indetto in occasione del 150°
anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney, il Santo
Curato d’Ars (1786-1859). Esso interpella innanzitutto noi,
ministri ordinati, ma anche i fedeli laici che nel Battesimo hanno
ricevuto quel sacerdozio battesimale che li abilita ad offrire se
stessi e la propria vita come “culto spirituale” gradito a Dio
(2).
In questo orizzonte, mi è parso che una riflessione sulla “vita spirituale” fosse non solo una certa continuazione, ma anche un modo per entrare insieme in questo particolare Anno: un modo che, al di là delle specifiche differenze che affronteremo in altre forme, riguarda tutti - sacerdoti, consacrati e laici - perché tutti chiamati alla santità in quanto discepoli di Gesù.
In questo orizzonte, mi è parso che una riflessione sulla “vita spirituale” fosse non solo una certa continuazione, ma anche un modo per entrare insieme in questo particolare Anno: un modo che, al di là delle specifiche differenze che affronteremo in altre forme, riguarda tutti - sacerdoti, consacrati e laici - perché tutti chiamati alla santità in quanto discepoli di Gesù.
I.
INTRODUZIONE
«La
messe è molta, ma gli operai sono pochi» (3).
1. Non intendo qui riflettere sulla penuria degli operai del Vangelo, ma sull’abbondanza della messe. Basta guardarsi attorno e vediamo moltitudini che sembrano languire nell’inedia, o altre dibattersi tra violenze di ogni genere, o ancora cercare disperatamente la speranza. Il Santo Padre descrive la situazione con assoluto realismo e fiducia: «Nel nostro tempo in cui vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio» (4).
1. Non intendo qui riflettere sulla penuria degli operai del Vangelo, ma sull’abbondanza della messe. Basta guardarsi attorno e vediamo moltitudini che sembrano languire nell’inedia, o altre dibattersi tra violenze di ogni genere, o ancora cercare disperatamente la speranza. Il Santo Padre descrive la situazione con assoluto realismo e fiducia: «Nel nostro tempo in cui vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio» (4).
La
messe dunque è estesa, come quando Gesù vedeva le folle e ne
sentiva compassione «perché erano stanche e sfinite» (5). Ma è
estesa anche in profondità, cioè nelle profondità dell’anima e
nelle complessità del vivere: nella ricerca insopprimibile della
felicità, l’uomo contemporaneo sembra procedere per tentativi e
spesso sbaglia la strada. In questo andare ondeggiante – che
richiama l’ondeggiare delle messi nei campi – non si esprime
forse la perenne nostalgia di Assoluto? l’essere – ogni uomo –
un mendicante di Infinito, un perenne cercatore di Dio? La diffusa e
a volte confusa esigenza di spiritualità, nonostante il secolarismo
che vorrebbe indurre a vivere senza Dio, sembra essere un “segno
dei tempi”, esprime un rinnovato bisogno di interiorità, di punti
di riferimento per ritrovare se stessi e la strada del vivere.
Esprime l’intuizione antica del bisogno di essere salvati. Da che
cosa? Dall’indegnità morale, dall’assurdità e dal non senso di
tutto - soprattutto della morte - dallo smarrimento interiore che
cresce quanto più l’uomo cerca di soffocarlo. È la spia di una
intuizione reale anche se a volte confusa: che senza la radicale
apertura alla Trascendenza viene meno la consistenza dell’uomo, e
il tessuto della vita individuale e comunitaria si sfalda e si
corrompe. La stessa dimensione etica – personale e sociale – si
indebolisce perché privata del suo ultimo fondamento. Senza Dio si
perde l’uomo.
2. Il
Santo Padre Benedetto XVI avverte che «una nostalgia di Dio, di
spiritualità, di religione esiste oggi nelle persone e che si
ricomincia anche a vedere nella Chiesa una possibile interlocutrice,
dalla quale, a questo riguardo, è possibile ricevere qualcosa ( ...
) Cresce nuovamente la consapevolezza: è una grande
portatrice di esperienza spirituale; è come un albero, nel quale
possono porre il loro nido gli uccelli, anche se poi vogliono di
nuovo volar via – ma è, appunto, il luogo dove ci si può posare
per un certo tempo» (6).
La
“diffusa esigenza di spiritualità” esprime, a ben vedere, anche
il bisogno di un’educazione integrale. Se la persona
non si educa nella sua completezza di anima e di corpo, non si ha
personalità adulta: resta carente e incompleta, quindi fragile di
fronte all’urto incessante del quotidiano. Non basta sviluppare,
anche al meglio, alcune capacità personali: perché il percorso
educativo sia efficace è indispensabile coltivare l’uomo nella sua
totalità. Il bisogno di spiritualità, dunque, rivela anche questa
intuizione, forse non sempre chiara e distinta.
In
una cultura che esalta ed assolutizza l’aspetto fisico, la forma e
l’immagine, l’uomo non riesce a costruire se stesso e a trovare
la felicità, non può formare una società veramente umana, né
portare serenamente – insieme alle gioie – i pesi dell’
esistenza. La ricerca della dimensione spirituale dice che l’uomo
non può fondarsi sulla sabbia, ma deve edificare se stesso sulla
solida roccia. E la roccia è l’anima: educare l’anima non
significa deprezzare o escludere nulla della persona, ma rendere vero
e duraturo tutto ciò che la riguarda. Ecco la “vita spirituale”.
La
coppia e la famiglia, la maturità solida della persona, la vocazione
personale, la speranza verso il domani, la sintesi feconda tra fede e
vita, lo spessore etico, la reazione alla conflittualità sociale,
l’onestà nel lavoro... non hanno forse nella vita spirituale il
“punto di forza”? Se coltivassimo di più l’anima, che
è il centro dell’uomo, non saremmo più capaci di affrontare le
inevitabili sfide della vita, di superare le tentazioni del male e di
resistere alle lusinghe delle facili evasioni dalla complessità e
dalla durezza del reale? I mondi artificiali, o addirittura virtuali,
sono fughe dalle quali si ritorna sempre delusi e vuoti! Quindi
deboli.
II.
VERSO IL “CENTRO”
3. Nonostante
le non poche luci del nostro tempo, la modernità non ha mantenuto la
promessa di fondo: costruire un mondo più umano e sereno. Il valore
del progresso e della funzionalità, se assunto a mito, rischia di
ridurre la persona ad una sola dimensione, quella della materialità.
La dimensione etica è spesso soppiantata dalle crescenti possibilità
tecnologiche, per cui tutto ciò che è possibile tecnicamente è
ritenuto legittimo moralmente. Così il grande dono della ragione,
usata solo in chiave strumentale – in modo utilitaristico –
mortifica l’uomo e lo rende incapace di ascoltare il mistero delle
cose, di contemplare la realtà, di ritrovare l’unità con la
natura e i suoi tempi. Soprattutto, lo ostacola nel riflettere sul
senso ultimo di se stesso, del suo esistere e morire.
Già
il grande pensatore italo-tedesco, Romano Guardini, metteva in
guardia da un mondo puramente funzionale: «Non ci sarebbe posto in
esso per il favore del dono, per il fiorire di una cosa nuova, per la
riuscita, che rende felici, di una cosa perfetta, per il libero
aprirsi del cuore» (7).
4. Ma
l’uomo non può vivere a lungo così: in un modo o nell’altro,
prima o dopo, si pone il perenne problema ed è costretto a
«giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta»
(8). Anche se gli impegni della famiglia e del lavoro gli permettono
di realizzare dimensioni importanti, l’uomo cerca il senso
globale dell’esistenza e non solo quello parziale delle singole
azioni. Si tratta, in altre parole, della domanda antica
quanto l’uomo, ma alla quale ognuno deve dare personalmente
risposta: «Per quale scopo sono qui? La mia vita è utile a
qualcuno? Che cosa c’è dopo la morte?». Porsi questi
interrogativi è indirizzarsi verso il “centro ”, recuperare
quella dimensione profonda dello spirito che una cultura orizzontale
e pragmatica vorrebbe mettere tra parentesi.
Il
filosofo ebreo Martin Buber (1878-1965), nel suo celebre scritto Il
cammino dell’uomo, ricorda una massima della tradizione
ebraica: «Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e
davanti a chi dovrai un giorno rendere conto. Chi considera queste
tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame» (9).
Trovato
il “centro”, è possibile costruire o continuare quell’edificio
interiore che costituisce la struttura portante di ogni persona, la
sua consistenza, e che chiamiamo “vita spirituale”.
5. Il
fenomeno diffuso dell’occultismo e della superstizione, la
suggestione delle filosofie orientali, la ricerca di spiritualità
esoteriche, le diverse forme di New Age, sono a loro modo segni di
una ricerca, dell’intuizione che l’uomo non è riducibile a un
grumo di cellule più sviluppate, una somma di bisogni fisici o di
istanze psicologiche e affettive. Al fondo di certe tendenze, pur non
coerenti con la fede, scorre la sensazione che la vita non è una
pura sequenza di giorni fino al definitivo spegnimento.
In
ogni tempo e luogo, le culture attestano che l’uomo ha una
percezione di sé decisamente più completa e alta: egli cioè si
percepisce come uno spirito immortale in unità profonda con la
propria corporeità e in vitale rapporto con Dio: «Facciamo l’uomo
a nostra immagine e somiglianza» (10). Quanto più si
avvicina al centro interiore dell’anima, tanto più diventa
cosciente che il suo “centro” radicale e fondativo è fuori di
sé: è Dio. E comprende che Dio gli chiede di aprirgli l’intima
dimora dello spirito per incontrarlo nel vincolo dell’amore che
crea e che salva.
Significativa
è la testimonianza di uno storico greco del primo secolo dopo
Cristo: «Se tu andassi in giro per il mondo, potresti trovare città
prive di mura, che ignorano la scrittura, non hanno re, case,
ricchezze, non fanno uso di monete, non conoscono teatri e palestre;
ma nessuno vedrà, né vedrà mai, una città senza templi e senza
divinità» (11).
6. Anche
gli impegni e le preoccupazioni che riempiono le nostre giornate sono
una sfida da prendere in debita considerazione: il rischio è quello
di rincorrere le cose da fare, tanto da esserne presi e da rimanere
alla superficie degli avvenimenti, dei rapporti con gli altri, di noi
stessi... senza cogliere la dimensione più intima, l’anima.
L’esistenza può diventare una specie di congegno di nascondimento
rispetto alla responsabilità della vita e di noi stessi. Un
nascondersi, come l’antico Adamo, da Dio. Esiste per tutti il
pericolo di una specie di atrofia dello spirito. Per questo occorre
tirarsi “fuori ”, o meglio entrare in noi stessi, affacciarsi
a quella realtà più profonda di noi che rischia di essere poco
guardata, presi da mille cose immediate. Ma le cose più urgenti non
sono sempre le più importanti. Si tratta di accogliere l’antica e
attualissima esortazione di sant’Agostino: «Non uscire da te;
rientra in te; nell’uomo interiore abita la verità». È
necessario ritornare a se stessi non per ripiegarsi e rinchiudersi,
ma per ripartire e aprirsi. L’esperienza di Agostino potrebbe
essere anche nostra: «Tardi ti ho amato, bellezza antica e tanto
nuova, tardi ti ho amato. Ed ecco che tu stavi dentro di me e io ero
fuori e là ti cercavo. E io, brutto, mi avventavo sulle cose belle
da te create. Eri con me ed io non ero con te. Mi tenevano lontano da
te quelle creature che, se non esistessero in te, neppure avrebbero
esistenza» (12).
La
grande mistica santa Teresa d’Avila (1515- 1582) ha avuto in dono
una visione di questo “centro” profondo insito in ogni uomo, e lo
ha così descritto: «Possiamo considerare la nostra anima come un
castello fatto di un solo diamante o di un tersissimo cristallo, dove
sono molte stanze, come molte ve ne sono in cielo. ( ... ) Io non
vedo nulla a cui paragonare la grande bellezza di un’anima e la sua
immensa capacità; a stento possiamo capire qualcosa della grande
dignità e bellezza dell’anima. ( ... ) Tutta la nostra attenzione
si volge sulla rozza incastonatura di questo diamante o sul muro di
cinta di questo castello, cioè il nostro corpo. Nel centro di questo
castello, in mezzo a tutte le stanze, si trova la principale, che è
quella nella quale si svolgono le cose di maggior segretezza tra Dio
e l’anima» (13).
7. C’è
una condizione indispensabile per arrivare al “centro”: il
silenzio. Oggi sembra si abbia paura del silenzio, forse perché fa
sentire di essere soli, perché mette di fronte a se stessi. A volte
la compagnia di sé spaventa: meglio il rumore assordante che
distoglie da questo difficile confronto; meglio la compagnia
chiassosa che illude di essere “insieme” mentre si è solo
“accanto”.
La
via per entrare in noi stessi, nel nostro cuore, è il silenzio e
quindi la buona solitudine.
Il Signore Gesù, nella sua missione terrena, non aveva neppure il tempo per mangiare, ma non esitava di lasciare le folle per ritirarsi in un luogo solitario abitato dal silenzio: «Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù» (14).
Il Signore Gesù, nella sua missione terrena, non aveva neppure il tempo per mangiare, ma non esitava di lasciare le folle per ritirarsi in un luogo solitario abitato dal silenzio: «Congedata la folla, salì sul monte, solo, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava ancora solo lassù» (14).
Ascoltiamo
ancora il Guardini: «C’è in te un silenzio che si ascolta con
l’anima. In questo silenzio l’ospite riposa, l’anima si risana»
(15). È questo il “silenzio buono” che ognuno
deve cercare per fermare la corsa interiore e tornare sulle cose, per
coglierne il significato e il valore, per rapportarle al fine per cui
viviamo, perché da semplice cronaca diventino esperienza, anzi
saggezza.
Esiste,
per contro, un silenzio che possiamo definire “cattivo”, perché
non è il luogo della verità ma segno di distanza e di distacco,
spesso di risentimento: «Per esistere personalmente, l’uomo deve
anche tacere. Non essere muto: la mutezza è mancanza di parola, in
cui la persona soffoca. Il tacere invece suppone la persona» (16). E
Bossuet affermava che il silenzio è «il guardiano dell’anima»
(17). Esso non è evasione, ma è raccogliere noi stessi nel cavo di
Dio. Il silenzio, quello abitato dalla ricerca e dal gusto della
verità, non è dunque mutismo. È il silenzio dei santi e dei
profeti che entrano nella cella segreta dell’anima e incontrano se
stessi nel mistero di Dio, fanno ordine nei sentimenti, riconoscono i
propri errori. In questo spazio gli accadimenti trovano la loro
misura, il dolore diventa maestro di vita, le gioie si distinguono
tra vere e false, le aspirazioni si rivelano ragionevoli oppure
sproporzionate, le conquiste si manifestano come doni e segnali
verso una parola, nel silenzio pensoso l’anima riconosce
se stessa, ordina la vita, si scopre importante per Dio, ne
percepisce il richiamo. Suonano come un programma le parole di Papa
Benedetto XVI: «La risposta a Dio esige quel cammino interiore che
porta il credente ad incontrarsi con il Signore. Tale incontro è
possibile solo se l’uomo è capace di aprire il suo cuore a Dio,
che parla nella profondità della coscienza. Ciò esige interiorità,
silenzio, vigilanza (...)» (18).
III. LA
VITA SPIRITUALE
8. Qualcuno
ha affermato che il cristiano del futuro sarà un “mistico” o non
sarà volendo mettere in evidenza che lo specifico della fede
cristiana non è avere buoni sentimenti e neppure un codice di
comportamento, ma è la vita della grazia. La fede cristiana
è conoscere Dio perché lo si incontra; è sapere che Dio è
Qualcuno; non è fare alcune cose ma vivere riferiti, ricongiunti a
Lui; è intuire che noi esistiamo perché Dio vive; è esserne
affascinati, ghermiti e posseduti.
Il
rischio di pensare il Cristianesimo come fatto morale e non
innanzitutto soprannaturale, come riserva di valori – una specie di
“religione civile” – e non innanzitutto come apertura al
Mistero, è oggi diffuso. Se esso è ridotto a teoria o a codice,
svuota se stesso: solo una persona suscita incanto! Il
cristiano è colui che sente l’attrattiva di Gesù perché rivela
il volto di Dio, e di questo fascino vive nonostante fatiche e
cadute.
Suonano
ardite, ma straordinariamente vere le parole di grandi santi: «L’uomo
ha ricevuto l’ordine di diventare dio», afferma san Basilio. E
sant’Atanasio incalza: «Dio si è fatto uomo affinché l’uomo
potesse diventare dio secondo la grazia», e perché l’uomo potesse
rispondere a questa straordinaria vocazione «il Verbo si è fatto
carne perché noi potessimo ricevere lo Spirito Santo»!
9. Questo
«diventare dio secondo la grazia» esprime un dono e una
responsabilità, una chiamata e una risposta. Il dono è il
Battesimo, la risposta è il cammino del nostro mondo interiore, è
il lavoro dell’anima. La vita spirituale è “spirituale”
perché è implicato il nostro spirito immortale con la sua libertà
e le sue caratteristiche; è “spirituale” perché è un camminare
secondo lo Spirito Santo che abbiamo ricevuto nel Battesimo:
«In verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito non può
entrare nel Regno di Dio. Quel che è nato da carne è carne e quel
che è nato dallo Spirito, è Spirito» (19). E San Paolo riprende:
«Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito costoro sono figli di
Dio... E lo Spirito attesta che siamo figli di Dio» (20). Ne
consegue, da parte dell’uomo, il compito della vita spirituale:
«Camminate secondo lo Spirito... se pertanto viviamo dello Spirito,
camminiamo anche secondo lo Spirito» (21).
Per
questo dobbiamo avere fiducia: fiducia nell’azione potente dello
Spirito Santo, primo protagonista del nostro itinerario spirituale.
10. «Abbiate
in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (22).
L’esortazione di Paolo indica lo scopo del cammino spirituale:
avere gli stessi sentimenti di Gesù. Non si tratta di sentimenti
evanescenti e volubili, ma di solidi criteri che fanno lo stile di
Cristo, modello attraente e vitale del credente: «La creazione
dell’uomo è fatta per Lui (Cristo), affinché l’uomo non possa
separarsi dal suo modello» (23). Dall’acqua del Battesimo l’uomo
riceve nell’anima il Volto di Gesù; ma nel corso dell’esistenza
terrena egli deve far risplendere questa originaria bellezza vivendo
con gli stessi sentimenti di Cristo: imparando a pensare con il
pensiero di Lui e ad amare con il suo cuore. Questo cammino
di conformazione spirituale e ascetica a Gesù, anzi di appartenenza
radicale a Lui, è la vita spirituale.
Il
compito che il Servo di Dio Giovanni Paolo II indicava alla Chiesa
all’inizio del millennio era quello di “ripartire da Cristo”,
contemplare il suo Volto profondamente umano e profondamente divino.
Scopo di questa contemplazione spirituale è la nostra configurazione
a Lui, cioè la santità: «Chiedere a un catecumeno: ‘Vuoi
ricevere il Battesimo?’ significa al tempo stesso chiedergli: ‘Vuoi
diventare santo?’ ( ... ) È ora di riproporre a tutti con
convinzione questa ‘misura alta’ della vita cristiana ordinaria»
(24).
IV.
LE SORGENTI DELLA VITA SPIRITUALE
1. La
Parola di
Dio
11. «Tu
hai parole di vita eterna» risponde Pietro a Gesù che chiede se
anche loro, gli apostoli, volevano abbandonarlo come la folla (25).
Nel
grande mercato delle parole, l’uomo moderno cerca come
il mercante cerca la perla preziosa. di cui il mondo ha
bisogno riguarda il senso ultimo di questo straordinario e fragile
universo, della nostra tormentata storia. L’uomo cerca la luce
sulla morte e sul dolore, specialmente quando questo bussa alla porta
di casa. È di questa parola che ognuno ha desiderio: le altre hanno
significato se in qualche misura servono a questa parola decisiva.
Immergersi
nelle Scritture Sante, affidarsi con semplicità e costanza alla
Parola del Signore, è la prima sorgente della vita spirituale. Dal
Vangelo infatti emerge il volto di Gesù: le sue parole, i silenzi, i
gesti, i sentimenti, il suo rapporto con il Padre. A questa sorgente
cristallina le anime si sono sempre dissetate prendendo vigore per
vivere, come ricorda il Concilio: « La Chiesa ha sempre
venerato le Divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di
Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra Liturgia, di
nutrirsi del Pane della vita dalla mensa sia della Parola di Dio che
del Corpo di Cristo» (26). E il grande Vescovo e martire del secondo
secolo, sant’Ignazio d’Antiochia, affermava in modo incisivo: «Mi
affido al Vangelo come alla carne di Cristo»! Nella linea di questa
viva tradizione, i Vescovi italiani esortano tutti a fare della
Bibbia il pane quotidiano: «Dovremmo nutrirci della Parola di Dio
bramandola come il bambino cerca il latte di sua madre: per la
vitalità della Chiesa, questa è un’esperienza essenziale» (27).
Accostare
ogni giorno un brano evangelico richiede un po’ di fede e di buona
volontà. È come esporsi alla luce per diventare luminosi,
è nutrire l'anima, è mettersi alla scuola di Gesù, il Figlio
eterno di Dio. Attraverso le mani invisibili dello Spirito
Santo, modella il nostro spirito e gli imprime i
sentimenti di Cristo. Il Vangelo, “frequentato” ogni giorno,
diventerà la nostra casa accogliente anche se esso è impegnativo
perché mette a nudo l’anima. Lasciamoci incoraggiare dalle parole
del salmo: «Sono più saggio di tutti i miei maestri perché medito
i tuoi insegnamenti. Ho più senno degli anziani perché osservo i
tuoi precetti» (28).
12. Per
accostare con verità e frutto le Sacre Scritture è necessario
credere che esse «contengono rola di Dio e, perché ispirate,
sono veramente Parola di Dio» (29). Il Vangelo non è un libro fra i
libri. È la parola del Verbo di Dio fatto vita da contemplare e da
raccontare. In esso c’è una virtù che illumina e trasforma, un
dono che si riversa nelle mani della fede; che si riceve nelle
profondità della speranza; che chiede un’anima prosternata
nell’adorazione. È avvincente la testimonianza dell’agnostico
André Gide: «Non perché mi sia stato detto che tu eri il Figlio di
Dio ascolto la tua parola; ma la tua parola è bella al di sopra di
ogni parola umana e da ciò riconosco che sei il Figlio di Dio»!
Inoltre,
occorre ricordare che Gesù continua ad essere con noi anche oggi per
spiegarci le Scritture: è Lui, con il suo Spirito e nella sua
Chiesa, a spiegare la sua parola. Ecco perché va sempre
letta nella Chiesa e con , per non correre il rischio di dare
interpretazioni puramente soggettive e distorte; per lasciarlo
parlare senza aggiustamenti; per non «metterlo alla pari con la moda
del giorno, come se Dio non fosse alla moda di tutti i giorni, come
se si potesse ritoccare Dio», come scriveva una ventenne francese,
Madeleine Delbrêl, che si convertì al Cattolicesimo nel 1924 (30).
Una
vita spirituale solida, dunque, richiede l’attenzione alla
Tradizione viva e al Magistero autentico: è Madre e
Maestra, e ha ricevuto dal suo Signore il compito di custodire
intatta la fede apostolica per il bene dei credenti. Ecco perché
l’ascolto filiale e docile della parola del Papa, e dei Vescovi con
lui, fa parte della crescita spirituale di ogni credente. Ascoltiamo
ancora il Concilio Vaticano II: «L’ufficio di interpretare di
Dio scritta o trasmessa è affidato al solo Magistero vivo della
Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo»
(31).
Inoltre,
perché la fede diventi adulta, non si può prescindere
dalla conoscenza progressiva di tutte le verità della fede
cattolica, altrimenti diventa un sentimento senza contenuti.
È qui da ricordare la grande ignoranza che dilaga a proposito delle
verità della nostra religione: purtroppo anche delle più basilari.
A tale proposito è strumento provvidenziale il Catechismo della
Chiesa Cattolica, autorevole e completa sintesi dottrinale.
In questo contesto, è opportuno ricordare che la crescita della fede si misura anche con la storia, cioè con la testimonianza di fronte al mondo. Il Signore Gesù ha dato ai discepoli il compito di essere «luce e sale della terra» (32): si tratta della responsabilità di ogni fedele laico di animare le realtà terrene con i valori cristiani, consapevole che una cultura ispirata al Vangelo è un bene per tutti. Cosciente che il suo compito è di «portare in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro (...)» fino a «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con di Dio e col disegno della salvezza» (33). La fede non può mai essere confinata nella sfera del privato: coinvolge l’intera persona e quindi anche la sua dimensione pubblica e sociale. I grandi valori della verità, della giustizia, dell’amore, della libertà – pilastri di un mondo prospero e pacificato – sono valori evangelici, desiderati e perseguiti da ogni uomo di buon senso e di buona volontà.
In questo contesto, è opportuno ricordare che la crescita della fede si misura anche con la storia, cioè con la testimonianza di fronte al mondo. Il Signore Gesù ha dato ai discepoli il compito di essere «luce e sale della terra» (32): si tratta della responsabilità di ogni fedele laico di animare le realtà terrene con i valori cristiani, consapevole che una cultura ispirata al Vangelo è un bene per tutti. Cosciente che il suo compito è di «portare in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro (...)» fino a «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con di Dio e col disegno della salvezza» (33). La fede non può mai essere confinata nella sfera del privato: coinvolge l’intera persona e quindi anche la sua dimensione pubblica e sociale. I grandi valori della verità, della giustizia, dell’amore, della libertà – pilastri di un mondo prospero e pacificato – sono valori evangelici, desiderati e perseguiti da ogni uomo di buon senso e di buona volontà.
Per
rispondere a questo delicato e irrinunciabile compito, dobbiamo
ricordare la necessità e il dovere di conoscere e mettere in pratica
il Magistero sociale della Chiesa. Il “Compendio della
Dottrina Sociale della Chiesa” deve essere, per ogni
cattolico che intende vivere una fede matura e incarnata, un punto di
costante riferimento e di concreto orientamento.
13. Anche
le parole degli uomini possono aiutare: se non sono chiacchiere. Si
può parlare senza dire; peggio ancora è seminare idee false e
principi immorali. Tra le molte parole che dilagano è necessario
discernere per individuare quelle dense di significato, di saggezza;
che aiutano a camminare nelle vie della verità e del mistero; che
illuminano per conoscere se stessi. Sappiamo che la parola umana è
veicolo di verità e di comunicazione; ma può diventare strumento di
menzogna, di raggiro, di violenza.
Gli
uomini che, dall’antichità ad oggi, hanno pensato e scritto con
intelligenza e onestà interiore, sono come delle luci per l’umanità.
Meritano di essere considerati con attenzione e gratitudine. Bisogna
distinguere tra i buoni e i cattivi maestri: gli uni umilmente
indicano delle vie per introdurci al mistero della realtà. Gli altri
con sufficienza, a volte arrogante e a volte melliflua e contorta,
demoliscono i valori in nome di una concezione di libertà impazzita
perché sradicata dalla verità delle cose. Tentano di insinuare e di
«far prevalere una antropologia senza Dio e senza Cristo» (34),
chiusa allo spirito e alla Trascendenza. Quando ciò avviene, la
libertà perde se stessa e si rivolta contro l’uomo: basta pensare
alle varie idee circa la vita, la bioetica, la coppia, la famiglia,
il matrimonio. Attaccare questi “santuari” dell’uomo
significa non solo andare contro Dio ma anche contro l’uomo.
Solo
aderendo alla verità la persona vive sulle ali della libertà. La
vera libertà è scegliere il bene, perché solo il bene realizza
l’uomo: e il bene ce lo indica Dio che è il Sommo Bene.
2.
La preghiera
14. Come
sulla via di Emmaus, non basta essere ammaestrati dalla Parola del
Signore: perché l’incontro con Lui si compia è necessario entrare
nella preghiera. Mentre le Sacre Scritture ci svelano il mistero di
Cristo, la preghiera personale esprime il dialogo con Lui, e i
sacramenti – in modo particolare la divina Eucaristia – ci
introducono tra le braccia del Risorto.
Emerge,
dunque, un altro aspetto fondamentale dell’itinerario spirituale:
l’unità tra Parola, preghiera e Sacramenti. L’ascolto
della Parola scritta, infatti, tende per suo intimo dinamismo
all’incontro con fatta carne, Cristo.
È
ancora Giovanni Paolo II che ci incoraggia. Egli constata «un
rinnovato bisogno di preghiera» e ci ricorda che «la grande
tradizione mistica della Chiesa, sia in Oriente che in Occidente, può
dire molto a tale proposito. Essa mostra come la preghiera possa
progredire, quale vero e proprio dialogo d’amore, fino a rendere la
persona umana totalmente posseduta dall’Amato divino ( ... ) Si
tratta di un cammino interamente sostenuto dalla grazia, che chiede
tuttavia forte impegno spirituale e conosce anche dolorose
purificazioni (la “notte oscura”), ma approda, in diverse forme
possibili, all’indicibile gioia vissuta dai mistici come unione
sponsale» (35).
15. Il cammino di vita spirituale richiede ogni giorno un piccolo tempo dedicato alla preghiera personale: potrà essere all’inizio della giornata o al suo termine, da soli o con altri, in casa o in chiesa davanti al Santissimo Sacramento; con un brano del Vangelo, con i salmi o con le tradizionali preghiere del cristiano (il Padre nostro, l’Ave Maria, il Ti adoro, l’Angelo di Dio, l’Eterno riposo ... ), o con il Rosario che è il Vangelo meditato e pregato con Nessuno deve sentirsi incapace o escluso! Nessuno deve pensare che è troppo difficile o impossibile! La preghiera, ci insegnano i Santi, è semplice: «Per me la preghiera è uno slancio del cuore, un semplice sguardo gettato verso il cielo, un grido di gratitudine e di amore nella prova come nella gioia» (36). E ancora: «La preghiera è l’elevazione dell’anima a Dio o la domanda a Dio di beni convenienti» (37). Uno sguardo al crocifisso, al tabernacolo, all’immagine della Madonna, un semplice grazie, un’invocazione di aiuto nella difficoltà, un’umile richiesta di perdono, una riflessione su una pagina di Vangelo... tutto è preghiera gradita a Dio. Ed è possibile a tutti.
16. Vorrei aggiungere una certezza di fede: non dobbiamo lasciarci impressionare dalla semplicità e a volte dalla povertà della nostra preghiera. La cosa più importante e decisiva è credere che attraverso questi momenti di orazione, piccoli ma quotidiani, lo Spirito Santo forma la nostra anima e la configura al volto di Gesù.
15. Il cammino di vita spirituale richiede ogni giorno un piccolo tempo dedicato alla preghiera personale: potrà essere all’inizio della giornata o al suo termine, da soli o con altri, in casa o in chiesa davanti al Santissimo Sacramento; con un brano del Vangelo, con i salmi o con le tradizionali preghiere del cristiano (il Padre nostro, l’Ave Maria, il Ti adoro, l’Angelo di Dio, l’Eterno riposo ... ), o con il Rosario che è il Vangelo meditato e pregato con Nessuno deve sentirsi incapace o escluso! Nessuno deve pensare che è troppo difficile o impossibile! La preghiera, ci insegnano i Santi, è semplice: «Per me la preghiera è uno slancio del cuore, un semplice sguardo gettato verso il cielo, un grido di gratitudine e di amore nella prova come nella gioia» (36). E ancora: «La preghiera è l’elevazione dell’anima a Dio o la domanda a Dio di beni convenienti» (37). Uno sguardo al crocifisso, al tabernacolo, all’immagine della Madonna, un semplice grazie, un’invocazione di aiuto nella difficoltà, un’umile richiesta di perdono, una riflessione su una pagina di Vangelo... tutto è preghiera gradita a Dio. Ed è possibile a tutti.
16. Vorrei aggiungere una certezza di fede: non dobbiamo lasciarci impressionare dalla semplicità e a volte dalla povertà della nostra preghiera. La cosa più importante e decisiva è credere che attraverso questi momenti di orazione, piccoli ma quotidiani, lo Spirito Santo forma la nostra anima e la configura al volto di Gesù.
Quando
il dolore, il bisogno, le difficoltà bussano alla nostra porta, la
preghiera sgorga più facile e immediata. Nel mio ministero molte
volte ho ascoltato l’obiezione che la preghiera fatta in stato di
necessità non è autentica perché “interessata”! È
un’obiezione ingiusta. Dimentica l’esempio di Cristo che mai,
nella sua vita terrena, ha biasimato la preghiera dei malati e dei
sofferenti: di coloro che si rivolgevano a lui sulla spinta
dell’afflizione. Senza dire che Egli stesso, nell’orto degli
Ulivi, in stato di sanguinosa agonia di fronte alla passione
imminente, ha pregato di allontanare il calice della sofferenza e
della morte: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice!» (38).
L’esperienza
della difficoltà e della debolezza riconduce l’uomo alla sua
verità: la verità di non essere creatore ma creatura, non padrone
della vita ma beneficiario e quindi umile custode. Troppo spesso oggi
si rischia una specie di “delirio di onnipotenza”, dimenticando
che noi esistiamo perché “dipendiamo” da Dio: «dimenticando che
non è l’uomo che fa Dio ma Dio che fa l’uomo. L’aver
dimenticato Dio ha portato ad abbandonare l’uomo» (39). La prova
ci ricorda, anzi ci fa toccare con mano questa realtà: per questo
l’anima ritrova facilmente la via della preghiera che esprime
umilmente il rapporto vitale con Dio, Creatore e Padre.
Certamente,
è auspicabile e doveroso che la nostra preghiera vada oltre il
momento della difficoltà e percorra ogni istante, lieto o triste,
della nostra esistenza. Così come, sull’esempio di Gesù, le
nostre richieste devono essere sempre ispirate al totale e fiducioso
abbandono alla divina Provvidenza, le cui vie non sono sempre le
nostre: «Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (40).
2.1
Eucaristia
17. Ma
la preghiera delle preghiere, il gesto dei gesti, è la santa Messa,
il Sacrificio divino, «fonte
e apice di tutta la vita cristiana» (41): «nella Santissima
Eucaristia, infatti, è racchiuso tutto il bene spirituale della
Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua» (42).
Nella
partecipazione alla santa Messa offriamo al Padre, insieme al
Sacrificio di Cristo, le pene e le gioie della vita, le difficoltà e
le speranze, perché tutto acquisti valore per il tempo e per
l’eternità. Gesù ci ha lasciato il memoriale del Sacrificio della
Croce perché la nostra vita spirituale potesse attingere luce e
forza, e così imparare ad amare come Lui ama ciascuno di noi.
L’apostolo Paolo afferma con inesausto stupore: «...mi ha amato e
ha dato se stesso per me... !» (43). Ognuno applichi a sé queste
parole! Sentirà sua l’affermazione di san Giovanni Crisostomo:
«Niente spinge tanto all’amore chi è amato, quanto il sapere che
l’amante desidera ardentemente di essere corrisposto!» (44). La
divina Eucaristia non è forse Gesù stesso che nel pane e nel vino
consacrati rende visibile il suo ardente desiderio di essere amato
dall’uomo? Lì Dio è con noi nella sua reale presenza: si fa pane
di vita eterna, sorgente della comunione fraterna. Egli non ha
bisogno di noi, mentre noi abbiamo bisogno di Lui: nel presente e
nell’eternità futura.
Comprendiamo
che non si può camminare nella via dello Spirito senza
partecipare il più possibile alla santa Messa, a cominciare dalla
domenica, il Giorno del Signore, in cui per tutti i cristiani esiste
un gioioso dovere.
Nell’omelia
per il XXIV Congresso Eucaristico nazionale, Papa Benedetto XVI ha
rivolto a tutti questo invito: «Noi dobbiamo riscoprire la gioia
della domenica cristiana. Dobbiamo riscoprire con fierezza il
privilegio di poter partecipare all’Eucaristia, che è il
sacramento del mondo rinnovato. ( ... ) Sant’Ignazio di Antiochia
presentava i cristiani come persone “viventi secondo la domenica (
... ) Come potremmo vivere senza di Lui?”. Sentiamo echeggiare in
queste parole di sant’Ignazio l’affermazione dei martiri di
Abitene: “Sine dominico non possumus” – “senza la
domenica non possiamo vivere ”. Proprio di qui sgorga la nostra
preghiera: che anche i cristiani di oggi ritrovino la consapevolezza
della decisiva importanza della Celebrazione domenicale e sappiano
trarre dalla partecipazione all’Eucaristia lo slancio necessario
per un nuovo impegno nell’annuncio al mondo di Cristo “nostra
pace” (45). Amen !» (46).
Siamo tutti invitati, per la nostra vita spirituale come per quella delle nostre comunità, a crescere nell’amore all’Eucaristia non solo con la regolare partecipazione alla Messa festiva, ma anche con la visita individuale al Santissimo Sacramento, con la pratica della “Comunione Spirituale” quotidiana e, almeno una volta nella settimana, con l’adorazione personale o comunitaria davanti al Santissimo esposto.
Siamo tutti invitati, per la nostra vita spirituale come per quella delle nostre comunità, a crescere nell’amore all’Eucaristia non solo con la regolare partecipazione alla Messa festiva, ma anche con la visita individuale al Santissimo Sacramento, con la pratica della “Comunione Spirituale” quotidiana e, almeno una volta nella settimana, con l’adorazione personale o comunitaria davanti al Santissimo esposto.
È
questo il momento migliore per vivere la preghiera di adorazione, di
lode, di benedizione. L’«adorazione» è riconoscere e gioire
della nostra piccolezza e fragilità di fronte a Dio «sempre più
grande di noi» (47). È stare da creature di fronte al nostro
Creatore che ci avvolge e ci abbraccia. La “lode” è cantare Dio
perché Egli è, gioire perché esiste. La “benedizione” è la
nostra risposta riconoscente e grata per i doni che Egli sparge nella
nostra vita e nella storia. Come è evidente, la benedizione diventa
ringraziamento, ed è preludio dell’intercessione e della
domanda.
2.2
Riconciliazione
18. E
che dire del sacramento della Riconciliazione o del perdono?
«Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati
giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del
nostro Dio» (48). Gesù dona agli Apostoli il potere di riconciliare
con Dio i peccatori pentiti: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi
rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete,
resteranno non rimessi» (49). La confessione individuale e integra e
l’assoluzione sacramentale costituiscono l’unico modo ordinario
con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con
Dio e con (50).
Siamo
tutti peccatori, bisognosi della misericordia e del perdono di Dio.
Vivere da cristiani è avvincente ma arduo, significa spesso andare
contro corrente, anche contro noi stessi: non di rado si è
incoerenti. Il Signore Gesù nella confessione ci fa scoprire e
gustare il suo cuore compassionevole e ci riconcilia pienamente a sé
(grazia santificante). Ci dona anche una grazia tutta
particolare per riprendere il cammino della vita spirituale con
fiducia e vigore (grazia sacramentale).
Per questi motivi è importante accostarsi frequentemente alla confessione con umiltà e fede. Come non essere presi da intima commozione ripensando al padre misericordioso della parabola evangelica (51), che ogni giorno scruta l’orizzonte per scorgere il ritorno del figlio dissoluto, da lontano ne riconosce la figura, gli corre incontro e lo avvolge con il suo abbraccio di perdono e di festa?
Per questi motivi è importante accostarsi frequentemente alla confessione con umiltà e fede. Come non essere presi da intima commozione ripensando al padre misericordioso della parabola evangelica (51), che ogni giorno scruta l’orizzonte per scorgere il ritorno del figlio dissoluto, da lontano ne riconosce la figura, gli corre incontro e lo avvolge con il suo abbraccio di perdono e di festa?
Alla
luce di questo incontro che rigenera, comprendiamo e restiamo avvinti
dalle parole di sant’Ambrogio: «Non mi glorierò perché sono
giusto, ma mi glorierò perché sono redento. Non mi glorierò perché
sono vuoto di peccati, ma perché i peccati mi sono rimessi. Non mi
glorierò perché sono stato d’aiuto (... ) ma perché il sangue di
Cristo è stato versato per me» (52).
Un
cammino spirituale serio non può prescindere dalla Confessione
frequente e ben preparata attraverso l’esame di coscienza, il
dolore per il male compiuto, il proposito sincero di migliorarci con
la grazia di Dio, l’accusa dei propri peccati al sacerdote, e
l’accettazione cordiale della penitenza.
3.
La carità
19. «Uomo,
dice il Signore, considera che io sono stato il primo ad amarti. Tu
non eri ancora al mondo... e io già ti amavo. Da che sono Dio, io ti
amo!» (53). La carità cristiana, senza la quale non esiste vita
spirituale, ha questa origine: «In questo si è manifestato l’amore:
Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi
avessimo la vita per lui. In questo sta l’amore: non siamo stati
noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo
Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (54).
La
carità, altra sorgente della vita spirituale, si presenta sotto un
triplice profilo.
3.1
Risposta d’amore
20. Camminare
nella vita spirituale significa lasciarsi amare da Gesù. Si dice che
il problema più grave oggi è la fede: ed è vero. Come ho già
accennato, i cristiani devono essere attenti a non confondere la
“fede” con la “religiosità”. Questa, infatti, esprime il
bisogno umano verso la trascendenza, indica l’intuito di una
qualche apertura verso il divino: ma l’esito è spesso una
spiritualità vaga, astratta, non esente da superstizione, senza un
reale impegno con Dio che in Cristo si è rivelato “persona”,
“volto”, “parola”. Come affermava il Santo Padre, «il tema
fondamentale è che noi dobbiamo riscoprire Dio e non un Dio
qualsiasi, ma il Dio con un volto umano, poiché quando vediamo Gesù
Cristo vediamo Dio (... ) In certo modo il fenomeno religione
ritorna, anche se si tratta di un movimento di ricerca spesso
piuttosto indeterminata». È urgente «rendere visibile il Dio col
volto umano di Gesù Cristo, offrendo così agli uomini l’accesso a
quelle fonti senza le quali la morale si isterilisce e perde i suoi
riferimenti» (55).
Dio
non è, dunque, un’entità, un’energia cosmica, ma è un “Tu”,
è il Padre che si coinvolge con la vita dei suoi figli fino a
condividere e riscattare la sofferenza e la morte. Per questo “Dio
è amore” come afferma san Giovanni (56). Ma l’essere amati –
aspirazione e bisogno esaltante di ogni uomo – è terribilmente
serio e impegnativo! Richiede un esodo interiore continuo, un esporsi
all’amore dell’Altro che è Dio. Richiede di rinunciare a se
stessi, diventare docili all’Amore e alle sue esigenze per
rispondere con il nostro amore:
«L’amore
è il solo tra tutti i moti dell’anima, tra i sentimenti e gli
affetti, con cui la creatura possa corrispondere al Creatore, anche
se non alla pari (...) Perché non dovrebbe essere amato l’Amore?»
(57).
Ecco perché la fede cristiana ha una misura “alta”: alta e affascinante! Non è un sentimento vago, ma un rapporto da persona a Persona: è impegnarsi con Lui che si è impegnato con noi! Il cristiano è “prigioniero” per amore: prigioniero di una vita, di un pensiero, di uno slancio. La vita, il pensiero, la passione di Cristo. Come è centrata la risposta di un giovane a cui chiesi a bruciapelo: «Che cosa significa per te essere cristiano?». Senza pensarci due volte mi rispose: «Non vergognarmi mai di Lui»! Per questo la prima forma della carità evangelica è amare il Signore: anche quando non lo comprendiamo! Gli apostoli, alla scuola del Maestro, qualche volta hanno sentito più pesante la difficoltà di comprenderlo; ma sempre si sono arresi all’amore appellandosi alla sua presenza. «Forse, dobbiamo amare quello che non possiamo capire», intuisce A. Camus nel suo celebre romanzo “La peste”.
Ecco perché la fede cristiana ha una misura “alta”: alta e affascinante! Non è un sentimento vago, ma un rapporto da persona a Persona: è impegnarsi con Lui che si è impegnato con noi! Il cristiano è “prigioniero” per amore: prigioniero di una vita, di un pensiero, di uno slancio. La vita, il pensiero, la passione di Cristo. Come è centrata la risposta di un giovane a cui chiesi a bruciapelo: «Che cosa significa per te essere cristiano?». Senza pensarci due volte mi rispose: «Non vergognarmi mai di Lui»! Per questo la prima forma della carità evangelica è amare il Signore: anche quando non lo comprendiamo! Gli apostoli, alla scuola del Maestro, qualche volta hanno sentito più pesante la difficoltà di comprenderlo; ma sempre si sono arresi all’amore appellandosi alla sua presenza. «Forse, dobbiamo amare quello che non possiamo capire», intuisce A. Camus nel suo celebre romanzo “La peste”.
3.2
Obbedienza fiduciosa
21. L’amore,
anche tra gli uomini, se non si traduce in gesti concreti è vuoto,
semplice dichiarazione sentimentale priva di consistenza. La vita non
si costruisce sullo slancio emotivo: questo deve diventare gesto,
opera, attenzione quotidiana e concreta. Gesù non ci ha amato a
parole, ma con il fatto decisivo e sconvolgente della sua
Incarnazione: prendendo la nostra carne mortale ha preso su di sé la
condizione umana, ha condiviso tutto di noi eccetto il peccato. Ci ha
amati, per così dire, “dall’interno”, aderendo a noi in un
modo unico e sconvolgente. Fino alla croce.
L’immagine
del volto sofferente di Cristo coronato di spine esprime in modo
plastico e commovente la misura e la concretezza di come Egli ci ha
amati e continua ad amarci. Per questo è necessario avere l’immagine
del crocifisso presente e ben visibile nelle nostre case.
22. L’obbedienza
alla Legge di Dio, dunque, è un’altra forma della concretezza del
nostro amore per Cristo, come afferma san Giovanni: «In
questo consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi
comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi» (58). È utile
ricordare che di Dio non è un abito che viene imposto
all’uomo dall’esterno, ma esprime ciò che è l’uomo in se
stesso, nella sua profonda e immutabile natura. I dieci Comandamenti
riflettono l’ordine della creazione che la ragione stessa può
individuare: «Fin dalle origini Dio radicò nel cuore degli uomini i
precetti della legge naturale. Poi si limita a richiamarli alla loro
mente: è il Decalogo» (59).
Alla luce di queste considerazioni, ciascuno deve chiedersi qual è la propria obbedienza alla Legge morale. Solo nella prospettiva dell’amore a Dio, i dieci Comandamenti, le Beatitudini evangeliche, le indicazioni morali della Chiesa potranno essere accolti e diventare puntuali criteri di vita. Solo in questo orizzonte la vita spirituale non sarà un evanescente miscuglio di sensazioni e di sentimenti, ma un percorso serio e concreto, sostenuto dalla fiducia nella grazia e ricco di frutti, come ricorda l’apostolo Paolo: «Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito ( ... ). Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé ( ... ). Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (60). In questa prospettiva, non esiste pericolo del cosiddetto moralismo.
Alla luce di queste considerazioni, ciascuno deve chiedersi qual è la propria obbedienza alla Legge morale. Solo nella prospettiva dell’amore a Dio, i dieci Comandamenti, le Beatitudini evangeliche, le indicazioni morali della Chiesa potranno essere accolti e diventare puntuali criteri di vita. Solo in questo orizzonte la vita spirituale non sarà un evanescente miscuglio di sensazioni e di sentimenti, ma un percorso serio e concreto, sostenuto dalla fiducia nella grazia e ricco di frutti, come ricorda l’apostolo Paolo: «Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito ( ... ). Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé ( ... ). Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (60). In questa prospettiva, non esiste pericolo del cosiddetto moralismo.
3.3
Solidarietà evangelica
23. Ma
non basta! «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la
sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i
fratelli ( ... ) Fratelli non amiamo a parole né con la lingua, ma
coi fatti e nella verità» (61). E ancora: «Chi infatti non ama il
proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (62).
Alle
sorgenti della vita spirituale, troviamo dunque anche la via della
carità fraterna, il desiderio di fare della nostra vita un
dono per gli altri. Nella storia, l’esempio sommo di come fare di
noi stessi un dono è Cristo: Egli si è fatto dono per il mondo con
il sacrificio di sé e continua a farsi dono attraverso l’Eucaristia,
Pane di vita eterna. Il Concilio, con grande chiarezza, afferma che
l’uomo in terra è la sola creatura che Dio ha voluto per se stessa
e «non può ritrovarsi pienamente se non attraverso un sincero dono
di sé» (63).
L’esperienza insegna che quando siamo egoisti per paura di perdere qualcosa di noi, dell’esistenza, dei piaceri immediati, il risultato è la sensazione di aver gustato una soddisfazione in più, ma di essere scesi nella scala della stima di noi stessi e della felicità. Al contrario, quando in nome della generosità usciamo dai nostri calcoli rinunciando a qualcosa di nostro o di noi, la certezza è quella di ritrovarci su un piano più alto e nobile: ci sentiamo cresciuti come persone e come cristiani, spiritualmente più ricchi.
L’esperienza insegna che quando siamo egoisti per paura di perdere qualcosa di noi, dell’esistenza, dei piaceri immediati, il risultato è la sensazione di aver gustato una soddisfazione in più, ma di essere scesi nella scala della stima di noi stessi e della felicità. Al contrario, quando in nome della generosità usciamo dai nostri calcoli rinunciando a qualcosa di nostro o di noi, la certezza è quella di ritrovarci su un piano più alto e nobile: ci sentiamo cresciuti come persone e come cristiani, spiritualmente più ricchi.
24. È
quanto Gesù indica nel Vangelo in modo inequivocabile: «Chi vorrà
salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita
per causa mia e del vangelo la salverà. Che giova infatti all’uomo
guadagnare il mondo intero, se poi perde la propria anima?» (64).
È
la “regola d’oro”, il grande “segreto”: vuoi diventare
adulto nello spirito, maturo nel cuore, forte nella fede?
Sull’esempio di Cristo che si dona a tutti fino al sacrificio, fai
di te stesso, dei tuoi talenti, della tua vita, un dono di servizio
ai fratelli: in famiglia, al lavoro, con gli amici, con chi ha
bisogno. Forse non diventerai ricco e famoso ma, noto al cuore di
Dio, sarai felice. Ci sono uomini potenti e ricchi che il mondo
ammira e invidia, ma che sono degli infelici e, non di rado, dei
gretti di spirito. La solidarietà evangelica conduce alla felicità
del cuore, alla maturità della vita terrena, anticipo e promessa
della vita eterna.
25. La
carità fraterna ci spinge a guardarci attorno con occhi attenti per
cogliere la sofferenza e il bisogno degli altri, per farci
“samaritani” con la concretezza tempestiva delle opere. Ma non
dobbiamo dimenticare che l’intervento pronto e generoso del buon
samaritano nasce da un cuore aperto e disponibile. Potremmo dire
che la carità “delle mani” scaturisce dalla carità
“dell’anima”. Sant’Agostino descrive in modo
magistrale questa sorgente interiore:
«Una
volta per sempre ti viene dato questo precetto.
Ama e fa’ ciò che vuoi.
Se taci, taci per amore.
Se parli, parla per amore.
Se correggi, correggi per amore.
Se perdoni, perdona per amore.
Sia il tuo cuore radicato nell’amore.
Da questa radice non può uscire che del bene» (65).
Ama e fa’ ciò che vuoi.
Se taci, taci per amore.
Se parli, parla per amore.
Se correggi, correggi per amore.
Se perdoni, perdona per amore.
Sia il tuo cuore radicato nell’amore.
Da questa radice non può uscire che del bene» (65).
Perché
le opere di carità nascano da un’anima caritatevole, è opportuno
ricordare almeno tre condizioni.
*
Sii umile. È necessario riconoscere in noi una tendenza al
male. Il diavolo non si stanca di seminare zizzania nel cuore di
ciascuno. L’egoismo, la gelosia, l’invidia, l’arrivismo,
l’aggressività... sono forme del “non-amore”, e nessuno è
esente dalla vigilanza su di sé e dalla lotta con sé. Solo l’umile
sa guardarsi nella verità e sa vedere i fratelli nella misericordia.
*
Ama te stesso. È una condizione per amare il prossimo.
Certi cattivi umori, molti contrasti nei rapporti nascono dal fatto
che non accettiamo noi stessi, non vogliamo bene a noi stessi. Non si
tratta di amare i nostri difetti, ma di riconoscerli serenamente,
accettarli per superarli con la forza della grazia. Così è per la
nostra storia personale: nella vita di tutti vi sono pagine tristi e
buie, torti dati e subiti. Non si può vivere in permanente lotta
recriminando sul passato: è necessario accettarlo in una visione
superiore di fede, credendo che il Crocifisso trae dal male occasione
di bene. È necessario essere unificati per unificare, essere
pacificati per pacificare.
*
Amati fino a dimenticarti. C’è l’amore che riceve,
l’amore che condivide, l’amore che dona, l’amore che perdona,
l’amore che si dona. Infine, l’amore che s’immola come Gesù
sul Calvario. Non cercare più noi stessi significa lasciar
trasparire solo Dio con il suo puro amore: è una grazia. Per questo
dobbiamo pregare per amare e amare pregando.
26. Non
dobbiamo dimenticare che la carità evangelica, che ispira
comportamenti coerenti e che è ethos diffuso, ha radici precise.
L’Italia, nonostante il secolarismo, respira il Vangelo. Il
cristianesimo impregna l’ethos del nostro popolo anche se esistono
palesi contraddizioni: il modo di sentire la vita, di concepire il
valore di ogni persona, il rapporto pacifico con gli altri, il senso
della solidarietà con chi è nella sofferenza e nel bisogno, sono
radicati nell’anima di tutti.
La
presenza capillare delle Parrocchie, l’opera costante dei sacerdoti
e dei consacrati, le tradizioni, le innumerevoli forme di
aggregazione laicale, le molteplici espressioni della pietà popolare
così radicata nel nostro Paese, diffondono il “buon profumo di
Cristo”. Non dobbiamo perderne la sostanza: la linfa viva e vitale
del Vangelo.
Nella prospettiva della carità cristiana, è necessario vivere le proprie responsabilità e svolgere i propri compiti non come dominio e affermazione di sé, ma come servizio agli altri, ricordando che Cristo ha dato la vita per tutti e che ognuno ha la dignità di figlio di Dio.
Nella prospettiva della carità cristiana, è necessario vivere le proprie responsabilità e svolgere i propri compiti non come dominio e affermazione di sé, ma come servizio agli altri, ricordando che Cristo ha dato la vita per tutti e che ognuno ha la dignità di figlio di Dio.
È
importante, altresì, che ciascuno individui alcuni gesti di
amore e di servizio gratuito – non previsto già dai
propri compiti – perché la dimensione della vita come “dono”
si esprima con maggiore evidenza. In questo senso, può
essere lo spazio più idoneo perché la dimensione del dono e della
gratuità si attui, e il “giorno del Signore” diventi anche il
“giorno della carità”: la visita ad un ammalato, un dono, una
telefonata, una preghiera per i defunti al Cimitero... possono essere
un segno dell’amore di Dio che tutti abbraccia.
4.
L’ascesi
27. Sembra
fuori moda parlare di “ascesi”: essa significa “salita”
e ogni salita esige “sforzo” e “metodo”. La mentalità
corrente pare bandire questi valori come se fossero contrari alla
gioia del Vangelo e al primato della Grazia: quindi disdicevoli alla
vita spirituale. Come se bastassero il desiderio e la spontaneità
individuali per raggiungere una meta ardua. Il cammino spirituale non
è un cammino spensierato, pianeggiante e trionfale. Non
dimentichiamo: lo scopo è essere veri discepoli di Gesù, amici
autentici dello Sposo. E questo è affascinante e arduo. L’ascesi
cristiana, però, non ha nulla a che vedere con l’affermazione di
sé, non è una forma di “volontarismo” chiuso e orgoglioso che
fa dipendere il progresso spirituale direttamente dallo sforzo
individuale secondo una visione pelagiana. Ma neppure è una sorta di
“quietismo”, che considera inutile e incoerente lo sforzo
spirituale del discepolo.
Essere figli di Dio è una grazia, ma vivere da figli è una responsabilità! Il primo e principale protagonista della vita spirituale – è già stato detto – è lo Spirito Santo: di ogni altra sorgente. Per tale ragione la fiducia non deve mai venir meno. Nulla della nostra fragilità, neppure i nostri peccati, deve gettarci nello scoraggiamento e farci arrendere nella costruzione dell’uomo interiore. Assolutamente nulla! La potenza dello Spirito è più forte della nostra debolezza: «Tutto posso in colui che mi dà forza» (66), era la convinzione e l’esperienza dell’Apostolo. Ma dobbiamo lasciarlo agire! Disporci nella via dell’ascesi, infatti, significa disporci all’azione viva e trasformante dello Spirito di Dio: è questo l’insegnamento di grandi maestri di spiritualità come santa Teresa d’Avila (1515- 1582) e san Giovanni della Croce (1542-1591).
Essere figli di Dio è una grazia, ma vivere da figli è una responsabilità! Il primo e principale protagonista della vita spirituale – è già stato detto – è lo Spirito Santo: di ogni altra sorgente. Per tale ragione la fiducia non deve mai venir meno. Nulla della nostra fragilità, neppure i nostri peccati, deve gettarci nello scoraggiamento e farci arrendere nella costruzione dell’uomo interiore. Assolutamente nulla! La potenza dello Spirito è più forte della nostra debolezza: «Tutto posso in colui che mi dà forza» (66), era la convinzione e l’esperienza dell’Apostolo. Ma dobbiamo lasciarlo agire! Disporci nella via dell’ascesi, infatti, significa disporci all’azione viva e trasformante dello Spirito di Dio: è questo l’insegnamento di grandi maestri di spiritualità come santa Teresa d’Avila (1515- 1582) e san Giovanni della Croce (1542-1591).
Quest’ultimo
descrive con un efficace paragone l’azione purificante e
trasformante dello Spirito nella vita dell’uomo spirituale: «Il
fuoco divino dell’amore, di cui sto parlando, purifica l’anima e
la dispone alla perfetta unione con Dio, come fa il fuoco con il
legno per trasformarlo in fuoco. Il fuoco, appiccato al legno, prima
lo dissecca, espellendone l’umidità e facendogli lacrimare tutto
l’umore; poi lo rende nero, brutto e anche maleodorante.
Essiccandolo a poco a poco, gli cava fuori tutti gli elementi interni
incompatibili, anzi contrari all’azione del fuoco. Alla fine,
quando incomincia a incendiarlo all’esterno e a farlo crepitare, lo
trasforma in fuoco, rendendolo brillante com’è esso stesso. A
questo punto il legno non presenta più alcuna sua proprietà e
capacità naturale, se non il peso e la densità che sono superiori a
quelli del fuoco, di cui ora possiede le proprietà e forze attive. È
secco e dissecca; è caldo e riscalda; è luminoso e diffonde il suo
chiarore; è molto più leggero di prima, avendogli il fuoco
comunicato le sue proprietà e i suoi effetti. Possiamo applicare il
nostro paragone al fuoco divino dell’amore. ( ... ) Agli inizi
della purificazione spirituale, il fuoco divino si volge più ad
asciugare e disporre il legno dell’anima che a riscaldarla; ma poi,
con il passare del tempo, quando il fuoco comincia a riscaldare
l’anima, assai sovente essa percepisce questi ardori e questo
calore d’amore... Senza fare nulla, sente ardere così tanto nel
suo intimo questo fuoco divino fiammeggiante d’amore che le sembra
di essere divenuta un braciere ardente.
Quest’incendio
d’amore è fonte di grande ricchezza e diletto per l’anima. È un
certo contatto con e un inizio della perfezione
dell’unione d’amore verso cui l’anima tende. Ma non si arriva a
questo contatto così elevato di conoscenza e d’amore di Dio se non
dopo aver attraversato molte prove e compiuto gran parte della
purificazione» (67).
28. Entra
in gioco, così, il secondo protagonista: la nostra libertà
e quindi il nostro personale impegno. È illuminante
l’esortazione dell’Apostolo: «Dovete deporre l’uomo vecchio
con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro alle
passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra
mente e rivestire l’uomo nuovo» (68). In questa prospettiva, ho
detto che l’ascesi cristiana richiede due inscindibili elementi: lo
sforzo e il metodo.
Innanzitutto lo “sforzo”, la fatica. San Paolo, che fu folgorato da Cristo sulla via di Damasco, non fu esonerato dalla via dell’ascesi. Spesso descrive la vita cristiana come lotta e combattimento: «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile» (69). Altrove, esorta il cristiano a comportarsi da buon soldato: «prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù» (70). Sono sullo sfondo le stesse parole del Maestro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (71). Lo sforzo cristiano, dunque, comporta rinuncia, abnegazione, accoglienza paziente della sofferenza.
Innanzitutto lo “sforzo”, la fatica. San Paolo, che fu folgorato da Cristo sulla via di Damasco, non fu esonerato dalla via dell’ascesi. Spesso descrive la vita cristiana come lotta e combattimento: «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile» (69). Altrove, esorta il cristiano a comportarsi da buon soldato: «prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù» (70). Sono sullo sfondo le stesse parole del Maestro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (71). Lo sforzo cristiano, dunque, comporta rinuncia, abnegazione, accoglienza paziente della sofferenza.
29. L’altro
elemento indispensabile dell’ascesi è il “metodo”,
cioè un certo ordine. Nessun edificio è costruito solo con grandi
sforzi di lavoro: richiede anche un progetto e delle priorità. Così,
non basta individuare una meta: è necessario un “metodo”,
cioè una
“strada-alla-meta ”. Nella vita spirituale, Gesù Cristo è e
il Metodo: «Io sono la via, la verità e la vita» (72).
È dunque il nostro rapporto vivo e quotidiano con la persona di Gesù
e con il metodo fondamentale.
L’immagine della “palestra”, evocata da san Paolo, è particolarmente intuitiva ed efficace. Non si può raggiungere una abilità artistica o sportiva, una forma fisica, senza un allenamento puntuale e costante, senza una disciplina che richiede sacrificio. L’atleta deve conoscere quali parti del suo corpo deve curare e sviluppare per raggiungere lo scopo. Inoltre, deve allenarsi non ogni tanto secondo la voglia del momento, ma con perseveranza, anche ogni giorno, consapevole che solo nella ripetizione – sia dei gesti che degli atteggiamenti – il corpo e l’anima acquistano il gusto, la capacità e una certa facilità nel vivere determinati valori. Ricordiamo che sul piano ascetico e morale, la facilità nel fare il bene si chiama “virtù”!
L’asceta cristiano non è colui che sfida se stesso per affermarsi agli occhi propri o altrui; egli è alla ricerca di un progresso spirituale, della sua unificazione interiore in Cristo. È fiducioso ma non ingenuo: sa che nel suo cuore si scontrano il desiderio del bene e le inclinazioni disordinate; è consapevole dei suoi istinti e della debolezza della volontà; fa purtroppo l’esperienza del peccato; è alla ricerca della sua libertà perché sa che, in un certo senso, liberi non si nasce, si diventa. Per questo è necessario un lungo e faticoso esercizio.
L’immagine della “palestra”, evocata da san Paolo, è particolarmente intuitiva ed efficace. Non si può raggiungere una abilità artistica o sportiva, una forma fisica, senza un allenamento puntuale e costante, senza una disciplina che richiede sacrificio. L’atleta deve conoscere quali parti del suo corpo deve curare e sviluppare per raggiungere lo scopo. Inoltre, deve allenarsi non ogni tanto secondo la voglia del momento, ma con perseveranza, anche ogni giorno, consapevole che solo nella ripetizione – sia dei gesti che degli atteggiamenti – il corpo e l’anima acquistano il gusto, la capacità e una certa facilità nel vivere determinati valori. Ricordiamo che sul piano ascetico e morale, la facilità nel fare il bene si chiama “virtù”!
L’asceta cristiano non è colui che sfida se stesso per affermarsi agli occhi propri o altrui; egli è alla ricerca di un progresso spirituale, della sua unificazione interiore in Cristo. È fiducioso ma non ingenuo: sa che nel suo cuore si scontrano il desiderio del bene e le inclinazioni disordinate; è consapevole dei suoi istinti e della debolezza della volontà; fa purtroppo l’esperienza del peccato; è alla ricerca della sua libertà perché sa che, in un certo senso, liberi non si nasce, si diventa. Per questo è necessario un lungo e faticoso esercizio.
30. Anche
la rinuncia fa parte di questa palestra. È luogo comune –
una vera falsità e violenza intellettuale – ritenere che qualunque
rinuncia sia di per sé negazione della vita e di diritti assoluti e
intoccabili. Sembra che il successo dell’esistenza dipenda
dall’accumulo di esperienze a prescindere dal giudizio etico. Nasce
così una specie di frenesia che porta a quella che potremmo chiamare
“sindrome di novità”: come se la calma ripetizione dei giorni,
dei doveri, dei rapporti, degli affetti, fosse esecrabile “monotonia”
anziché fedeltà responsabile e feconda. Come se la felicità e la
riuscita di una persona dipendessero dalla quantità delle cose
provate e non piuttosto dalla qualità o, meglio, dalla loro bontà
morale.
La vita concreta, e ancor più l’esempio di Gesù, dicono il contrario. Egli non esitò a rinunciare alle gioie immediate per un bene infinitamente più grande: la nostra salvezza attraverso la sua croce (73). La rinuncia, dunque, riguarda non solo il male nelle sue diverse forme, ma anche certi beni a cui a volte dobbiamo rinunciare in nome di beni maggiori. Diversamente dalla mentalità corrente, è necessario essere convinti che non si può assaporare tutto: la vita quotidiana ci chiede di fare serenamente delle scelte, e scegliere significa non solo “prendere” ma anche “rinunciare”.
La vita concreta, e ancor più l’esempio di Gesù, dicono il contrario. Egli non esitò a rinunciare alle gioie immediate per un bene infinitamente più grande: la nostra salvezza attraverso la sua croce (73). La rinuncia, dunque, riguarda non solo il male nelle sue diverse forme, ma anche certi beni a cui a volte dobbiamo rinunciare in nome di beni maggiori. Diversamente dalla mentalità corrente, è necessario essere convinti che non si può assaporare tutto: la vita quotidiana ci chiede di fare serenamente delle scelte, e scegliere significa non solo “prendere” ma anche “rinunciare”.
31. In questo
contesto non possiamo dimenticare la grande legge delle
“piccole cose” o dei “piccoli passi ”: se non ci
abituiamo a fare tanti piccoli atti buoni con animo grande, saremo in
grado di fare grandi atti d’amore, di affrontare la misura
dell’eroismo? Così, se non siamo capaci di rinunciare a delle
piccole cose per amore di Gesù, di noi stessi, degli altri, come
faremo a dire di no a grandi e allettanti tentazioni? Sono sempre
attuali le parole dell’“Imitazione di Cristo”: «Se non vinci i
difetti piccoli e leggeri, come supererai i più difficili?» (74).
Nel
cammino dell’ascesi non dobbiamo né scoraggiarci né inorgoglirci,
ma ricominciare sempre senza desistere, come insegna la grande
sapienza spirituale dei Padri del deserto: «Un anziano disse: “Se
intraprendi un’opera di ascesi e poi ti lasci andare, rimettiti
presto al lavoro e non smettere di ricominciare fino alla morte ( ...
) Esamina dunque te stesso ogni giorno, ogni settimana, ogni
mese, ogni anno, per vedere se hai progredito nel raccoglimento, nel
digiuno, nella preghiera e soprattutto nell’umiltà. Questo è il
vero progresso dell’anima. Ogni giorno deve considerarsi più
misera, pensando alle colpe in cui cade continuamente, e deve
ritenere ogni uomo migliore di se stessa. Senza questo pensiero,
l’uomo si troverà lontano da Dio, anche se compie prodigi e
risuscita i morti”» (75).
5.
Alcuni punti dell’ascesi
32. Segnalo
ora alcuni punti dell’ascesi. Naturalmente, dobbiamo considerare
sempre l’orizzonte religioso e soprannaturale in cui ci muoviamo,
consapevoli che non siamo noi gli artefici primi della nostra
santificazione che ha nelle virtù teologali della fede, speranza e
carità, la struttura portante. Lo Spirito Santo agisce nell’anima
che si fa disponibile alla sua potenza trasfigurante.
5.1
Conoscenza di se stessi
33. Il
punto di partenza è la conoscenza di noi stessi: nel bene e nel
male. Con umiltà e fiducia dobbiamo guardarci così come
siamo, evitando la duplice tentazione dell’innamoramento di noi
stessi in una sorta di adolescenziale narcisismo oppure
dell’autorifiuto. Il Signore ci ama per quello che siamo; vuole che
ognuno si conosca nella verità e che si voglia bene, cioè che si
accetti con benevolenza. È solo da questo inizio che si può
procedere in modo costruttivo. Ognuno si chieda quali sono i
suoi pregi, quali i limiti costitutivi e i difetti acquisiti. È
utile ricordare anche che gli aspetti peggiori di noi stessi sono
sempre motivo di disagio per gli altri e, in fondo, di sofferenza per
noi.
In
genere, si arriva meglio alla conoscenza di sé chiedendo aiuto a
qualcuno che ci vuol bene ed è in grado di dirci con verità e amore
le cose come si vedono dall’esterno. Alludo alla tradizionale e
sempre attuale figura del Padre o Direttore Spirituale.
Questa
fase, in realtà mai conclusa, si accompagni sempre al ringraziamento
a Dio perché ci ama per quello che siamo di buono e di bello: «Ti
ho disegnato sulle palme delle mie mani» (76). Si accompagni con la
fiduciosa e mai interrotta preghiera perché lo Spirito Santo ci
aiuti a crescere nel bene e a migliorare negli aspetti che non
vanno.
5.2
Disciplina dei sentimenti
34. I
sentimenti sono una grande ricchezza, sono energie da ordinare alla
costruzione della persona e del cristiano. Fanno parte essenziale
della vita spirituale. Sono risonanze della coscienza
rispetto agli stimoli che provengono dal nostro mondo interiore o da
quello esterno. La gioia, l’amore, il desiderio,
l’entusiasmo, sono reazioni positive di simpatia e attrazione che
coinvolgono la persona nel suo insieme; per contro, l’odio, la
collera, la tristezza, la paura, sono reazioni negative che ci
allontanano da persone, situazioni, luoghi.
Non
sempre è facile, ma è necessario che la persona impari a guardare
in volto i propri sentimenti, chiamarli per nome senza nasconderli a
se stessa, decifrarli nelle loro cause e valutarli alla luce del buon
senso e della fede. I sentimenti e le emozioni non devono diventare
criterio di giudizio sulla vita, né in genere né di quella
spirituale. Infatti non ogni sentimento, per il fatto di
averlo, è motivato e meritevole del nostro credito. Bisogna in un
certo senso “smascherarlo”, capire da dove proviene e
dove sta andando, quali sono le cause vere e dove ci spinge, sia per
non essere indotti in vie sbagliate sia per incanalare positivamente
le grandi risorse della nostra sensibilità.
Non
di rado, facendo questo esercizio si è illuminati, oltre che dal
Vangelo, anche dall’insegnamento e dall’esempio dei genitori, dei
nonni, degli educatori, di persone significative: la loro saggezza,
la capacità di sdrammatizzare, la visione soprannaturale delle cose
aiutano a leggere quello che il grande Alessandro Manzoni chiamava
“il guazzabuglio del cuore umano” (77).
5.3
Disciplina del corpo
35. Anche
il corpo, con le sue potenzialità e pulsioni, chiede di essere
guidato. Altrimenti, come a volte accade, tiranneggia con i suoi
bisogni spesso indotti o disordinati. In concreto, siamo qui
richiamati alla sobrietà nel cibo, nel vestire, nell’uso
dei beni di consumo. Se siamo onesti, è quanto mai
opportuno ricuperare anche una certa custodia negli sguardi,
il dominio dell’istinto sessuale.
È
necessaria la castità del cuore e la purezza del corpo per imparare
ad amare veramente e a diventare dono. È importante anche riscoprire
la preziosità delle conversazioni: sembra che sia ovvio guardare
tutto per il gusto, non sempre limpido, di vedere. Una nuova,
particolare attenzione si deve avere nell’uso di Internet, perché
sia strumento di vantaggio nel bene e non mercato del peggio. Così
per il parlare: «se uno non manca nel parlare è un uomo perfetto,
capace di tenere a freno anche tutto il corpo» (78).
L’unità
del mondo interiore richiede di evitare le dispersioni, pretende di
essere difeso da quella tendenza centrifuga che rende l’anima più
un mercato chiassoso che un edificio armonioso e pacificante. Il
nostro sguardo dovrebbe scegliere ciò che è degno, e non essere
catturato da ciò che si esibisce; i nostri discorsi dovrebbero
tendere di più all’essenziale e alla comunicazione della verità e
del bene, piuttosto che alla vanità, alla critica o peggio.
Comprendiamo che la via dell’ascesi porta a farci ragionare di più
su tutte le nostre azioni, dentro e fuori di noi, in vista di un
maggiore dominio di noi stessi. Per poter agire, come
diceva San Tommaso, e non “essere agiti”!
V.
NEL GREMBO DELLA CHIESA
36. Per
il cristiano non esiste autentica e completa vita spirituale se non
“in famiglia”, cioè nella e con Quanto più
progredisce il rapporto con Cristo, tanto più siamo rimandati alla
Comunità Cristiana. Sono illuminanti le parole di sant’Agostino:
«Non si può avere Dio come padre se non si ha come
madre». E G. Bernanos confidava: «Nella Chiesa io mi sento a casa
mia».
Sì, la
vita spirituale ci sospinge ad una più intensa e cordiale esperienza
di Chiesa. La dimensione spirituale, così come la fede, è
un atto personale – nessuno può sostituirsi a noi – ma non
individualistico: se il cammino dell’anima è vero porta verso i
fratelli del mondo, ma innanzitutto della Chiesa, Sposa di Cristo.
Porta a vivere la dimensione comunitaria come l’altro volto –
necessario e vitale – della solitudine con Dio. Quanto più ci
sentiamo appartenenti a Gesù tanto più ci sentiremo cordialmente
appartenenti al suo Corpo, : «Cristo non è mai intero
senza , come non è mai intera senza Cristo. Infatti
il Cristo totale ed integro è capo e corpo ad un tempo» (79).
Mi
piace qui ricordare la commovente testimonianza del vescovo
vietnamita F.X. Van Thuan – poi cardinale – che ha trascorso
tredici anni di reclusione e isolamento, riacquistando la libertà
nel 1988. Così egli racconta: «È difficile immaginare con quanta
ansia i nostri fedeli, negli anni di dura prova (dal poi),
sfidando la punizione o la prigione perché si trattava di
“propaganda straniera, reazionaria”, cercavano di ascoltare per
sentire palpitare il cuore della Chiesa universale ed essere uniti
con il successore di Pietro.
Più tardi ne ho fatto io stesso l’esperienza. Ero in isolamento ad Hanoi quando, un giorno, una signora della polizia mi ha portato il piccolo pesce che avrei dovuto cucinare. Appena ho visto l’involucro, subito ho avuto un sussulto di gioia che, tuttavia, mi sono ben guardato dal manifestare esteriormente. La gioia non era per il pesce, bensì per il foglio di giornale nel quale era avvolto: due pagine dell’“Osservatore Romano”... Con calma, senza farmi notare, ho lavato bene quei fogli, per liberarli dalla puzza, li ho fatti asciugare al sole e li ho conservati come una reliquia. Per me, in regime d’isolamento, quelle pagine erano un segno della comunione con Roma, con Pietro, con , un abbraccio da Roma. Non avrei potuto sopravvivere se non avessi avuto la consapevolezza di essere parte della Chiesa» (80).
37. Ma la più concreta e consapevole partecipazione alla vita della Chiesa non è solo un “esito”, la conseguenza di un’autentica vita spirituale. Nel grembo vivo della Chiesa, infatti, il cammino spirituale del credente – anche di colui che si trova agli inizi – trova luce, sostegno, accompagnamento rispettoso ed efficace: è madre e maestra. A lei il Signore ha affidato i Sacramenti della generazione e della vita; a lei ha affidato il tesoro delle Scritture perché il mondo avesse la luce della verità: in lei due millenni di Cristianesimo hanno costruito un tesoro incomparabile di santità e di martirio, di esperienza umana e di fede. Da questo tesoro ecclesiale ognuno deve attingere per il proprio cammino interiore e deve, come figlio, portare il suo contributo per il bene di tutti.
In qualche modo si cresce sempre insieme: anche l’eremita è “con” gli altri fratelli nella fede, perché fa riferimento alla Chiesa e perché partecipa alla ricchezza del Corpo Ecclesiale. Il bene di uno, infatti, si riflette positivamente su tutti. È la grande realtà che chiama “comunione dei santi”!
Più tardi ne ho fatto io stesso l’esperienza. Ero in isolamento ad Hanoi quando, un giorno, una signora della polizia mi ha portato il piccolo pesce che avrei dovuto cucinare. Appena ho visto l’involucro, subito ho avuto un sussulto di gioia che, tuttavia, mi sono ben guardato dal manifestare esteriormente. La gioia non era per il pesce, bensì per il foglio di giornale nel quale era avvolto: due pagine dell’“Osservatore Romano”... Con calma, senza farmi notare, ho lavato bene quei fogli, per liberarli dalla puzza, li ho fatti asciugare al sole e li ho conservati come una reliquia. Per me, in regime d’isolamento, quelle pagine erano un segno della comunione con Roma, con Pietro, con , un abbraccio da Roma. Non avrei potuto sopravvivere se non avessi avuto la consapevolezza di essere parte della Chiesa» (80).
37. Ma la più concreta e consapevole partecipazione alla vita della Chiesa non è solo un “esito”, la conseguenza di un’autentica vita spirituale. Nel grembo vivo della Chiesa, infatti, il cammino spirituale del credente – anche di colui che si trova agli inizi – trova luce, sostegno, accompagnamento rispettoso ed efficace: è madre e maestra. A lei il Signore ha affidato i Sacramenti della generazione e della vita; a lei ha affidato il tesoro delle Scritture perché il mondo avesse la luce della verità: in lei due millenni di Cristianesimo hanno costruito un tesoro incomparabile di santità e di martirio, di esperienza umana e di fede. Da questo tesoro ecclesiale ognuno deve attingere per il proprio cammino interiore e deve, come figlio, portare il suo contributo per il bene di tutti.
In qualche modo si cresce sempre insieme: anche l’eremita è “con” gli altri fratelli nella fede, perché fa riferimento alla Chiesa e perché partecipa alla ricchezza del Corpo Ecclesiale. Il bene di uno, infatti, si riflette positivamente su tutti. È la grande realtà che chiama “comunione dei santi”!
38. Inoltre, garantisce
che la spiritualità cristiana sia autentica, cioè fedele
all’insegnamento e allo stile di Gesù senza contaminazioni di
singoli, di gruppi o Sette che oggi circolano nel grande “mercato
del sacro”: «Il Vescovo è in mezzo alla sua Chiesa sentinella
vigile, profeta coraggioso, testimone credibile e servo fedele di
Cristo, “speranza della gloria”» (81). Così è per ogni
Sacerdote in comunione con il suo Vescovo. Non possiamo dimenticare
l’attualità dell’esortazione dell’apostolo Paolo a Timoteo:
«Verrà giorno in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma,
per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di
maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla
verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente»
(82). In questa prospettiva, l’Apostolo ricorda ai cristiani di
Corinto lo scopo del suo servizio di guida e di maestro: «Noi non
intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i
collaboratori della vostra gioia» (83).
39. Il
cristiano maturo nello spirito, inoltre, condivide con i fratelli la
missione che il Signore ha affidato alla Chiesa intera: annunciare a
tutti il Vangelo. Anche quando il cristiano è fisicamente solo a
testimoniare Cristo, spiritualmente è sempre insieme alla comunità,
partecipa della sua missione evangelizzatrice. Egli sa che il tesoro
della fede non è un dono da trattenere, ma da condividere con tutti
e ovunque: come i talenti di cui parla il Vangelo. Quanto sono
significative e appassionate le parole di Giovanni: «Ciò che era
fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo
veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò
che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita ( ... )
noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione
con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù
Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia
perfetta» (84).
Ovunque
c’è bisogno di annunciare coraggiosamente il Signore. Nessuno si
deve intimidire o pensare di non essere in grado. Ogni credente è
chiamato ad essere un “segno” di Gesù nel suo ambiente, con
semplicità e fierezza. Mantenere un certo “stile” nel
linguaggio, nei gesti, nei comportamenti – uno stile coerente con
la nobiltà spirituale del Vangelo – , partecipare regolarmente
alla Messa festiva invitando anche gli altri, pregare, celebrare la
confessione, dire una buona parola, offrire un aiuto... significa
annunciare Gesù, significa attuare la missionarietà a cui ogni
cristiano è chiamato in forza della fede.
40. All’inizio
del nuovo millennio, Giovanni Paolo II invitava a non
avere paura dei flutti né delle ombre; a puntare verso il largo del
mondo e della storia. Ma soprattutto al largo dentro al cuore di ogni
uomo: «Vogliamo vedere Gesù» (85). «Come quei pellegrini –
scriveva – gli uomini del nostro tempo, magari non sempre
consapevolmente, chiedono ai credenti di oggi non solo di ‘parlare’
di Cristo, ma in un certo senso di farlo loro ‘vedere’. E non è
forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca
della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle
generazioni del nuovo millennio? La nostra testimonianza sarebbe,
tuttavia, insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo
contemplatori del suo volto» (86).
41. In fondo, essere
“contemplatori del volto di Cristo” è la sintesi della vita
spirituale. Quel volto infinitamente bello continua ad
essere nei secoli contemplato dalla Chiesa da ogni cristiano che
prende sul serio la fede e le esigenze dell’anima. Egli, strada
facendo, perviene ad una più lucida e avvincente consapevolezza
di essere parte viva della Chiesa, inviato con lei ad annunciare
Gesù. è il grande segno che lascia trasparire Cristo; la
città posta sul monte, perché tutti possano vedere quel volto che
l’anima infuocata di un grande convertito così invocava con
accenti appassionati e drammatici per gli uomini del suo tempo: «Se
non fai sentire la tua voce sopra il loro capo e la tua voce nei loro
cuori seguiteranno a cercare solamente se stessi, senza trovarsi,
perché nessuno si possiede se uno non ti possiede ( ... ) Noi ti
preghiamo dunque, o Cristo, ( ... ) noi gli ultimi ti aspettiamo. Ti
aspetteremo ogni giorno a dispetto della nostra indegnità e d’ogni
impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori
devastati sarà per te, Crocifisso, che fosti tormentato per amore
nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile
amore» (87).
Comprendiamo,
allora, come la testimonianza della fede in Cristo sia il primo
irrinunciabile compito dei battezzati, il primo dono che essi possono
offrire al mondo. Lo ha ricordato Benedetto XVI con chiarezza: «In
obbedienza al comando di Cristo, che mandò i suoi discepoli ad
annunciare il Vangelo a tutte le genti (88), la comunità cristiana
anche in questa nostra epoca si sente inviata agli uomini e alle
donne del terzo millennio, per far loro conoscere la verità del
messaggio evangelico ed aprir loro in tal modo la via della salvezza.
E questo non costituisce qualcosa di facoltativo, ma la vocazione
propria del Popolo di Dio, un dovere che ad esso incombe per mandato
dello stesso Signore Gesù Cristo. Anzi, l’annuncio e la
testimonianza del Vangelo sono il primo servizio che i cristiani
possono rendere a ogni persona e all’intero genere umano, chiamati
come sono a comunicare a tutti l’amore di Dio, che si è
manifestato in pienezza nell’unico Redentore del mondo, Gesù
Cristo.» (89).
VI.
MARIA MAESTRA DI VITA SPIRITUALE
42. «Maria
serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (90).
L’evangelista
apre con sobrietà uno spiraglio sul mondo interiore di Maria: ne
possiamo intravedere un triplice atteggiamento: raccoglimento,
riflessione e vita.
* di
Gesù non disperde nulla di quanto avviene attorno al Figlio: come un
giorno il Signore ordinerà agli Apostoli di raccogliere i resti dei
pani moltiplicati, così ella, anticipatrice, raccoglie ogni
frammento di ciò che riguarda Cristo. Nulla deve andare perduto:
parole, gesti, emozioni. Tutto deve essere raccolto nel profondo
scrigno dell’anima.
*
Ma lo spirito di Maria non è un semplice e geloso contenitore di
ricordi, un puro esercizio di memoria: è anche il luogo della
riflessione. Quanto accade attorno a Gesù, piccolo o grande che sia
è un ammaestramento, ha un senso che va oltre perché riguarda
l’umanità intera, tocca innanzitutto lei e poi la storia di tutti
e di ciascuno: una storia sempre d’amore e di salvezza. La
riflessione di Maria si rivela desiderio e ricerca della volontà di
Dio. Per questo è preghiera.
*
E infine, il raccoglimento e la meditazione sfociano nel loro
naturale estuario: la vita. Ecco perché Luca parla del cuore.
Per il “cuore” è il centro profondo, originante il
mistero della persona; è il luogo delle scelte, dove la riflessione
si intreccia con la decisione di agire. Potremmo dire che il cuore è
la sintesi di intelligenza, volontà, amore, azione: appunto la vita
dell’uomo.
43. Maria
diventa anche così nostro modello per il cammino spirituale,
indicandoci i tre atteggiamenti di fondo che l’evangelista
riporta e che abbiamo appena indicati.
Siamo
tutti esposti alla tentazione di correre sulle cose disperdendo
quanto il Signore ci dona di beni, situazioni, incontri, affetti,
richiami interiori, occasioni di fede e di preghiera. È stolto
disperdere la grazia di Dio. È saggio raccogliere e deporre nel
nostro animo la vita nella sua interezza, il Vangelo nella sua
perenne novità e in ogni sua briciola. Raccogliere per riflettervi,
per entrare nel profondo dei messaggi reconditi che ci
offre. Un fatto – qualunque sia – è sempre di più di ciò che
appare: racchiude un insegnamento da scoprire. È necessario farci
ricercatori attenti come Maria, perché quanto meditato ci introduca
alla realtà vera delle cose, diventi criterio di giudizio, di
scelta, di azione: quindi vita.
44. Ma
l’esempio della Santa Vergine va oltre. Non possiamo certamente
entrare nel mistero ineffabile della sua vita spirituale; neppure
immaginare l’intensa profondità del suo rapporto con Dio, la sua
attenzione di madre ma anche di prima discepola di Gesù. Chi più di
lei ha potuto vivere l’incontro interiore con il Signore?
Eppure
– ecco un nuovo ammaestramento – il suo rapporto unico con Dio,
la coltivazione intensa della vita dell’anima, non impediscono alla
Vergine di essere presente e operosa nella vita quotidiana, dentro
alla storia degli uomini. Anzi, è proprio la sua
impareggiabile spiritualità che le permette di incarnarsi nelle
vicende grandi e piccole dell’umana esistenza. È ancora
il Vangelo a testimoniarlo. Basta pensare alla visita di Maria
all’anziana cugina Elisabetta, incinta di Giovanni Battista: non
attende di essere chiamata in soccorso, intuisce il bisogno e
previene la richiesta. Basta riandare a Cana: Maria partecipa alla
festa di nozze di due giovani ignari del piccolo dramma che incombe,
la mancanza di vino. Lei si accorge di quanto avviene: è attenta,
vigile e, con estrema discrezione e tempestività, interviene presso
Gesù: «Non hanno più vino» (91).
Maria
dunque non si assenta dalla storia; al contrario vi entra e
l’abbraccia con maggiore passione proprio perché la vede con lo
sguardo fine dello spirito e la ama con cuore ardente. È
sempre così quando la creatura procede nella vita spirituale, la
coltiva seriamente, si fa docile all’azione dello Spirito Santo. Il
timore di dimenticare il mondo perché ci si dedica a Dio è un
timore infondato, costantemente smentito da secoli di cristianesimo.
Molti di coloro che hanno cambiato il corso della storia sono
mistici, anime che hanno vissuto la spiritualità come dimensione
portante della vita, che hanno solcato il tempo con il senso
dell’eternità: basta pensare a san Francesco d’Assisi, a santa
Teresa d’Avila, a sant’Ignazio di Lojola, a Padre Pio, a Madre
Teresa di Calcutta e a tanti altri, anche viventi.
45. Nella
famosa Lettera a Diogneto leggiamo un’espressione particolarmente
incisiva ed efficace: «... ciò che l’anima è per il corpo, i
cristiani lo sono per il mondo»! Lungi da posizioni di spiritualismo
che fugge il presente, l’uomo veramente “spirituale” si
immerge nel tempo, lo assume nel positivo, ne scorge le
potenzialità, si fa costruttore di una umanità migliore anche con
il sacrificio di se stesso, smaschera il male nelle sue espressioni
vecchie e nuove: ma sempre con profonda simpatia per questo mondo
straordinario e drammatico insieme. La sua riflette l’infinita
simpatia di Dio che, guardando l’opera delle sue mani, riconosce la
radicale bontà del creato (92). L’anima che percorre le vie dello
spirito, dunque, si apre alla storia con intelligenza e cuore
illuminati dal Vangelo, ne diventa fermento.
La
fede rivela l’orizzonte ultimo della storia, il suo destino e
quindi il senso più vero della nostra vita. Non offre ricette
magiche ai problemi, ma risponde in Gesù al problema fondamentale:
chi è l’uomo nella sua radicalità e completezza, nel suo fine
ultimo. Non sarà mai sufficiente – come la storia testimonia –
che la società assicuri il benessere e lo svago: l’uomo è
desiderio di vivere. Avrà sempre bisogno di conoscere il significato
della vita, il perché della morte. Suonano significative le parole
di L. Pirandello: «Noi non possiamo comprendere la vita, se in
qualche modo non ci spieghiamo la morte» (93).
46. Cari Amici, affido queste considerazioni alla vostra benevola attenzione. Spero che diventi lettura utile per ciascuno e chiedo che, nell’anno pastorale 2009-2010, sia oggetto di incontri parrocchiali o vicariali per giovani e adulti. Il Signore ci chiede di camminare nel suo Spirito con maggiore fiducia e coraggio. Il tempo della vita è breve e che ci attende è eterna: infatti «voi siete figli della luce e figli del giorno» (94). Non possiamo sprecare il tempo, dobbiamo dunque camminare nella luce (95).
46. Cari Amici, affido queste considerazioni alla vostra benevola attenzione. Spero che diventi lettura utile per ciascuno e chiedo che, nell’anno pastorale 2009-2010, sia oggetto di incontri parrocchiali o vicariali per giovani e adulti. Il Signore ci chiede di camminare nel suo Spirito con maggiore fiducia e coraggio. Il tempo della vita è breve e che ci attende è eterna: infatti «voi siete figli della luce e figli del giorno» (94). Non possiamo sprecare il tempo, dobbiamo dunque camminare nella luce (95).
Ma,
insieme a Sant’Agostino, ci chiediamo: «che significa camminare?»
E da lui ascoltiamo la risposta: «Andare avanti nel bene, progredire
nella santità. Vi sono infatti, secondo l’Apostolo, alcuni che
progrediscono sì, ma nel male. Se progredisci è segno che cammini,
ma devi camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede, devi
progredire nella santità. Canta e cammina» (96).
Cammino
con voi come il Pastore deve fare, sperando di essere di
incoraggiamento per tutti. Con affetto vi porto nella mia preghiera,
portatemi nella vostra. Vi benedico!
Genova,
19 giugno 2009 Solennità del Sacro Cuore di Gesù
Angelo
Card. Bagnasco
Arcivescovo Metropolita di Genova
Arcivescovo Metropolita di Genova
Tratto
dal sito
NOTE
(1) Benedetto
XVI, Lettera ai Vescovi liguri in Visita ad Limina, 31
gennaio 2007
(2) Romani 12,1
(3) Matteo 9, 37
(4) Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica, 10 marzo 2009
(5) Matteo 9, 36
(6) Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi della Svizzera, 9 novembre 2006
(7) Romano Guardini, Libertà, grazia e destino
(8) A . Camus, Il mito di Sisifo, cap I
(9) Martin Buber, Il cammino dell’uomo, cap. I
(10) Genesi 1,26
(11) Plutarco, Contro Colote, 31
(12) Sant’Agostino, Confessioni, X, 27
(13) Santa Teresa d’Avila, Castello interiore 1,1
(14) Matteo 14, 23
(15) Romano Guardini, Lettere sull’autoformazione
(16) Romano Guardini, Scritti filosofici, Milano 1964, pag. 91
(17) Cit. in M. Bruno, Aux écoutes de Dieu, Besanço1954, pag. 20
(18) Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al convegno per i Vescovi nominati nell’ultimo anno, 19 settembre 2005
(19) Giovanni 3,5-6
(20) Romani 8,14.16
(21) Galati 5, 16. 25
(22) Filippesi 2, 5
(23) San Gregorio Palamas, Omelie per la festa delle luci, 7
(24) Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 31
(25) Giovanni 6, 67-68
(26) Concilio Vaticano II, Dei Verbum, 21
(27) C .E.I. Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 47
(28) Salmo 118
(29) Concilio Vaticano II, Dei Verbum, 24
(30) Madeleine Delbrêl, Noi delle strade, Gribaudi 1969, pag. 74
(31) Concilio Vaticano II, Dei Verbum, 10
(32) Cfr Matteo 5
(33) Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 8 dicembre 1975, 18-19
(34) Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa 9
(35) Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 33
(36) Santa Teresa di Gesù Bambino, Manoscritti autobiografici, C 25r.
(37) San Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, 3,24
(38) Luca 22, 42
(39) Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa 9
(40) Luca 22, 42
(41) Concilio Ecumenico Vaticano II, Lumen Gentium 11
(42) Concilio Ecumenico Vaticano II, Presbyterorum ordinis 5
(43) Galati 2,20
(44) San Giovanni Crisostomo, Omelia sulla seconda lettera ai Corinzi
(45) Efesini 2,14
(46) Benedetto XVI, XXIV Congresso Eucaristico Nazionale, Bari 29 maggio 2005
(47) Sant’Agostino, Enarratio in Psalmos, 62,16
(48) 1 Corinti 6,11
(49) Giovanni 20, 22-23
(50) Cfr Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Misericordia Dei
(51) Cfr Luca 15
(52) Sant’Ambrogio, De Jacob I, 6, 21
(53) Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Pratica di amare Gesù Cristo
(54) Giovanni, Prima lettera 4, 9–10
(55) Benedetto XVI, Intervista in preparazione al Viaggio Apostolico a München, Altötting e Regensburg 9-14 Settembre 2006
(56) Giovanni, Prima lettera 4, 8
(57) San Bernardo, Discorso sul Cantico dei Cantici 83
(58) Giovanni, Prima lettera 5, 3
(59) Sant’Ireneo di Lione, Contro le eresie, 4, 15,1
(60) Galati, 5, 16.22.25
(61) Giovanni, Prima lettera, 3, 16.18
(62) ib. 4, 20
(63) Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 24
(64) Marco 8, 35-36
(65) Sant’Agostino, Commento alla prima lettera di Giovanni 7,7-8 [1 Ep Jo, VII, 8]
(66) Filippesi 4,13
(67) San Giovanni della Croce, Notte oscura, II, 10,1-2; 12,5-6; ed. San Paolo 2001
(68) Efesini 4, 22-24
(69) 1 Corinti 9, 24-25
(70) 2 Timoteo 2,3
(71) Matteo 16, 24
(72) Giovanni 14, 8
(73) Cfr Ebrei 12
(74) Libro I, XI
(75) Detti editi e inediti dei Padri del deserto, ed. Qiqajon 2002, p.64
(76) Isaia 49,16
(77) Alessandro Manzoni, I promessi sposi
(78) Lettera di Giacomo 3,2
(79) Beato Isacco della Stella, Dai discorsi, 11
(80) F .X. Van Thuan, Testimoni della speranza, Città Nuova 2003, pp. 197- 198
(81) Giovanni Paolo II, Pastores gregis 3
(82) 2 Timoteo 4, 3-5
(83) 2 Corinti 1, 24
(84) Giovanni, Prima lettera 1, 1-4
(85) Giovanni 12, 21
(86) Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte 16
(87) Giovanni Papini, Storia di Cristo
(88 ) Cfr Mt 28, 18-20
(89) Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale in occasione del 40° anniversario del Decreto Conciliare“Ad Gentes”, 11 marzo 2006
(90) Luca 2, 19
(91) Giovanni 2,3
(92) cfr Genesi 1
(93) Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal
(94) 1 Tessalonicesi 5,5
(95) Cfr Giovanni 12, 35-36
(96) Sant’Agostino, dai Discorsi, 256
(2) Romani 12,1
(3) Matteo 9, 37
(4) Benedetto XVI, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica, 10 marzo 2009
(5) Matteo 9, 36
(6) Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi della Svizzera, 9 novembre 2006
(7) Romano Guardini, Libertà, grazia e destino
(8) A . Camus, Il mito di Sisifo, cap I
(9) Martin Buber, Il cammino dell’uomo, cap. I
(10) Genesi 1,26
(11) Plutarco, Contro Colote, 31
(12) Sant’Agostino, Confessioni, X, 27
(13) Santa Teresa d’Avila, Castello interiore 1,1
(14) Matteo 14, 23
(15) Romano Guardini, Lettere sull’autoformazione
(16) Romano Guardini, Scritti filosofici, Milano 1964, pag. 91
(17) Cit. in M. Bruno, Aux écoutes de Dieu, Besanço1954, pag. 20
(18) Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al convegno per i Vescovi nominati nell’ultimo anno, 19 settembre 2005
(19) Giovanni 3,5-6
(20) Romani 8,14.16
(21) Galati 5, 16. 25
(22) Filippesi 2, 5
(23) San Gregorio Palamas, Omelie per la festa delle luci, 7
(24) Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 31
(25) Giovanni 6, 67-68
(26) Concilio Vaticano II, Dei Verbum, 21
(27) C .E.I. Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, 47
(28) Salmo 118
(29) Concilio Vaticano II, Dei Verbum, 24
(30) Madeleine Delbrêl, Noi delle strade, Gribaudi 1969, pag. 74
(31) Concilio Vaticano II, Dei Verbum, 10
(32) Cfr Matteo 5
(33) Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 8 dicembre 1975, 18-19
(34) Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa 9
(35) Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 33
(36) Santa Teresa di Gesù Bambino, Manoscritti autobiografici, C 25r.
(37) San Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, 3,24
(38) Luca 22, 42
(39) Giovanni Paolo II, Ecclesia in Europa 9
(40) Luca 22, 42
(41) Concilio Ecumenico Vaticano II, Lumen Gentium 11
(42) Concilio Ecumenico Vaticano II, Presbyterorum ordinis 5
(43) Galati 2,20
(44) San Giovanni Crisostomo, Omelia sulla seconda lettera ai Corinzi
(45) Efesini 2,14
(46) Benedetto XVI, XXIV Congresso Eucaristico Nazionale, Bari 29 maggio 2005
(47) Sant’Agostino, Enarratio in Psalmos, 62,16
(48) 1 Corinti 6,11
(49) Giovanni 20, 22-23
(50) Cfr Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Misericordia Dei
(51) Cfr Luca 15
(52) Sant’Ambrogio, De Jacob I, 6, 21
(53) Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Pratica di amare Gesù Cristo
(54) Giovanni, Prima lettera 4, 9–10
(55) Benedetto XVI, Intervista in preparazione al Viaggio Apostolico a München, Altötting e Regensburg 9-14 Settembre 2006
(56) Giovanni, Prima lettera 4, 8
(57) San Bernardo, Discorso sul Cantico dei Cantici 83
(58) Giovanni, Prima lettera 5, 3
(59) Sant’Ireneo di Lione, Contro le eresie, 4, 15,1
(60) Galati, 5, 16.22.25
(61) Giovanni, Prima lettera, 3, 16.18
(62) ib. 4, 20
(63) Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, 24
(64) Marco 8, 35-36
(65) Sant’Agostino, Commento alla prima lettera di Giovanni 7,7-8 [1 Ep Jo, VII, 8]
(66) Filippesi 4,13
(67) San Giovanni della Croce, Notte oscura, II, 10,1-2; 12,5-6; ed. San Paolo 2001
(68) Efesini 4, 22-24
(69) 1 Corinti 9, 24-25
(70) 2 Timoteo 2,3
(71) Matteo 16, 24
(72) Giovanni 14, 8
(73) Cfr Ebrei 12
(74) Libro I, XI
(75) Detti editi e inediti dei Padri del deserto, ed. Qiqajon 2002, p.64
(76) Isaia 49,16
(77) Alessandro Manzoni, I promessi sposi
(78) Lettera di Giacomo 3,2
(79) Beato Isacco della Stella, Dai discorsi, 11
(80) F .X. Van Thuan, Testimoni della speranza, Città Nuova 2003, pp. 197- 198
(81) Giovanni Paolo II, Pastores gregis 3
(82) 2 Timoteo 4, 3-5
(83) 2 Corinti 1, 24
(84) Giovanni, Prima lettera 1, 1-4
(85) Giovanni 12, 21
(86) Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte 16
(87) Giovanni Papini, Storia di Cristo
(88 ) Cfr Mt 28, 18-20
(89) Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale in occasione del 40° anniversario del Decreto Conciliare“Ad Gentes”, 11 marzo 2006
(90) Luca 2, 19
(91) Giovanni 2,3
(92) cfr Genesi 1
(93) Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal
(94) 1 Tessalonicesi 5,5
(95) Cfr Giovanni 12, 35-36
(96) Sant’Agostino, dai Discorsi, 256
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