mercoledì 7 marzo 2018

IL DIGIUNO CRISTIANO



Lunedì
Predisporre il cuore alla carità
Perché il digiuno e l'ascesi possano efficacemente adempiere la loro funzione è necessario che siano praticati con coscienza di causa. Non si tratta semplicemente di giustapporre a certi nostri atti un significato intellettuale, tanto meno di compiere alcune pratiche per puro dovere. Occorre piuttosto che il movimento interiore suscitato dalla grazia coinvolga spontaneamente anche il nostro corpo.
Nello stesso tempo, però, è necessario che la misura dell'ascesi sia proporzionata alle possibilità reali del soggetto. Ecco perché i Padri del deserto insistevano così tanto sulla discrezione: essa ha per l'appunto il compito di assicurare questo equilibrio. La sua funzione non è quella di fissare delle regole, ma di proporzionare concretamente le esigenze esterne alle forze del soggetto e alle mozioni interiori dello Spirito, allo scopo di rendere sempre possibile un impegno veramente personale. Se è: lo Spirito che invita e ne dà la forza, anche certi «eccessi», anziché attentare all'integrità fisica e spirituale, la favoriranno. Lo testimoniano innumerevoli vite di santi. Ciò che i Padri del deserto chiedevano invece a un debole, a un peccatore che cercava di riprendersi, era talora di una sorprendente condiscendenza. I criteri che permettono in questi casi una decisione sono i segni classici del discernimento degli spiriti: qual è il mezzo che favorirà maggiormente la pace dell'anima, la mitezza, l'assenza di affanno, di durezza, di asprezza? Qui si rivela indispensabile il consiglio del padre spirituale.
Il digiuno è inseparabile dalle altre pratiche tradizionali dell'ascesi cristiana e dall'esercizio concreto della carità. Proprio in virtù del loro carattere essenzialmente simbolico, gli esercizi dell'ascesi corporale non sono interscambiabili. Ognuno di essi «simbolizza» un aspetto diverso dello sforzo ascetico, e insieme costituiscono un organismo in cui ciascun elemento ha la sua funzione propria. Sarebbe assolutamente dannoso alla vita spirituale, per esempio, se si riducesse tutta l'ascesi a compiere bene il proprio lavoro e a sostenere le difficoltà quotidiane della vita. Tutto questo è necessario, indubbiamente, ma non è il simbolo efficace di quell'atteggiamento di povertà spirituale, di rifiuto di fare affidamento sulle sole forze della carne, di umiliazione dinanzi a Dio che il digiuno vuole esprimere...
Ma soprattutto, e lo proclamavano con forza già i profeti di Israele, si deve sempre unire al digiuno l'esercizio concreto della carità verso il prossimo. IPadri ricordano costantemente che il digiuno deve permettere al cristiano di soddisfare al dovere dell'elemosina e che esso non ha alcun senso se non predispone il cuore alla carità.
PI. Deseille, Humilier son âme..., pp. 14-17.

Martedì

Da che cosa dipende la nostra vita?
Cristo è il nuovo Adamo. Egli viene a riparare il danno inflitto alla vita da Adamo, a restituire l'uomo alla vera vita, e, quindi, comincia col digiunare. «E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ebbe fame» (Mt 4, 2). La fame è quello stato in cui percepiamo la nostra dipendenza da qualcosa d'altro, quando sentiamo il bisogno urgente ed essenziale di cibo; questo ci mostra che non possediamo la vita in noi stessi. La fame è quel limite al di là del quale io o muoio di inedia oppure, dopo aver soddisfatto il mio corpo, ho di nuovo l'impressione di essere vivo. In altre parole, è il momento in cui ci poniamo di fronte alla domanda fondamentale: da cosa dipende la mia vita? E poiché la domanda non è puramente accademica, ma viene percepita con l'intero corpo, è anche il tempo della tentazione. Satana si presentò ad Adamo nel paradiso, si presentò a Cristo nel deserto. Si presentò a due uomini affamati e disse loro: «mangiate, perché la vostra fame è la prova che voi dipendete totalmente dal cibo, che la vostra vita è nel cibo». Adamo credette e mangiò. Ma Cristo respinse la tentazione e disse: «Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio», Egli rifiutò di accettare quella menzogna cosmica che Satana ha imposto al mondo, trasformandola in una verità talmente evidente da essere ormai indiscutibile: essa è diventata il fondamento dell'intera nostra visione del mondo. Con il suo rifiuto, Cristo invece ha ripristinato quella relazione fra cibo, vita e Dio, che Adamo aveva rotto e che noi continuiamo a rompere ogni giorno.
Che cos'è allora il digiuno per noi cristiani? È il nostro entrare, il nostro prendere parte all'esperienza di Cristo stesso, attraverso la quale egli ci libera dalla totale dipendenza dal cibo, dalla materia e dal mondo. In realtà, la nostra liberazione non si è compiutamente realizzata: vivendo ancora in questo mondo decaduto, il mondo del vecchio Adamo, e facendone parte, noi siamo ancora dipendenti dal cibo. Ma come la nostra morte – attraverso la quale dobbiamo ancora passare – è diventata, in virtù della morte di Cristo, un passaggio alla vita, così il cibo che noi mangiamo e la vita che esso sostiene possono essere vita in Dio e per Dio. Parte del nostro cibo è già diventata «cibo d'immortalità»: il corpo e il sangue di Cristo stesso.
Ma anche il pane quotidiano che riceviamo da Dio può essere, in questa vita e in questo mondo, ciò che ci dà forza e ci mette in comunione con Dio, anziché ciò che ci separa da lui. Tuttavia, solo il digiuno può operare questa trasformazione, dandoci la prova esistenziale che la nostra dipendenza dal cibo e dalla materia non è totale né assoluta, e che, unita alla preghiera, alla grazia e all'adorazione, può essere anch'essa spirituale.

A. Schmemann, La grande Quaresima, pp. 102-104.

Mercoledì
Nell'attesa di Dio
Il digiuno dovrebbe essere praticato a due livelli: anzitutto, come digiuno ascetico; quindi, come digiuno totale. Il digiuno ascetico consiste in una drastica riduzione del cibo, cosicché lo stato permanente di una certa fame possa essere vissuto come un richiamo a Dio e uno sforzo costante di mantenere la nostra mente orientata verso di lui. Chiunque l'abbia praticato, anche solo un po', sa che il digiuno ascetico anziché indebolirci, ci rende leggeri, unificati, sobri, gioiosi, puri. Allora si riceve il cibo davvero come un dono di Dio. Ci si trova costantemente orientati verso quel mondo interiore che, in modo inspiegabile, diventa di per se stesso una sorta di cibo. Per quanto concerne la quantità, la frequenza e la qualità del cibo da prendere durante il digiuno ascetico, non è il caso di discuterne qui; tutto dipende dalle nostre capacità individuali e dalle condizioni esteriori della vita di ciascuno. Ma il principio è chiaro: si tratta di uno stato di semi-fame, la cui natura «negativa» è sempre trasformata in forza positiva dalla preghiera, dalla memoria, dall'attenzione e dalla concentrazione.
Quanto al digiuno totale, esso deve essere necessariamente limitato nella sua durata e collegato con l'eucaristia. L'essenziale è viverlo come attesa, speranza, fame di Dio. Si tratta di concentrarsi spiritualmente su ciò che sta per venire, sul dono che si va a ricevere e per il quale si è pronti a rinunciare a tutti gli altri doni.
Si deve ancora ricordare che il nostro digiuno, per quanto limitato, se è un vero digiuno, condurrà alla tentazione, alla debolezza, al dubbio e all'irritazione. In altre parole, sarà un'autentica lotta e probabilmente soccomberemo molte volte. Ma proprio la scoperta della vita cristiana in quanto lotta e sforzo è l'aspetto essenziale del digiuno. Una fede che non ha superato i dubbi e la tentazione è raramente una fede autentica. Purtroppo, nessun progresso è possibile, nella vita cristiana, senza l'amara esperienza dell'insuccesso. Troppa gente comincia il digiuno con entusiasmo e vi rinuncia al primo insuccesso. Io direi che è proprio al primo insuccesso che avviene il vero collaudo. Se, dopo aver ceduto e aver dato libero corso ai nostri appetiti e alle nostre passioni, riusciamo a ripartire daccapo, senza rinunciare, non importa quante sono le volte in cui veniamo meno, prima o poi il nostro digiuno porterà i suoi frutti spirituali. Fra la santità e il cinismo disincantato c'è posto per la grande e divina virtù della pazienza, pazienza con se stessi, anzitutto. Non c'è scorciatoia per la santità; per ogni passo dobbiamo pagare l'intero prezzo. Così è preferibile e più sicuro iniziare con un minimo, appena un po' al di sopra delle nostre possibilità naturali, e incrementare poco a poco il nostro sforzo, piuttosto che tentar di saltare troppo in alto all'inizio e romperci qualche osso ricadendo a terra.
In breve: da un digiuno simbolico e formale, il digiuno inteso come obbligo e costume, dobbiamo far ritorno al vero digiuno, sia pure limitato e modesto, ma effettivo e serio. Mettiamoci con onestà di fronte alle nostre capacità spirituali e fisiche, e agiamo di conseguenza, ricordando però che non c'è digiuno che non sia una sfida a queste capacità e non introduca nella nostra vita una prova divina che le cose impossibili agli uomini sono possibili a Dio.

A. Schmemann, La grande Quaresima, pp. 106-107.

Giovedi
Fame e sete del Dio vivente
Il digiuno tocca l'uomo in uno dei suoi ritmi più vitali: il doppio ritmo della nutrizione, che si presenta successivamente come bisogno e come soddisfazione. Già dai primi istanti della sua esistenza fuori dal seno materno, l'essere umano è strutturato dalla successione di questi due momenti. È così che può restare in vita e gli è possibile situarsi progressivamente di fronte alle cose che lo circondano. Il neonato ha fame o è sazio. Bisogno e soddisfazione, fame e sazietà, con la loro caratteristica di sofferenza e di godimento, si alternano continuamente.
Più l'adulto si sviluppa verso la profondità del suo essere, più profondo diventa anche il bisogno ed è meno soddisfatto dalla nutrizione materiale che gli è presentata. Viene un giorno in cui la fame e la sete del Dio vivente nascono in lui e, dominando la nutrizione materiale, si scolpiscono nel suo corpo. «Come un cervo anela alle fonti d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio. La mia anima ha sete di te!» (Sal 42,2-3). A partire da questo momento, solo Gesù può saziare perfettamente la sua sete: «Chi ha sete venga a me e beva... Diceva questo dello Spirito che dovevano ricevere» (Gv 7,37.39).
Il digiuno fa presa profondamente sull'uomo. Lo ferisce anche, ma senza nuocergli, a patto che l'astinenza corporale orienti fedelmente verso un'astinenza più profonda e spirituale, che, a dire il vero, Costa ancora di più all'uomo: l'assenza di Gesù, lo sposo.
Rifiutare il cibo del mondo significa che vogliamo esprimere anche col corpo la nostra fame del secolo venturo e di Gesù stesso, il pane disceso per noi dal cielo (cf. Gv 6, 33). Quando il digiuno è vissuto secondo questa prospettiva, mette in movimento, all'interno dell'uomo, un processo di maturazione spirituale con il quale, lentamente ma sicuramente, questi viene trascinato verso la sua nuova realtà di esistenza, verso il suo essere-nello-Spirito santo. Notiamo di passaggio che il digiuno eucaristico prende il suo significato e la sua forza invisibile dallo stesso processo. La tensione scavata dal digiuno non è tolta che dalla comunione sacramentale con Gesù, così come, al di fuori della santa comunione, non è pacificata che nell'intimità della preghiera con Gesù. Ciò facendo, il digiuno e la preghiera operano in profondità per lo sviluppo psicologico dell'uomo. Contribuiscono infatti fino a un certo punto a cancellare le tracce del peccato in lui. Anche il bisogno psicologico si acceca, e spesso, così pesantemente gravato dalla passione, subisce una trasformazione fondamentale. Non basterebbe, infatti, sublimare il bisogno di nutrimento corporale sul piano spirituale con il solo digiuno. Esiste, infatti, una golosità spirituale, altrettanto egocentrica di quella materiale e che ugualmente frena la libera attività della grazia in noi. Al contrario, il digiuno esige ben di più. Si tratta di rinunciare ad ogni appetito egocentrico, e di trasformare ogni bisogno, qualunque esso sia, in un desiderio dell'altro, paziente e rispettoso: infatti solo l'altro nella sua alterità irriducibile può donarsi a noi, liberamente e senza costrizioni.

A. Louf, Signore, insegnaci a pregare, pp. 118-119.

Venerdì
Trasformare il bisogno in desiderio
Il nostro bisogno di Dio, più o meno imperioso e che vorrebbe incatenarlo ai nostri capricci, si trasforma attraverso la preghiera e il digiuno in una apertura nei suoi confronti, umile e piena d'attesa. Non possiamo invocare Dio che dal profondo, senza mai poter mettere la mano su di lui (Sal 130,2).
Non si può infatti afferrare Dio come si prende in mano un pezzo di pane. Non si può bere lo Spirito come un bicchiere d'acqua. Per impiegare il linguaggio della psicologia, il digiuno e la preghiera possono operare in noi il passaggio dal bisogno al desiderio. Ciò significa, nel linguaggio della Bibbia, che non proviamo più piacere col latte dei neonati, ma che ora possiamo prendere anche il cibo solido dello Spirito, a cui hanno diritto coloro che hanno raggiunto in Gesù la statura dell'uomo adulto (cf. 1 Pt 2, 2; Ef 4, 13). Il digiuno e la preghiera sono allora espressione di un grande amore purificato - il casto amore dei Medievali – che si traduce in un abbandono incondizionato e nell'attesa paziente delle meraviglie che Dio, liberamente e spontaneamente, compirà nella nostra vita. (...)
Allorché ogni bisogno incosciente è trasformato in desiderio puro, Dio corrisponderà con tutta la sua misericordia. Si tratta di una liberalità che accorda doni gratuitamente, ma sulla quale non vantiamo alcun diritto: «Chi altri vi è per me nel cielo? Fuori di te nulla io bramo sulla terra» (Sal 73,25).
Il digiuno diviene la sorgente di una gioia indicibile, gioia di chi mangia unicamente dalla mano di Dio. Mentre la veglia ci fa come superare il tempo, il digiuno ci fa discendere in profondità fino agli strati incoscienti del nostro essere, là dove, con la forza dello Spirito, possiamo affrontare tutti i bisogni e tutte le passioni. Nella veglia l'uomo assomiglia agli angeli che giorno e notte contemplano il volto di Dio. Il digiuno lo mette in grado di vivere nel suo essere proprio la fame profonda di tutta la creazione, fame che non può mai essere appagata in un corpo, che lo Spirito solo può saziare. Infatti è lo Spirito che conferisce sempre forza e finalità al digiuno e alla preghiera, lui che esaudisce l'uno e l'altra, senza misura, al di là di ogni bisogno e di ogni desiderio.

A. Louf, Signore, insegnaci a pregare, pp. 119-120.

Sabato
Ascesi: una parola incomprensibile?
Il digiuno, che è l'atto più immediato e più universale dell'ascesi ecclesiale, oggi è stato quasi abolito anche ufficialmente in occidente. Il centro di gravità della pietà cristiana si è spostato di più, se non esclusivamente, sulla cosiddetta «coerenza morale individuale», su ambiti di comportamento razionalmente giustificati, su un'obbedienza logicamente ovvia e oggettivamente necessaria a comandamenti di utilità sociale.
Sempre di più la vita cristiana sembra esaurirsi in un certo «modo di comportarsi», in un codice di buona condotta. Sempre di più il cristianesimo si aliena in una modalità sociale adattata al metro delle esigenze umane meno degne, del conformismo, della conservazione sterile, della ristrettezza di cuore e della paura di osare, come pure al metro di un moralismo insignificante che cerca di adornare la viltà e l'assicurazione individuale e con l'ornamento funereo delle convenienze sociali. Gli uomini che veramente hanno sete di vita, che disperatamente lottano per distinguere una qualche luce nel mistero ermetico dell'esistenza umana, cioè gli uomini ai quali primariamente e per eccellenza si rivolge il vangelo della salvezza, ebbene tutti costoro rimangono inevitabilmente lontani dalla convenzionalità sociale razionalmente organizzata del cristianesimo stabilito.
In questo clima odierno, per un gran numero di uomini, di cristiani, l'ascesi anche solo come parola è alquanto incomprensibile. Se uno parla di digiuno e di continenza e di volontaria limitazione dei desideri individuali è sicuro che sarà accolto da ironia o da un'aria di condiscendenza. Questo certamente non impedisce agli uomini di avere le loro «convinzioni metafisiche», di credere ad un qualche «essere superiore» o al «dolce Gesù» che ha insegnato una meravigliosa morale.
Ma la domanda è se servono le «convinzioni metafisiche» quando non danno neppure minimamente una reale (non idealistica e astratta) risposta al problema della morte, allo scandalo della dissoluzione del corpo nella terra.
Questa risposta si trova solo nella conoscenza donata dall'ascesi, dall'impegno del nostro stesso corpo da resistere alla morte, dal superamento dinamico dellanecrosi dell'uomo. E non una qualsiasi ascesi ma quella che è conformazione all'esempio di Cristo che volontariamente ha accettato la morte per dissolvere la morte, «calpestando la morte con la morte». Ogni volontario morire all'egocentrismo «contro natura» è abolizione dinamica della morte e trionfo della vita nella persona. Perché l'uomo giunga finalmente alla consegna fiduciosa del suo corpo, ultima roccaforte della morte, nelle mani di Dio, nelle braccia della «terra del Signore» nella pienezza della comunione dei santi.

Ch. Yannaras, La libertà dell'ethos, pp. 115-116.


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