“Grazia
e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo” (1
Cor 1,3)
Con
le parole dell’Apostolo Paolo mi rivolgo a voi, cari fratelli e
sorelle nel Signore. Voi siete la mia famiglia, che il
Signore ha affidato alle mie cure pastorali. Da quando il Santo Padre
mi ha nominato Arcivescovo di Genova, ho sentito rinnovarsi
quell’affetto - dono dall’Alto prima che decisione del cuore -
che esprime la paternità spirituale di ogni Pastore verso il suo
popolo. In verità, il mio amore per Genova ha radici nella mia
infanzia e nasce nel centro storico della nostra Città, dove ho
vissuto con la mia famiglia. Si è poi alimentato ed è cresciuto nel
tempo della formazione in Seminario con l’aiuto di tanti Sacerdoti;
si è sviluppato nei trentadue anni di ministero là dove - in
parrocchia e altrove - i miei Arcivescovi mi hanno inviato dandomi
fiducia. A Genova non immaginavo più di tornare; ha
disposto diversamente, e dopo dieci anni sono tornato con tremore e
gioia. Ma anche con fiducia nella bontà e nella benevolenza di
tutti. A tutti sono profondamente grato, a cominciare dai miei
confratelli.
Ho
iniziato a scrivervi parlando della preghiera (2007), poi della
divina Eucaristia (2008) e infine di Eucaristia e famiglia (2009).
Sulla famiglia abbiamo riflettuto nei vari Consigli e nei Vicariati
arrivando ad un aggiornamento circa la preparazione al matrimonio. Le
precedenti Lettere erano ispirate dalle parole che il Santo Padre
aveva indirizzato ai Vescovi Liguri a conclusione della Visita ad
Limina, l’incontro che ogni Vescovo fa periodicamente al Successore
di Pietro. Egli infatti diceva: “La fiaccola della fede, che avete
ricevuto nel battesimo, va tenuta ben accesa con la preghiera e con
la pratica dei sacramenti” (1). Ora ci troviamo nel cuore di un
evento particolare che coinvolge tutta , “l’Anno
Sacerdotale” che il Papa ha indetto in occasione del 150°
anniversario della morte di san Giovanni Maria Vianney, il Santo
Curato d’Ars (1786-1859). Esso interpella innanzitutto noi,
ministri ordinati, ma anche i fedeli laici che nel Battesimo hanno
ricevuto quel sacerdozio battesimale che li abilita ad offrire se
stessi e la propria vita come “culto spirituale” gradito a Dio
(2).
In questo orizzonte, mi è parso che una riflessione sulla “vita spirituale” fosse non solo una certa continuazione, ma anche un modo per entrare insieme in questo particolare Anno: un modo che, al di là delle specifiche differenze che affronteremo in altre forme, riguarda tutti - sacerdoti, consacrati e laici - perché tutti chiamati alla santità in quanto discepoli di Gesù.
In questo orizzonte, mi è parso che una riflessione sulla “vita spirituale” fosse non solo una certa continuazione, ma anche un modo per entrare insieme in questo particolare Anno: un modo che, al di là delle specifiche differenze che affronteremo in altre forme, riguarda tutti - sacerdoti, consacrati e laici - perché tutti chiamati alla santità in quanto discepoli di Gesù.
I.
INTRODUZIONE
«La
messe è molta, ma gli operai sono pochi» (3).
1. Non intendo qui riflettere sulla penuria degli operai del Vangelo, ma sull’abbondanza della messe. Basta guardarsi attorno e vediamo moltitudini che sembrano languire nell’inedia, o altre dibattersi tra violenze di ogni genere, o ancora cercare disperatamente la speranza. Il Santo Padre descrive la situazione con assoluto realismo e fiducia: «Nel nostro tempo in cui vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio» (4).
1. Non intendo qui riflettere sulla penuria degli operai del Vangelo, ma sull’abbondanza della messe. Basta guardarsi attorno e vediamo moltitudini che sembrano languire nell’inedia, o altre dibattersi tra violenze di ogni genere, o ancora cercare disperatamente la speranza. Il Santo Padre descrive la situazione con assoluto realismo e fiducia: «Nel nostro tempo in cui vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio» (4).
La
messe dunque è estesa, come quando Gesù vedeva le folle e ne
sentiva compassione «perché erano stanche e sfinite» (5). Ma è
estesa anche in profondità, cioè nelle profondità dell’anima e
nelle complessità del vivere: nella ricerca insopprimibile della
felicità, l’uomo contemporaneo sembra procedere per tentativi e
spesso sbaglia la strada. In questo andare ondeggiante – che
richiama l’ondeggiare delle messi nei campi – non si esprime
forse la perenne nostalgia di Assoluto? l’essere – ogni uomo –
un mendicante di Infinito, un perenne cercatore di Dio? La diffusa e
a volte confusa esigenza di spiritualità, nonostante il secolarismo
che vorrebbe indurre a vivere senza Dio, sembra essere un “segno
dei tempi”, esprime un rinnovato bisogno di interiorità, di punti
di riferimento per ritrovare se stessi e la strada del vivere.
Esprime l’intuizione antica del bisogno di essere salvati. Da che
cosa? Dall’indegnità morale, dall’assurdità e dal non senso di
tutto - soprattutto della morte - dallo smarrimento interiore che
cresce quanto più l’uomo cerca di soffocarlo. È la spia di una
intuizione reale anche se a volte confusa: che senza la radicale
apertura alla Trascendenza viene meno la consistenza dell’uomo, e
il tessuto della vita individuale e comunitaria si sfalda e si
corrompe. La stessa dimensione etica – personale e sociale – si
indebolisce perché privata del suo ultimo fondamento. Senza Dio si
perde l’uomo.
2. Il
Santo Padre Benedetto XVI avverte che «una nostalgia di Dio, di
spiritualità, di religione esiste oggi nelle persone e che si
ricomincia anche a vedere nella Chiesa una possibile interlocutrice,
dalla quale, a questo riguardo, è possibile ricevere qualcosa ( ...
) Cresce nuovamente la consapevolezza: è una grande
portatrice di esperienza spirituale; è come un albero, nel quale
possono porre il loro nido gli uccelli, anche se poi vogliono di
nuovo volar via – ma è, appunto, il luogo dove ci si può posare
per un certo tempo» (6).
La
“diffusa esigenza di spiritualità” esprime, a ben vedere, anche
il bisogno di un’educazione integrale. Se la persona
non si educa nella sua completezza di anima e di corpo, non si ha
personalità adulta: resta carente e incompleta, quindi fragile di
fronte all’urto incessante del quotidiano. Non basta sviluppare,
anche al meglio, alcune capacità personali: perché il percorso
educativo sia efficace è indispensabile coltivare l’uomo nella sua
totalità. Il bisogno di spiritualità, dunque, rivela anche questa
intuizione, forse non sempre chiara e distinta.
In
una cultura che esalta ed assolutizza l’aspetto fisico, la forma e
l’immagine, l’uomo non riesce a costruire se stesso e a trovare
la felicità, non può formare una società veramente umana, né
portare serenamente – insieme alle gioie – i pesi dell’
esistenza. La ricerca della dimensione spirituale dice che l’uomo
non può fondarsi sulla sabbia, ma deve edificare se stesso sulla
solida roccia. E la roccia è l’anima: educare l’anima non
significa deprezzare o escludere nulla della persona, ma rendere vero
e duraturo tutto ciò che la riguarda. Ecco la “vita spirituale”.
La
coppia e la famiglia, la maturità solida della persona, la vocazione
personale, la speranza verso il domani, la sintesi feconda tra fede e
vita, lo spessore etico, la reazione alla conflittualità sociale,
l’onestà nel lavoro... non hanno forse nella vita spirituale il
“punto di forza”? Se coltivassimo di più l’anima, che
è il centro dell’uomo, non saremmo più capaci di affrontare le
inevitabili sfide della vita, di superare le tentazioni del male e di
resistere alle lusinghe delle facili evasioni dalla complessità e
dalla durezza del reale? I mondi artificiali, o addirittura virtuali,
sono fughe dalle quali si ritorna sempre delusi e vuoti! Quindi
deboli.
II.
VERSO IL “CENTRO”