Lunedì
Predisporre
il cuore alla carità
Perché
il digiuno e l'ascesi possano efficacemente adempiere la loro
funzione è necessario che siano praticati con coscienza di causa.
Non si tratta semplicemente di giustapporre a certi nostri atti un
significato intellettuale, tanto meno di compiere alcune pratiche per
puro dovere. Occorre piuttosto che il movimento interiore suscitato
dalla grazia coinvolga spontaneamente anche il nostro corpo.
Nello
stesso tempo, però, è necessario che la misura dell'ascesi sia
proporzionata alle possibilità reali del soggetto. Ecco perché i
Padri del deserto insistevano così tanto sulla discrezione: essa ha
per l'appunto il compito di assicurare questo equilibrio. La sua
funzione non è quella di fissare delle regole, ma di proporzionare
concretamente le esigenze esterne alle forze del soggetto e alle
mozioni interiori dello Spirito, allo scopo di rendere sempre
possibile un impegno veramente personale. Se è: lo Spirito che
invita e ne dà la forza, anche certi «eccessi», anziché attentare
all'integrità fisica e spirituale, la favoriranno. Lo testimoniano
innumerevoli vite di santi. Ciò che i Padri del deserto chiedevano
invece a un debole, a un peccatore che cercava di riprendersi, era
talora di una sorprendente condiscendenza. I criteri che permettono
in questi casi una decisione sono i segni classici del discernimento
degli spiriti: qual è il mezzo che favorirà maggiormente la pace
dell'anima, la mitezza, l'assenza di affanno, di durezza, di
asprezza? Qui si rivela indispensabile il consiglio del padre
spirituale.
Il
digiuno è inseparabile dalle altre pratiche tradizionali dell'ascesi
cristiana e dall'esercizio concreto della carità. Proprio in virtù
del loro carattere essenzialmente simbolico, gli esercizi dell'ascesi
corporale non sono interscambiabili. Ognuno di essi «simbolizza» un
aspetto diverso dello sforzo ascetico, e insieme costituiscono un
organismo in cui ciascun elemento ha la sua funzione propria. Sarebbe
assolutamente dannoso alla vita spirituale, per esempio, se si
riducesse tutta l'ascesi a compiere bene il proprio lavoro e a
sostenere le difficoltà quotidiane della vita. Tutto questo è
necessario, indubbiamente, ma non è il simbolo efficace di
quell'atteggiamento di povertà spirituale, di rifiuto di fare
affidamento sulle sole forze della carne, di umiliazione dinanzi a
Dio che il digiuno vuole esprimere...
Ma
soprattutto, e lo proclamavano con forza già i profeti di Israele,
si deve sempre unire al digiuno l'esercizio concreto della carità
verso il prossimo. IPadri ricordano costantemente che il digiuno deve
permettere al cristiano di soddisfare al dovere dell'elemosina e che
esso non ha alcun senso se non predispone il cuore alla carità.
PI.
Deseille, Humilier son âme..., pp. 14-17.
Martedì
Da
che cosa dipende la nostra vita?
Cristo
è il nuovo Adamo. Egli viene a riparare il danno inflitto alla vita
da Adamo, a restituire l'uomo alla vera vita, e, quindi, comincia col
digiunare. «E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti,
ebbe fame» (Mt 4, 2). La fame è quello stato in cui percepiamo la
nostra dipendenza da qualcosa d'altro, quando sentiamo il bisogno
urgente ed essenziale di cibo; questo ci mostra che non possediamo la
vita in noi stessi. La fame è quel limite al di là del quale io o
muoio di inedia oppure, dopo aver soddisfatto il mio corpo, ho di
nuovo l'impressione di essere vivo. In altre parole, è il momento in
cui ci poniamo di fronte alla domanda fondamentale: da cosa dipende
la mia vita? E poiché la domanda non è puramente accademica, ma
viene percepita con l'intero corpo, è anche il tempo della
tentazione. Satana si presentò ad Adamo nel paradiso, si presentò a
Cristo nel deserto. Si presentò a due uomini affamati e disse loro:
«mangiate, perché la vostra fame è la prova che voi dipendete
totalmente dal cibo, che la vostra vita è nel cibo». Adamo credette
e mangiò. Ma Cristo respinse la tentazione e disse: «Non di solo
pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio»,
Egli rifiutò di accettare quella menzogna cosmica che Satana ha
imposto al mondo, trasformandola in una verità talmente evidente da
essere ormai indiscutibile: essa è diventata il fondamento
dell'intera nostra visione del mondo. Con il suo rifiuto, Cristo
invece ha ripristinato quella relazione fra cibo, vita e Dio, che
Adamo aveva rotto e che noi continuiamo a rompere ogni giorno.
Che
cos'è allora il digiuno per noi cristiani? È il nostro entrare, il
nostro prendere parte all'esperienza di Cristo stesso, attraverso la
quale egli ci libera dalla totale dipendenza dal cibo, dalla materia
e dal mondo. In realtà, la nostra liberazione non si è
compiutamente realizzata: vivendo ancora in questo mondo decaduto, il
mondo del vecchio Adamo, e facendone parte, noi siamo ancora
dipendenti dal cibo. Ma come la nostra morte – attraverso la quale
dobbiamo ancora passare – è diventata, in virtù della morte di
Cristo, un passaggio alla vita, così il cibo che noi mangiamo e la
vita che esso sostiene possono essere vita in Dio e per Dio. Parte
del nostro cibo è già diventata «cibo d'immortalità»: il corpo e
il sangue di Cristo stesso.
Ma
anche il pane quotidiano che riceviamo da Dio può essere, in questa
vita e in questo mondo, ciò che ci dà forza e ci mette in comunione
con Dio, anziché ciò che ci separa da lui. Tuttavia, solo il
digiuno può operare questa trasformazione, dandoci la prova
esistenziale che la nostra dipendenza dal cibo e dalla materia non è
totale né assoluta, e che, unita alla preghiera, alla grazia e
all'adorazione, può essere anch'essa spirituale.
A.
Schmemann, La grande Quaresima, pp. 102-104.
Mercoledì
Nell'attesa
di Dio
Il
digiuno dovrebbe essere praticato a due livelli: anzitutto, come
digiuno ascetico; quindi, come digiuno totale. Il digiuno ascetico
consiste in una drastica riduzione del cibo, cosicché lo stato
permanente di una certa fame possa essere vissuto come un richiamo a
Dio e uno sforzo costante di mantenere la nostra mente orientata
verso di lui. Chiunque l'abbia praticato, anche solo un po', sa che
il digiuno ascetico anziché indebolirci, ci rende leggeri,
unificati, sobri, gioiosi, puri. Allora si riceve il cibo davvero
come un dono di Dio. Ci si trova costantemente orientati verso quel
mondo interiore che, in modo inspiegabile, diventa di per se stesso
una sorta di cibo. Per quanto concerne la quantità, la frequenza e
la qualità del cibo da prendere durante il digiuno ascetico, non è
il caso di discuterne qui; tutto dipende dalle nostre capacità
individuali e dalle condizioni esteriori della vita di ciascuno. Ma
il principio è chiaro: si tratta di uno stato di semi-fame, la cui
natura «negativa» è sempre trasformata in forza positiva dalla
preghiera, dalla memoria, dall'attenzione e dalla concentrazione.
Quanto
al digiuno totale, esso deve essere necessariamente limitato nella
sua durata e collegato con l'eucaristia. L'essenziale è viverlo come
attesa, speranza, fame di Dio. Si tratta di concentrarsi
spiritualmente su ciò che sta per venire, sul dono che si va a
ricevere e per il quale si è pronti a rinunciare a tutti gli altri
doni.
Si
deve ancora ricordare che il nostro digiuno, per quanto limitato, se
è un vero digiuno, condurrà alla tentazione, alla debolezza, al
dubbio e all'irritazione. In altre parole, sarà un'autentica lotta e
probabilmente soccomberemo molte volte. Ma proprio la scoperta della
vita cristiana in quanto lotta e sforzo è l'aspetto essenziale del
digiuno. Una fede che non ha superato i dubbi e la tentazione è
raramente una fede autentica. Purtroppo, nessun progresso è
possibile, nella vita cristiana, senza l'amara esperienza
dell'insuccesso. Troppa gente comincia il digiuno con entusiasmo e vi
rinuncia al primo insuccesso. Io direi che è proprio al primo
insuccesso che avviene il vero collaudo. Se, dopo aver ceduto e aver
dato libero corso ai nostri appetiti e alle nostre passioni,
riusciamo a ripartire daccapo, senza rinunciare, non importa quante
sono le volte in cui veniamo meno, prima o poi il nostro digiuno
porterà i suoi frutti spirituali. Fra la santità e il cinismo
disincantato c'è posto per la grande e divina virtù della pazienza,
pazienza con se stessi, anzitutto. Non c'è scorciatoia per la
santità; per ogni passo dobbiamo pagare l'intero prezzo. Così è
preferibile e più sicuro iniziare con un minimo, appena un po' al di
sopra delle nostre possibilità naturali, e incrementare poco a poco
il nostro sforzo, piuttosto che tentar di saltare troppo in alto
all'inizio e romperci qualche osso ricadendo a terra.
In
breve: da un digiuno simbolico e formale, il digiuno inteso come
obbligo e costume, dobbiamo far ritorno al vero digiuno, sia pure
limitato e modesto, ma effettivo e serio. Mettiamoci con onestà di
fronte alle nostre capacità spirituali e fisiche, e agiamo di
conseguenza, ricordando però che non c'è digiuno che non sia una
sfida a queste capacità e non introduca nella nostra vita una prova
divina che le cose impossibili agli uomini sono possibili a Dio.
A.
Schmemann, La grande Quaresima, pp. 106-107.
Giovedi
Fame
e sete del Dio vivente
Il
digiuno tocca l'uomo in uno dei suoi ritmi più vitali: il doppio
ritmo della nutrizione, che si presenta successivamente come bisogno
e come soddisfazione. Già dai primi istanti della sua esistenza
fuori dal seno materno, l'essere umano è strutturato dalla
successione di questi due momenti. È così che può restare in vita
e gli è possibile situarsi progressivamente di fronte alle cose che
lo circondano. Il neonato ha fame o è sazio. Bisogno e
soddisfazione, fame e sazietà, con la loro caratteristica di
sofferenza e di godimento, si alternano continuamente.
Più
l'adulto si sviluppa verso la profondità del suo essere, più
profondo diventa anche il bisogno ed è meno soddisfatto dalla
nutrizione materiale che gli è presentata. Viene un giorno in cui la
fame e la sete del Dio vivente nascono in lui e, dominando la
nutrizione materiale, si scolpiscono nel suo corpo. «Come un cervo
anela alle fonti d'acqua, così l'anima mia anela a te, o Dio. La mia
anima ha sete di te!» (Sal 42,2-3). A partire da questo momento,
solo Gesù può saziare perfettamente la sua sete: «Chi ha sete
venga a me e beva... Diceva questo dello Spirito che dovevano
ricevere» (Gv 7,37.39).
Il
digiuno fa presa profondamente sull'uomo. Lo ferisce anche, ma senza
nuocergli, a patto che l'astinenza corporale orienti fedelmente verso
un'astinenza più profonda e spirituale, che, a dire il vero, Costa
ancora di più all'uomo: l'assenza di Gesù, lo sposo.
Rifiutare
il cibo del mondo significa che vogliamo esprimere anche col corpo la
nostra fame del secolo venturo e di Gesù stesso, il pane disceso per
noi dal cielo (cf. Gv 6, 33). Quando il digiuno è vissuto secondo
questa prospettiva, mette in movimento, all'interno dell'uomo, un
processo di maturazione spirituale con il quale, lentamente ma
sicuramente, questi viene trascinato verso la sua nuova realtà di
esistenza, verso il suo essere-nello-Spirito santo. Notiamo di
passaggio che il digiuno eucaristico prende il suo significato e la
sua forza invisibile dallo stesso processo. La tensione scavata dal
digiuno non è tolta che dalla comunione sacramentale con Gesù, così
come, al di fuori della santa comunione, non è pacificata che
nell'intimità della preghiera con Gesù. Ciò facendo, il digiuno e
la preghiera operano in profondità per lo sviluppo psicologico
dell'uomo. Contribuiscono infatti fino a un certo punto a cancellare
le tracce del peccato in lui. Anche il bisogno psicologico si acceca,
e spesso, così pesantemente gravato dalla passione, subisce una
trasformazione fondamentale. Non basterebbe, infatti, sublimare il
bisogno di nutrimento corporale sul piano spirituale con il solo
digiuno. Esiste, infatti, una golosità spirituale, altrettanto
egocentrica di quella materiale e che ugualmente frena la libera
attività della grazia in noi. Al contrario, il digiuno esige ben di
più. Si tratta di rinunciare ad ogni appetito egocentrico, e di
trasformare ogni bisogno, qualunque esso sia, in un desiderio
dell'altro, paziente e rispettoso: infatti solo l'altro nella sua
alterità irriducibile può donarsi a noi, liberamente e senza
costrizioni.
A.
Louf, Signore, insegnaci a pregare, pp. 118-119.
Venerdì
Trasformare
il bisogno in desiderio
Il
nostro bisogno di Dio, più o meno imperioso e che vorrebbe
incatenarlo ai nostri capricci, si trasforma attraverso la preghiera
e il digiuno in una apertura nei suoi confronti, umile e piena
d'attesa. Non possiamo invocare Dio che dal profondo, senza mai poter
mettere la mano su di lui (Sal 130,2).
Non
si può infatti afferrare Dio come si prende in mano un pezzo di
pane. Non si può bere lo Spirito come un bicchiere d'acqua. Per
impiegare il linguaggio della psicologia, il digiuno e la preghiera
possono operare in noi il passaggio dal bisogno al desiderio. Ciò
significa, nel linguaggio della Bibbia, che non proviamo più piacere
col latte dei neonati, ma che ora possiamo prendere anche il cibo
solido dello Spirito, a cui hanno diritto coloro che hanno raggiunto
in Gesù la statura dell'uomo adulto (cf. 1 Pt 2, 2; Ef 4, 13). Il
digiuno e la preghiera sono allora espressione di un grande amore
purificato - il casto amore dei Medievali – che si traduce in un
abbandono incondizionato e nell'attesa paziente delle meraviglie che
Dio, liberamente e spontaneamente, compirà nella nostra vita. (...)
Allorché
ogni bisogno incosciente è trasformato in desiderio puro, Dio
corrisponderà con tutta la sua misericordia. Si tratta di una
liberalità che accorda doni gratuitamente, ma sulla quale non
vantiamo alcun diritto: «Chi altri vi è per me nel cielo? Fuori di
te nulla io bramo sulla terra» (Sal 73,25).
Il
digiuno diviene la sorgente di una gioia indicibile, gioia di chi
mangia unicamente dalla mano di Dio. Mentre la veglia ci fa come
superare il tempo, il digiuno ci fa discendere in profondità fino
agli strati incoscienti del nostro essere, là dove, con la forza
dello Spirito, possiamo affrontare tutti i bisogni e tutte le
passioni. Nella veglia l'uomo assomiglia agli angeli che giorno e
notte contemplano il volto di Dio. Il digiuno lo mette in grado di
vivere nel suo essere proprio la fame profonda di tutta la creazione,
fame che non può mai essere appagata in un corpo, che lo Spirito
solo può saziare. Infatti è lo Spirito che conferisce sempre forza
e finalità al digiuno e alla preghiera, lui che esaudisce l'uno e
l'altra, senza misura, al di là di ogni bisogno e di ogni desiderio.
A.
Louf, Signore, insegnaci a pregare, pp. 119-120.
Sabato
Ascesi:
una parola incomprensibile?
Il
digiuno, che è l'atto più immediato e più universale dell'ascesi
ecclesiale, oggi è stato quasi abolito anche ufficialmente in
occidente. Il centro di gravità della pietà cristiana si è
spostato di più, se non esclusivamente, sulla cosiddetta «coerenza
morale individuale», su ambiti di comportamento razionalmente
giustificati, su un'obbedienza logicamente ovvia e oggettivamente
necessaria a comandamenti di utilità sociale.
Sempre
di più la vita cristiana sembra esaurirsi in un certo «modo di
comportarsi», in un codice di buona condotta. Sempre di più il
cristianesimo si aliena in una modalità sociale adattata al metro
delle esigenze umane meno degne, del conformismo, della conservazione
sterile, della ristrettezza di cuore e della paura di osare, come
pure al metro di un moralismo insignificante che cerca di adornare la
viltà e l'assicurazione individuale e con l'ornamento funereo delle
convenienze sociali. Gli uomini che veramente hanno sete di vita, che
disperatamente lottano per distinguere una qualche luce nel mistero
ermetico dell'esistenza umana, cioè gli uomini ai quali
primariamente e per eccellenza si rivolge il vangelo della salvezza,
ebbene tutti costoro rimangono inevitabilmente lontani dalla
convenzionalità sociale razionalmente organizzata del cristianesimo
stabilito.
In
questo clima odierno, per un gran numero di uomini, di cristiani,
l'ascesi anche solo come parola è alquanto incomprensibile. Se uno
parla di digiuno e di continenza e di volontaria limitazione dei
desideri individuali è sicuro che sarà accolto da ironia o da
un'aria di condiscendenza. Questo certamente non impedisce agli
uomini di avere le loro «convinzioni metafisiche», di credere ad un
qualche «essere superiore» o al «dolce Gesù» che ha insegnato
una meravigliosa morale.
Ma
la domanda è se servono le «convinzioni metafisiche» quando non
danno neppure minimamente una reale (non idealistica e astratta)
risposta al problema della morte, allo scandalo della dissoluzione
del corpo nella terra.
Questa
risposta si trova solo nella conoscenza donata dall'ascesi,
dall'impegno del nostro stesso corpo da resistere alla morte, dal
superamento dinamico dellanecrosi dell'uomo. E non una qualsiasi
ascesi ma quella che è conformazione all'esempio di Cristo che
volontariamente ha accettato la morte per dissolvere la morte,
«calpestando la morte con la morte». Ogni volontario morire
all'egocentrismo «contro natura» è abolizione dinamica della morte
e trionfo della vita nella persona. Perché l'uomo giunga finalmente
alla consegna fiduciosa del suo corpo, ultima roccaforte della morte,
nelle mani di Dio, nelle braccia della «terra del Signore» nella
pienezza della comunione dei santi.
Ch.
Yannaras, La libertà dell'ethos, pp. 115-116.
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