La
Famiglia di Gesù
Preghiera dalla Liturgia ambrosiana
Il
tuo unico Figlio, venendo ad assumere la nostra condizione di uomini,
volle far parte di una famiglia per esaltare la bellezza dell'ordine
da te creato e riportare la vita familiare alla dignità alta e pura
della sua origine.
Nella
casa di Nazareth regna l'amore coniugale intenso e casto; rifulge la
docile obbedienza del Figlio di Dio alla vergine Madre e a Giuseppe,
l'uomo giusto a lei sposo; e la concordia dei reciproci affetti
accompagna la vicenda di giorni operosi e sereni.
O
famiglia nascosta ai grandi della terra e alla fama del mondo, più
nobile per le sue virtù che non per la sua discendenza regale! In
essa, o Padre, hai collocato le arcane primizie della redenzione del
mondo.
Per
questo disegno di grazia, mentre guardiamo con venerazione e speranza
gli esempi della Santa Famiglia, eleviamo a te, o Padre, la nostra
lode di figli.
Introduzione
Rivolgendosi
ai fedeli di tutto il mondo raccolti in Piazza San Pietro nella
mattinata di domenica 29 dicembre 1991, festa della Santa Famiglia,
Giovanni Paolo II li invitava ad “entrare spiritualmente nella casa
di Nazareth per meditare sugli insegnamenti che da essa ci
provengono”.
Quale
l'importanza di questa visita?
“Il
Figlio di Dio, incarnandosi per la nostra salvezza, si è scelto una
famiglia, mostrandoci così che matrimonio e famiglia fanno parte del
disegno di salvezza e rivestono un ruolo singolare per il bene della
persona e della società umana”.
La
Liturgia ambrosiana ci ha tramandato una bella preghiera, che
riassume ed espone in modo chiaro e completo il disegno di grazia,
già presente nella bellezza dell'ordine della creazione e poi
restaurato con la redenzione. Tale disegno si rivela nel fatto che
l'unico Figlio di Dio “venendo ad assumere la nostra condizione di
uomini, volle far parte di una fàmiglia”, scegliendo di vivere
nella Casa di Nazareth.
In
quella singolare dimora, “nascosta ai grandi della terra e alla
fama del mondo”, la vita familiare è riportata “alla dignità
alta e pura della sua origine”. In essa Dio ha “collocato le
arcane primizie della redenzione del mondo”. Si tratta, infatti,
della Casa, dove tra “la Vergine Madre e Giuseppe, l'uomo giusto a
lei sposo”, “regna l'amore coniugale intenso e casto”; dove nel
Figlio di Dio “rifulge la docile obbedienza”; e dove “la
vicenda di giorni operosi e sereni” è accompagnata dalla
“concordia dei reciproci affetti”.
In
questa preghiera è perfettamente delineata la teologia della Santa
Famiglia, che nelle seguenti pagine cercherò di sviluppare alla luce
della Sacra Scrittura e del Magistero, particolarmente attento alle
difficoltà di tutte le famiglie, alle quali rivolge il pressante
invito di guardare “con venerazione e speranza gli esempi della
Santa Famiglia”.
Padre
Tarcisio Stramare, o.s.j.
Direttore
del Movimento Giuseppino
LA BELLEZZA DELL'ORDINE CREATO DA DIO
Il
riconoscimento della dignità dell'uomo è parte integrante del
cristianesimo. Citando ben dieci volte Sant'Agostino, San Tommaso
asserisce che uno dei fini dell'incarnazione è quello di mostrare
“quanto sia grande la dignità della natura umana”.
La
Genesi esprime questa verità, descrivendo Dio impegnato
direttamente nella creazione dell'uomo, definito "immagine di
Dio" (1, 26).
Giovanni
Paolo II, partendo dal concetto che l'uomo è l'unica creatura voluta
da Dio per se stessa e che, quale immagine divina, è la creatura che
maggiormente manifesta la sua sorgente, che è Dio-amore, considera
l'uomo nella sua caratteristica essenziale di dono, ossia di
segno visibile dell'Amore divino: “L'uomo appare al mondo visibile
come la più alta espressione del dono divino, perché porta in sé
l'interiore dimensione del dono. E con essa porta nel mondo la sua
particolare somiglianza con Dio, con la quale egli trascende e domina
anche la sua 'visibilità' nel mondo, la sua corporeità".
In
un Prefazio della Messa per gli sposi leggiamo parimenti:
“Nell'unione tra l'uomo e la donna, hai impresso un'immagine del
tuo amore”. Sacramento o segno del sommo Amore, l'uomo è
essenzialmente dono, caratteristica che egli manifesta quando non
rimane solo "non è bene che l'uomo sia solo", (Gn
2, 18), ossia quando "si dona", "esistendo 'con
qualcuno' e, ancora più profondamente e più completamente,
esistendo 'per qualcuno'. "Comunione delle persone significa
esistere in un reciproco 'per', in una relazione di reciproco dono".
In
questa prospettiva non deve meravigliare se è proprio il corpo
a far emergere, attraverso la sue differenze sessuali, la dimensione
di dono che gli è propria. “Il corpo, che esprime la femminilità
'per' la mascolinità e viceversa la mascolinità 'per' la
femminilità, manifesta la reciprocità e la comunione delle persone.
La esprime attraverso il dono come caratteristica fondamentale
dell'esistenza personale. Questo è il corpo: testimone della
creazione come di un dono fondamentale, quindi testimone dell'Amore
come sorgente, da cui è nato questo stesso donare".
Poiché
il dono è il segno dell'Amore, così anche il corpo, manifestando
nella sua struttura fisica e visibile la sua natura di dono, rivela
contemporaneamente il suo significato sacramentale dell'Amore di Dio.
"Il sacramento, come segno visibile, si costituisce con l'uomo
in quanto 'corpo', mediante la sua 'visibile' mascolinità e
femminilità.
Il
corpo, infatti, e soltanto esso, è capace di rendere visibile ciò
che è invisibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato
per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto
dall'eternità in Dio, e così esserne segno. L'uomo, mediante la sua
corporeità, la sua mascolinità e femminilità, diventa segno
sensibile dell'economia della Verità e dell'Amore, che ha la
sorgente in Dio stesso e che fu rivelata già nel mistero della
creazione".
Di
qui si comprende quali siano gli ideali ai quali la coppia deve
ispirarsi e il richiamo di Giovanni Paolo II al significato
"sponsale, del corpo, ossia alla sua capacità di esprimere
l'amore: "Quell'amore appunto nel quale l'uomo-persona diventa
dono e mediante questo dono attua il senso stesso del suo essere ed
esistere".
LA PERDITA DELLA LIBERTA' DEL DONO
Purtroppo
l'esperienza peccaminosa della conoscenza del bene e del male, che
l'uomo ha fatto non gli consente più di realizzare consentito di
realizzare in "piena libertà" il dono totale di sé e di
vivere la pienezza del comandamento dell'amore, ormai continuamente
minacciata dal dominio dell'uomo sulla donna (cfr. Gn 3, 16),
che comporta "il turbamento e la perdita della stabilità della
fondamentale eguaglianza e compromette l'autentica "communio
personarum".
Nella
misura in cui manca la pienezza della libertà,anche il dono perde il
suo significato di segno o sacramento dell'Amore. Un dono legato a
qualsiasi costrizione non è più dono, ma diventa ricompensa,
scambio, proprio interesse, egoismo, dominio, ecc. Il racconto
biblico del peccato originale sottolinea proprio la perdita della
piena libertà dalla costrizione del corpo e del sesso, ossia
della capacità del dono, quando fa notare che "si aprirono gli
occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono
foglie di fico e se ne fecero cinture" (Gn 3, 7; cfr. 2, 25); e
ancora, riguardo alla donna: "Verso tuo marito sarà il tuo
istinto, ma egli ti dominerà" (3, 16; cfr. 2, 23).
Poichè
il peccato originale ha compromesso la funzione sacramentale del
corpo, il suo significato "sponsale", l'uomo non è più in
grado di vivere pienamente il "dono di sé"" iscritto
nel progetto originale della creazione. Benché risanato, la ferita
del peccato originale lo ha reso vulnerabile. Nella Lettera alle
Famiglie, Giovanni Paolo II sottolinea "i pericoli che
indeboliscono o addirittura distruggono la sua unità e stabilità",
riferendosi esplicitamente all'egoismo del singolo e della coppia,
all'individualismo, alle "passioni dell'anima",
all'utilitarismo etico.
"Mediante
la concupiscenza, l'uomo tende ad appropriarsi di un altro essere
umano, che non è suo, ma che appartiene a Dio". Ne segue che
l'uomo non può più ritrovare se stesso nel dono totale di sé e
finisce, al contrario, col rendere l'altro "osso delle sue ossa,
carne della sua carne", (Gn 2, 23) non il termine del proprio
dono, ma l'oggetto delle proprie brame. Perdute col peccato
l'innocenza e la giustizia originarie, che scaturivano dalla grazia
contenuta nel mistero della creazione, è uscito, infatti,
dall'interno dell'uomo, dal cuore umano, quel misterioso dono
che consentiva ad entrambi, uomo e donna, di esistere nella reciproca
relazione del dono disinteressato di se stessi.
Appartiene,
allora, al mistero della redenzione restituire all'uomo la purezza di
cuore, ma non più allo stesso grado di quella originale, dal momento
che nel cuore restaurato dell'uomo è rimasta la concupiscenza,
che viene dal peccato e ad esso porta.
IL FIGLIO DI DIO ASSUME LA NOSTRA CONDIZIONE DI UOMINI
I
Vangeli, che sono la testimonianza della predicazione apostolica,
concedono largo spazio ai racconti della passione e della
risurrezione, ma evidentemente non hanno trascurato l'Incarnazione,
che ha in Giovanni il termine stesso che ne esprime il mistero: "Il
Verbo si fece carne" (1, 14). E' proprio attraverso la
realtà della carne, che Giovanni esperimenta il vangelo e,
quindi, può annunziarlo: "Quello che era da principio, quello
che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi,
quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo
della vita, noi lo annunciamo anche a voi"" (1 Gv 1, 13).
Nella
realtà della carne di Gesù, Giovanni e i discepoli hanno potuto
contemplare la gloria del Verbo: "Abbiamo contemplato la sua
gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre"
(1, 14; cfr. 2, 11; 11, 40).
San
Tommaso mette giustamente al centro delle opere divine
l'Incarnazione: "Tra le opere divine il mistero
dell'incarnazione supera al massimo la ragione: non si può trovare,
infatti, nulla, fatto divinamente, più mirabile, che il vero Dio, il
Figlio di Dio, sia diventato vero uomo".
L'incarnazione
è il miracolo dei miracoli, l'opera alla quale è orientata tutta la
creazione. La solenne proclamazione di Maria "Madre di Dio",
fatta dal Concilio Ecumenico Efesino, rientra in quest'ottica,
"perché Cristo, conforme alle Scritture, fosse riconosciuto, in
senso vero e proprio, figlio di Dio e figlio dell'uomo".
Il
Simbolo Niceno-Costantinopolitano è una dettagliata
proclamazione della divinità di Gesù e della sua umanità. La
persona divina del Verbo è discesa con la sua divinità per
ascendere con la nostra umanità. E' questa l'essenza del mistero
cristiano. "Poiché in lui la natura umana è stata assunta,
senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata
anche per conto di noi innalzata a una dignità sublime. Con
l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni
uomo. Ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha
agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da
Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile
a noi fuorché nel peccato".
La
Costituzione Gaudium et spes dedica una particolare attenzione
al tema "Verbo incarnato e la solidarietà umana": “Lo
stesso Verbo incarnato volle essere partecipe della solidarietà
umana. Prese parte alle nozze di Cana, entrò nella casa di Zaccheo,
mangiò con i pubblicani e i peccatori. Egli ha rivelato l'amore del
Padre e l'eccelsa vocazione degli uomini, rievocando gli aspetti più
ordinari della vita sociale e adoperando linguaggio e immagine della
vita di ogni giorno. Santificò le relazioni umane, innanzitutto
quelle familiari, dalle quali trae l'origine la vita sociale,
volontariamente sottomettendosi alle leggi della sua patria. Volle
condurre la vita di un lavoratore del suo tempo e della sua regione.
La
grande teologia si è soffermata a meditare sulla natura e gli
effetti dell'unione ipostatica in ordine alla redenzione, formulando
il principio: ciò che non è assunto, non è redento. Ciò significa
che la presenza e l'azione di Gesù non vanno intese solo come una
semplice condivisione della sorte umana, quasi come una solidarietà
morale finalizzata a confortare, consolare e orientare verso il bene,
in modo che seguissimo le sue orme (cfr. 1 Pt 2, 21; Mt 16, 24; Lc 14,
27).
La
venuta del Verbo di Dio nella carne non è simile a quella di un capo
di stato tra le sue truppe per sollevarne il morale o per trascinarle
con il proprio esempio.
Il
mistero della presenza e dell'opera di Gesù consiste, invece, nel
rigenerare (1 Pt 1, 323) l'uomo, nel rifare di lui la creatura nuova
secondo il volere di Dio (2 Cor 5, 17; Rm 6, 4; Gal 6, 15). Il Verbo
di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato (cf. Gv 1, ls.; 2
Cor 1, 15ss.; 1 Cor 8, 6; Eh 1, 3), ricrea ogni cosa incarnandosi
(cf. Rm 8, 29; Col 1, 18ss.; 3, 10), ossia riunendo la pienezza della
divinità e la nostra umanità nella sua persona (Col 2, 9ss.).
Nel
mistero del Verbo incarnato, uomo perfetto, viene restituita ai figli
di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi
a causa del peccato.
TUTTA LA VITA DI CRISTO E' MISTERO DI REDENZIONE
Le
riflessioni che abbiamo fatte finora sul mistero dell'incarnazione e
quanto ad esso si riferisce non sono un lungo preambolo al mistero
della redenzione, in quanto l'incarnazione coincide con la
redenzione stessa, ossia la redenzione è una specificazione
dell'incarnazione.
L'autore
della lettera agli Ebrei fa iniziare il sacerdozio della Nuova
Alleanza, secondo l'ordine di Melchisedech, con il primo istante del
concepimento di Cristo: "Entrando nel mondo, Cristo dice :Tu non
hai voluto né sacrificio né offerta, ma mi hai preparato un corpo.
Allora io ho detto: Ecco, io vengo- poiché di me sta scritto nel
rotolo del libro per fare, o Dio, la tua volontà. Così egli
abolisce il primo sacrificio per costituire quello nuovo. Mediante
quella volontà siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del
corpo di Gesù Cristo, una volta per sempre" (10, 510). San
Tommaso, partendo dal fatto che il Figlio di Dio è entrato nel mondo
mediante l'assunzione della natura umana, commenta così "di me
sta scritto nel rotolo del libro": Questo libro è Cristo,
quanto all'umana natura, nella quale sono state scritte le cose
necessarie alla salvezza dell'uomo". Cristo è redentore dal
concepimento alla risurrezione, all'ascensione e per sempre (cfr. Eb
7, 14; Rm 8, 34), in quanto, "seduto alla destra del Padre",
partecipa nella sua umanità all'onnipotenza salvifica della
SantissimaTrinità, che è la sorgente totale della redenzione umana.
Come
non si deve limitare il valore redentivo di Cristo alla morte,
neppure lo si deve limitare alla risurrezione, persino largamente
intesa, perché tutti i misteri della vita di Cristo, eventi e
parole, hanno esercitato un'efficacia salvifica, anche se in modo
diverso: meritorio, soddisfattorio, sacrificale, redentivo,
efficiente, esemplare.
Di
qui l'esigenza di "ripercorrere tutte le tappe della vita del
Salvatore per appropriarci dei frutti della Redenzione".
Questa
è la fede della Chiesa, espressa durante tutto l'anno liturgico, il
quale "non è una fredda e inerte rappresentazione di fatti che
appartengono al passato... Esso è, piuttosto, Cristo stesso, che
vive sempre nella sua Chiesa e che prosegue il cammino di immensa
misericordia da lui iniziato con pietoso consiglio in questa vita
mortale, quando passò beneficando allo scopo di mettere le anime
umane al contatto dei suoi misteri e farle vivere per essi; misteri
che sono perennemente presenti ed operanti, non nel modo incerto e
nebuloso del quale parlano alcuni recenti scrittori, ma perché, come
ci insegna la dottrina cattolica e secondo la sentenza dei Dottori
della Chiesa, sono esempi illustri di perfezione cristiana e fonte di
grazia divina per i meriti e l'intercessione del Redentore, e perché
perdurano in noi col loro effetto, essendo ognuno di essi, nel modo
consentaneo alla loro indole, la causa della nostra salvezza.
San
Tommaso spiega, infatti, che donare la grazia o lo Spirito Santo
conviene autoritativamente a Cristo in quanto Dio; conviene
tuttavia a Cristo in quanto uomo donare la grazia o lo Spirito Santo
strumentalmente, in quanto cioè la sua umanità fu strumento della
sua divinità. E così, in forza della divinità, le azioni umane di
Gesù furono per noi salutari, in quanto hanno causato in noi la
grazia sia in ragione del merito sia per una certa efficacia".
Poiché
l'incarnazione è l'unione della natura umana con la natura divina
della persona del Verbo-Figlio, unione che comporta la massima unità,
ne segue che, anche se alcune delle azioni di Cristo furono
salvifiche in speciale modo, come la morte e la risurrezione, non si
deve, tuttavia, togliere a tutte le altre azioni della vita di Gesù
la particolare efficacia che loro compete.
LE PRIMIZIE DELLA REDENZIONE DEL MONDO
Il
Concilio Vaticano II esprime efficacemente il mistero
dell'incarnazione dicendo: "Con l'Incarnazione il Figlio di Dio
si è unito in un certo modo a ogni uomo".
Il
Catechismo della Chiesa Cattolica commenta
opportunamente: "Siamo chiamati a formare una sola cosa con lui;
egli ci fa comunicare come membra del suo Corpo a ciò che ha vissuto
nella sua carne per noi e come nostro modello" (CCC 521).
E'
questa una bella definizione del Mistero, ossia della solidarietà
che, grazie all'umanità di Gesù, si è instaurata tra Dio e noi:
"Dio si è fatto uomo, affinché noi diventassimo dèi"; è
il "meraviglioso scambio" del divino con l'umano, celebrato
nella Liturgia del Natale.
Poiché
questo scambio si realizza già al momento dell'Annunciazione, il
concepimento di Gesù costituisce l'inizio di quella Redenzione, che
egli porterà a compimento durante tutta la sua vita: "Per
questo appunto Cristo è passato attraverso tutte le età della vita,
restituendo con ciò a tutti gli uomini la comunione con Dio".
E' necessario, allora, che sulla stessa linea dei Misteri della vita
pubblica di Gesù vengano collocati anche i Misteri dell'infanzia di
Gesù e quelli della sua vita nascosta.
La
recente accentuazione del mistero pasquale, da una parte, e
soprattutto la "critica" che ha investito i cosiddetti
"Vangeli dell'infanzia", dall'altra parte, non hanno
certamente favorito lo sviluppo della teologia dei Misteri loro
propri, non meno salvifici degli altri: Tutta la vita di Cristo è
Mistero di Redenzione. La Redenzione è frutto innanzitutto del
sangue della croce (cf. Ef 1, 7; Col 1, 13s.; 1 Pt 1, 18s.), ma
questo Mistero opera nell'intera vita di Cristo: già nella sua
Incarnazione, per la quale, facendosi povero, ci ha arricchiti con la
sua povertà (cf. 2 Cor 8, 9); nella sua vita nascosta che, con la
sua sottomissione (cf. Lc 2, 51), ripara la nostra
insubordinazione...".
Significativo
è il titolo della I parte del paragrafo 3 del Catechismo della
Chiesa Cattolica "Tutta la vita di Cristo è Mistero"
(CCC, 514), come pure le affermazioni "Tutta la vita di Cristo è
Rivelazione del Padre" (CCC, 516), "Tutta la vita di Cristo
è Mistero di Redenzione" (CCC, 517) e "Tutta la vita di
Cristo è Mistero di Ricapitolazione" (CCC, 518).
Si
tratta di affermazioni che vanno prese in tutta l'ampiezza della loro
espressione, dal momento che "Cristo non ha vissuto la sua vita
per sé, ma per noi, dalla sua Incarnazione per noi uomini e per la
nostra salvezza fino alla sua morte 'per i nostri peccati' (1 Cor 15,
3) e alla sua Risurrezione 'per la nostra giustificazione' (Rom 4,
25)" (CCC, 519).
Tutto
questo è legato all'Incarnazione. La particolare evidenza
propria di alcune azioni della vita di Gesù non deve detrarre valore
alle altre sue azioni, in particolare a quelle della sua vita
nascosta, ugualmente salvifiche.
Le
parole e le azioni di Gesù nel tempo della sua vita nascosta e del
suo ministero pubblico erano già salvifiche. Esse anticipavano la
potenza del suo Mistero pasquale. Annunziavano e preparavano ciò che
egli avrebbe donato alla Chiesa quando tutto fosse stato compiuto. I
misteri della vita di Cristo costituiscono i fondamenti di ciò che,
ora, Cristo dispensa nei sacramenti mediante i ministri della sua
Chiesa, poiché 'ciò che era visibile nel nostro Salvatore è
passato nei suoi misteri' (CCC, 1115). "Avendo conosciuto, nella
fede, chi è Gesù, (gli apostoli) hanno potuto scorgere e fare
scorgere in tutta la sua vita terrena le tracce del suo Mistero.
Dalle fasce della sua nascita (cf. Lc 2, 7), fino all'aceto della sua
passione (cf. Mt 27, 48) e al sudario della Risurrezione (cf. Gv 20,
7), tutto nella vita di Gesù è segno del suo Mistero. Attraverso i
suoi gesti, i suoi miracoli, le sue parole, è stato rivelato che 'in
lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità' (Col 2,
9). In tal modo la sua umanità appare come 'il sacramento', cioè il
segno e lo strumento della sua divinità e della salvezza che egli
reca: ciò che era visibile nella sua vita terrena condusse al
Mistero invisibile della sua filiazione divina e della sua missione
redentrice" (CCC, 515).
GESU' VOLLE FAR PARTE DI UNA FAMIGLIA
Poiché
il Figlio dell'uomo è entrato nella storia degli uomini attraverso
la famiglia, come non vedere in ciò uno straordinario significato?
Tale assunzione, d'altra parte, era richiesta dalla realtà stessa
dell'Incarnazione. Quando l'evangelista Giovanni afferma che "Il
Verbo si è fatto carne (1, 14), egli non intende esprimere
semplicemente lo stato di umiliazione derivata a Gesù dal fatto di
essere diventato uno di noi, aspetto certamente ricco di significato,
come evidenziato da Paolo (Fil 2, 27), ma sottolineare che egli ha
visto, udito, toccato (cf. Gv 1, 15; 1 Gv 1, 13), azioni che indicano
chiaramente un'esperienza storica, concreta. E' proprio la realtà
della carne di Gesù che suppone e richiede la maternità di Maria,
ampiamente descritta da Luca e Matteo ed espressamente professata nel
Credo (et incarnatus est de Maria Virgine), e di conseguenza anche la
paternità umana, ovviamente nei limiti del dogma del concepimento
verginale, postulato dalla preesistenza della Persona incarnata: "La
maternità implica necessariamente la paternità e, reciprocamente,
la paternità implica necessariamente la maternità: è il frutto
della dualità, elargita dal Creatore all'essere umano 'dal
principio'".
La
famiglia è infatti una "via comune..., una via dalla quale
l'essere umano non può distaccarsi. In effetti, egli viene al mondo
normalmente all'interno di una famiglia, per cui si può dire che
deve ad essa il fatto stesso di esistere come uomo. Quando manca la
famiglia, viene a crearsi nella persona che entra nel mondo una
preoccupante e dolorosa carenza che peserà, in seguito, per tutta la
vita". Questa evidente costatazione, legata alla comune
esperienza circa l'importanza "unica e irripetibile" della
famiglia per ogni uomo, ci aiuta a comprendere l'esigenza della sua
assunzione nell'economia della salvezza.
Giovanni
Paolo II lo sottolinea con un "dunque"": "il
mistero divino dell'Incarnazione del Verbo è dunque, in stretto
rapporto con la famiglia umana". Infatti, poiché "con
l'Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni
uomo... si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile fuorché
nel peccato, ciò è avvenuto proprio "a cominciare dalla
famiglia, nella quale egli ha scelto di nascere e di crescere":
"il Figlio unigenito, consostanziale al Padre, 'Dio da Dio
e Luce da Luce', è entrato nella storia degli uomini attraverso la
famiglia".
Ne
segue che l'Incarnazione del Verbo non comporta il rapporto "soltanto
con una famiglia, quella di Nazareth, ma in qualche modo con ogni
famiglia", dal momento che, come già detto, il Figlio di Dio
nell'Incarnazione "si è unito in certo modo ad ogni uomo".
La
presenza di Gesù alle nozze di Cana, dove egli rivela la sua gloria
(Gv 2, 1-11), dimostra "quanto la verità della famiglia sia
inscritta nella Rivelazione di Dio e nella storia della salvezza".
Gesù
si è fatto "araldo della verità divina sul matrimonio",
annunciando questa verità appunto "con la sua presenza e con il
compimento del suo primo 'segno': l'acqua cambiata in vino".
La
portata di questa verità deve essere enorme, se Gesù, prima
ancora di farsene araldo, ha voluto viverla come membro di una
famiglia: ha voluto nascere nel matrimonio, anche se non dal
matrimonio, di Maria e Giuseppe: nel pieno rispetto del comandamento
"onora tuo padre e tua madre", Gesù ha accettato di essere
educato nella più perfetta obbedienza (cfr. Lc 2, 51) da Maria e
Giuseppe, designati nel vangelo proprio con il titolo onorifico di
""genitori"" (Lc 2, 27.33.41).
LA BENEDIZIONE MAI CANCELLATA
Cristo,
il Verbo di Dio incarnato, disceso dal cielo per riportare al
progetto iniziale l'opera divina, deturpata dal peccato, ne inizia il
restauro incominciando proprio dalla coppia, che rimane pur sempre
nel creato l'immagine dell'amore di Dio.
La
liturgia nuziale ripete giustamente che "la prima comunità, la
famiglia, riceve in dono quella benedizione che nulla poté
cancellare, né la pena del peccato originale, né del castigo del
diluvio".
Poiché
nell'opera della creazione l'unione matrimoniale è, attraverso il
dono sponsale di sé, il segno o sacramento dell'Amore divino,
l'opera redentrice di Gesù deve iniziare proprio dal matrimonio, il
quale rimane così la privilegiata analogia per esprimere la nuova ed
eterna alleanza, che egli instaura con l'umanità attraverso il dono
sponsale di sé alla sua Chiesa. L'amore del marito per la moglie è
scelto espressamente per rappresentare l'amore di Cristo per la
Chiesa (cfr. Ef 5, 2233). Il comportamento oblativo di Cristo ("ha
amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei", v. 25) è in
stretto riferimento al progetto originario: "Per questo l'uomo
lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due
formeranno una carne sola" (v. 31). La carità totale, nella
quale il redento deve camminare, "nel modo che anche Cristo vi
ha amato e ha dato se stesso per voi, offrendosi a Dio in sacrificio
di soave odore" (Ef 5, 2), ha la sua manifestazione ufficiale
nel matrimonio, segno del "mistero grande": "lo dico
in riferimento a Cristo e alla Chiesa" (v. 32).
Questi
accenni al significato del matrimonio aiutano a comprendere
l'importanza del vero matrimonio di Maria con Giuseppe e la sua
collocazione all'inizio dell'opera della salvezza.
L'intima
relazione del matrimonio di Maria e Giuseppe con l'umanità di Gesù,
strumento efficace della divinità in ordine alla santificazione
degli uomini, e, inoltre, il significato che il matrimonio stesso ha
nell'ordine e nella finalità della creazione fanno sì che proprio
questo matrimonio sia la prima opera della salvezza, come troviamo
esplicitamente affermato dai Sommi Pontefici: "In questa grande
impresa del rinnovamento di tutte le cose in Cristo, il matrimonio,
anch'esso purificato e rinnovato, diviene una realtà nuova, un
sacramento della nuova Alleanza. Ed ecco che alle soglie ciel Nuovo
Testamento, come già all'inizio dell'Antico, c'è una coppia. Ma,
mentre quella di Adamo ed Eva era stata sorgente del male che ha
inondato il mondo, quella di Giuseppe e di Maria costituisce il
vertice, dal quale la santità si espande su tutta la terra. Il
Salvatore ha iniziato l'opera della salvezza con questa unione
verginale e santa, nella quale si manifesta la sua onnipotente
volontà di purificare e santificare la famiglia, questo santuario
dell'amore e questa culla della vita".
A
chi sembrasse nuova questa dottrina si potrebbe ricordare che il
collegamento esplicito della società familiare e della Famiglia di
Nazareth con l'inizio della creazione è già presente nella Lettera
apostolica Neminem fugit. "Dio misericordioso, avendo decretato
di compiere l'opera della riparazione umana aspettata a lungo da
secoli, dispose il modo e l'ordinamento della stessa opera in maniera
che gli stessi suoi primi inizi mostrassero al mondo l'augusto ideale
della famiglia divinamente costituita, in cui tutti gli uomini
vedessero un assolutissimo esemplare della società domestica e di
ogni virtù e santità. Tale fu davvero quella Famiglia Nazaretana,
nella quale era nascosto il Sole di giustizia prima che risplendesse
in piena luce a tutte le genti: e cioè Cristo Dio Salvatore nostro
con la Vergine Madre e Giuseppe Sposo santissimo, che svolgeva il
compito di padre verso Gesù".
LA COPPIA CHE RINNOVA
LA STORIA DEL “BELL AMORE”
Poiché
l'uomo e la donna, "creati come unità dei due" nella
comune umanità, sono chiamati a vivere una comunione d'amore e in
tal modo a rispecchiare nel inondo la comunione d'amore che è in
Dio, per la quale le tre Persone si amano nell'intimo mistero
dell'unica vita divina, il matrimonio di Maria e Giuseppe ha
certamente rispecchiato più e meglio di ogni altro la comunione
d'amore che è in Dio, tenuto conto che esso è stato voluto e
predisposto da Dio stesso per l'inserimento ordinato nel mondo del
Verbo, per opera dello Spirito Santo.
Il
matrimonio di Maria e Giuseppe si presenta, dunque, come l'immagine
perfetta dell'amore creatore e redentore di Dio. I due santi sposi
hanno vissuto veramente il loro matrimonio come puro "dono
sponsale", con quella piena libertà" che proveniva loro
dalla grazia divina abbondantemente presente e operante nel suo
strumento "congiunto" dell'umanità di Gesù. Il dono
disinteressato di sé fatto da Giuseppe a Maria è espresso
lapidariamente da Matteo nella frase: "Non la conobbe" (1,
25)". Queste parole indicano un'altra vicinanza sponsale",
commenta altrettanto sobriamente ma efficacemente Giovanni Paolo II.
Il
vero amore consiste proprio nel cooperare a realizzare nella persona
amata il progetto di Dio, che nel caso di Maria riguardava la
maternità divina. Legati al mistero dell'incarnazione a tal punto di
essere chiamati da Luca "i genitori di Gesù" (2, 41),
Maria e Giuseppe sono veramente nel creato il segno o sacramento
della nuova umanità redenta da Gesù Cristo. Con al centro Gesù, il
rigeneratore dell'umanità, Maria e Giuseppe formano quella che
opportunamente è stata dichiarata la "trinità terrena";
attraverso Gesù, concepito per opera dello Spirito Santo e immagine
perfetta del Padre, questa "trinità terrena" si unisce
mirabilmente alla "Trinità celeste", formandone
l'irradiazione e il riflesso.
Questa
dottrina è lo sviluppo del pensiero di Giovanni Paolo II: Nel
momento culminante della storia della salvezza, quando Dio rivela il
suo amore per l'umanità mediante il dono del Verbo, è proprio il
matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena 'libertà' il
dono sponsale di sé nell'accogliere ed esprimere un tale amore.
Il
matrimonio di Maria e Giuseppe va riconosciuto come quello che unico
realizza la dimensione originaria ed esemplare del mistero della
creazione. Nella piena consapevolezza di essere voluti dal Creatore
ciascuno di loro per se stesso ed entrambi per Cristo, essi hanno
pienamente ritrovato se stessi nel dono disinteressato di sé. Quello
che per la prima coppia era rimasto solamente un ideale, in Giuseppe
e Maria è, infatti, divenuto realtà.
Se
la grazia della creazione, la quale attraverso l'innocenza, che è lo
stato di natura integra, frutto di santità e di giustizia, rendeva
impossibile ai due protagonisti dell'Eden di ridursi reciprocamente a
mero oggetto uno dell'altro e, quindi, consentiva loro di vivere la
prima festa dell'umanità in tutta la sua pienezza originaria e di
esperimentare serenamente il significato sponsale del corpo, possiamo
ritenere che questa stessa festa è stata rivissuta agli albori della
redenzione nella comunione sponsale di Maria e Giuseppe. Arricchiti
di tutti quei doni celesti richiesti dalla singolare missione di
"genitori" del Figlio di Dio incarnato, Giuseppe e Maria
sono stati e rimangono per l'umanità il rinnovato "sacramento"
dell'Amore originario, che è puro e disinteressato dono di sé.
Il
matrimonio di Maria e Giuseppe rinnova la storia del "bell'amore"
iniziata con la prima coppia umana, con Adamo ed Eva. Cristo non
viene a condannare il primo Adamo e la prima Eva, ma a redimerli;
viene a rinnovare ciò che nell'uomo è dono di Dio, quanto in lui è
eternamente buono e bello e costituisce il substrato del bell'amore".
Ebbene,
Maria e Giuseppe, alle soglie della Nuova Alleanza, "ricevono
l'esperienza del 'bell'amore' descritto nel Cantico dei Cantici.
Giuseppe pensa e dice di Maria: 'Sorella mia, Sposa' (cfr. Ct 4, 9)".
LA GENEALOGIA TRASCENDENTE DELLA PERSONA
Le
genealogie di Gesù riportate dagli evangelisti, e in particolare
quella di Matteo, hanno lo scopo di collegare la nascita di Gesù,
nonostante il suo concepimento verginale, con la casa e la famiglia
di Davide, condizione indispensabile per il suo riconoscimento come
Cristo (cfr. Gv 7, 42), secondo le attese dell'Antico Testamento (cfr.
2 Sam 7). E' proprio dalla validità del matrimonio di Maria e
Giuseppe, che giuridicamente "dipende la paternità di Giuseppe.
Di qui si comprende perché le generazioni sono state elencate
secondo la genealogia di Giuseppe... Il figlio di Maria è anche
figlio di Giuseppe in forza del vincolo matrimoniale che li unisce".
Gli
evangelisti chiamano Giuseppe sposo di Maria (Mt 1, 16.19; Lc 2, 5) e
Maria sposa di Giuseppe (Mt 1, 18.20; Lc l, 27; 2, 5); li qualificano
come "genitori" (Lc 2, 41), anzi espressamente come "suo
padre e sua madre" (v. 33). Maria non esita a dire: "Tuo
padre ed io" (v. 48); Gesù li riconosce tali, prestando loro
obbedienza: "Era loro sottomesso" (v. 51), tanto da essere
considerato, oltre che figlio di Maria, anche figlio di Giuseppe (cf.
LC 3, 23; 4, 22; Mt 13, 55; Gv 6, 42).
La
genealogia di Gesù non deve essere insignificante se, nonostante
l'evidente esclusione di Giuseppe dalla generazione di Gesù, essa è,
tuttavia, presente ben due volte nei Vangeli (Mt 1, 117; LC 3, 2338).
La
presenza di Giuseppe nella genealogia di Gesù si rivela
giuridicamente indispensabile per la filiazione davidica di Gesù,
dalla quale dipende il riconoscimento della sua qualifica di Cristo:
l'Antico Testamento, infatti, non viene annullato dal Nuovo, perché
Dio rimane fedele alle sue promesse. La presenza di Giuseppe è
richiesta, tuttavia, soprattutto dall'incarnazione stessa, ossia
dalla realtà della "carne" di Gesù, ben sapendo che, il
Figlio unigenito, consostanziale al Padre, 'Dio da Dio e Luce da
Luce', essendosi "fatto veramente uno di noi, in tutto simile a
noi fuorché nel peccato è entrato nella storia degli uomini
attraverso la famiglia". Si tratta di una via dalla quale
l'essere umano non può distaccarsi".
E'
infatti, "con la famiglia, che si collega la genealogia di ogni
uomo: la genealogia della persona. La paternità e la maternità
umane sono radicate nella biologia e allo stesso tempo la superano".
La riflessione sulla genealogia, essendo nuova e caratteristica della
Lettera alle Famiglie, è importante. Poiché "la generazione è
la continuazione della creazione e "soltanto da Dio può
provenire quella 'immagine e somiglianza' che è propria dell'essere
umano, così come è avvenuto nella creazione, ne segue che "nella
paternità e maternità umane Dio è presente in modo diverso da come
avviene in ogni altra generazione sulla terra". Ciò perché,
anche se dal "Padre di ogni paternità (e ogni maternità) nei
cieli e sulla terra prende nome" (Ef 3, 15) e, quindi, "ogni
generazione trova il suo modello originario nella Paternità di Dio",
l'uomo, tuttavia, "porta con sé al mondo una particolare
immagine e somiglianza di Dio stesso: nella biologia della
generazione è inscritta la genealogia della persona. "Per la
sua stessa genealogia, la persona, creata ad immagine e somiglianza
di Dio, proprio partecipando alla Vita di Lui, esiste per se stessa e
si realizza". "La genealogia della persona è pertanto
unita innanzitutto con l'eternità di Dio, e solo dopo con la
paternità e maternità umana che si attuano nel tempo". Se
questo vale per "ogni uomo", la cui "genesi non
risponde soltanto alle leggi della biologia, bensì direttamente alla
volontà creatrice di Dio", vale in modo particolare per Gesù,
come evidenzia Luca, che da Giuseppe fa risalire la genealogia di
Gesù fino ad Adamo e poi proprio fino a Dio (3, 38).
L'IMMAGINE DELLO SPOSO E DELLA SPOSA
L'uomo,
benché redento, porta in sé le cicatrici del peccato originale e
non possiede più la piena libertà del dono; egli ha perduto
l'innocenza interiore come 'purezza di cuore', che, in un certo modo,
rendeva impossibile che l'uno venisse comunque ridotto dall'altro a
livello di mero oggetto". Di qui il pericolo per l'amore di
amicizia, che dovrebbe raggiungere la sua massima espressione proprio
nell'unione coniugale, di trovarsi sostituito dall'amore di
concupiscenza, che è la ricerca, da parte della coppia, dell'utile e
del dilettevole. E' facile comprendere come l'egoismo si contrapponga
direttamente al dono sponsale di sé, che è caratteristico del
matrimonio, in quanto sacramento o segno dell'Amore divino.
Nell'Esortazione
apostolica Redemptoris custos Giovanni Paolo Il scrive che ""nel
momento culminante della storia della salvezza, quando Dio rivela il
suo amore per l'umanità mediante il dono del Verbo, è proprio il
matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena 'libertà' il
'dono sponsale di sé' nell'accogliere ed esprimere un tale amore"
(nr. 7).
Il
matrimonio di Maria e Giuseppe, infatti, non è solo la cornice
dell'incarnazione, la semplice struttura storica e culturale nella
quale si è voluto inserire il Verbo fatto uomo, ma costituisce parte
integrante del mistero dell'incarnazione ed è esso stesso mistero,
sia in quanto condizione richiesta per la realizzazione del disegno
divino, sia in quanto fondamentale realtà umana, assunta per essere
purificata e santificata.
Inserita
direttamente nel mistero dell'incarnazione, la famiglia di Nazareth
costituisce essa stessa uno speciale mistero. E' contenuta in ciò
una conseguenza dell'unione ipostatica: umanità assunta nell'unità
della Persona divina del Verbo-Figlio, Gesù Cristo. Insieme con
l'assunzione dell'umanità in Cristo è anche assunto tutto ciò che
è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della
sua esistenza in terra".
Poiché
il momento storico dell'Incarnazione coincide con il nuovo
"principio", con la ricreazione dell'umanità, che
raggiunge la sua più intima unione con Dio per mezzo di Gesù, Verbo
incarnato, Giovanni Paolo II conclude coerentemente che "è
nella Santa Famiglia, in questa originaria 'Chiesa domestica', che
tutte le famiglie cristiane debbono rispecchiarsi. In essa, infatti,
'per un misterioso disegno di Dio è vissuto nascosto per lunghi anni
il Figlio di Dio: essa, dunque, è il prototipo e l'esempio di tutte
le famiglie cristiane'". Ne segue che la realtà del matrimonio
e della famiglia entra nell'ambito del "grande mistero, in
riferimento a Cristo e alla Chiesa (Ef 5, 52), attraverso i santi
sposi Maria e Giuseppe, come espressamente ammesso da San Tommaso,
che cita Sant'Agostino: Tale matrimonio è simbolo della Chiesa
universale, la quale, pur essendo vergine, è tuttavia sposata a
Cristo, suo unico sposo".
La
Chiesa insegna che Maria è l'Immacolata Concezione. Ciò vuol dire
che Maria è la creatura perfetta, integra, che riproduce
perfettamente l'innocenza e la giustizia originale, ossia la creatura
nella quale si riflette chiaramente l'immagine di Dio. Tuttavia,
Maria da sola non esaurisce totalmente il ruolo umano di essere
l'immagine di Dio, poiché Dio ha creato l'uomo "maschio e
femmina". E' vero che Gesù, come uomo, risponderebbe certamente
allo scopo, ma si deve giustamente obiettare che Gesù non è solo
uomo, ma è uomo-Dio. D'altra parte, Gesù non si è mai sposato e
quanto Paolo (cfr. Ef 5) e l'Apocalisse (cc. 2122) affermano di Cristo
e della Chiesa, si riferisce al "mistero", il quale deve
necessariamente rivelarsi in una realtà visibile, ossia in un segno
"storico". Bisogna dunque, trovare un uomo, che completi
con Maria, sul piano della creazione umana redenta, l'immagine di
Dio. Ebbene, questo uomo singolare si chiama Giuseppe, "il
giusto" scelto da Dio stesso per essere unito a Maria con il
vincolo matrimoniale.
La
Redemptoris custos lo indica chiaramente: L'uomo 'giusto' di
Nazareth possiede soprattutto le caratteristiche dello sposo.
L'evangelista parla soprattutto di Maria come di una vergine, sposa
di un uomo... chiamato Giuseppe (Lc 1, 27). Prima che cominci a
compiersi 'il mistero nascosto da secoli' (Ef 3, 9), i vangeli
pongono dinanzi a noi l'immagine dello sposo e della sposa.
IL SACRO VINCOLO DI CARITA'
Poiché
la maternità e la paternità debbono attuarsi nell'istituzione del
matrimonio, che solo garantisce la legittimità, l'accoglienza e
l'educazione della prole, la sua esistenza è espressamente
notificata dagli evangelisti, che qualificano Giuseppe "sposo"
di Maria (Mt 1, 16.19) e Maria "sposa" di Giuseppe (Mt 1,
20.2; Lc 1, 27; 2, 5). Che non si tratti di un dettaglio
insignificante lo si deduce dalla grave affermazione di Giovanni
Paolo II: "Anche per la Chiesa, se è importante professare il
concepimento verginale di Gesù, non è meno importante difendere il
matrimonio di Maria con Giuseppe, perché giuridicamente è da esso
che dipende la paternità di Giuseppe. Di lui di comprende perché le
generazioni sono state elencate secondo la genealogia di Giuseppe".
Dal
momento che una buona parte degli equivoci nasce proprio da una
conoscenza solo approssimativa della dottrina riguardante l'essenza o
natura del matrimonio, è opportuno richiamare qui il pensiero di San
Tommaso: Il matrimonio o 'coniugio' si dice vero in quanto raggiunge
la sua perfezione.
Ma
una cosa può avere due perfezioni: la prima perfezione consiste
nell'essenza stessa della cosa, dalla quale ottiene la sua
perfezione; la seconda perfezione consiste nel suo agire, per cui la
cosa raggiunge il suo fine. Ora l'essenza del matrimonio consiste
nell'indivisibile unione degli animi, che obbliga ciascuno dei
coniugi a mantenersi perpetuamente fedele all'altro. Il fine poi del
matrimonio è la generazione e l'educazione della prole: la
generazione si ottiene mediante l'unione sessuale; l'educazione
mediante quell'aiuto reciproco che marito e moglie si prestano per
allevare la prole. Ebbene, riguardo alla prima perfezione, il
matrimonio tra la Vergine Madre di Dio e San Giuseppe fu verissimo,
perché entrambi acconsentirono all'unione coniugale; non
acconsentirono, invece, all'unione sessuale, se non sotto condizione:
se Dio vuole. Quanto alla seconda perfezione, invece, che dipende
dagli atti propri del matrimonio, se ci riferiamo all'unione
sessuale, che genera la prole, quel matrimonio non fu consumato. Quel
matrimonio ebbe, tuttavia, anche la seconda perfezione, per quanto
riguarda l'educazione della prole".
Nella
preghiera di Leone XIII, "A te, o beato Giuseppe", il
matrimonio di Maria e Giuseppe è detto "sacro vincolo di
carità", definizione non comune, ma teologicamente esatta, di
un vincolo, la cui natura è costantemente collocata da Sant'Agostino
e da San Tommaso "nell'indivisibile unione degli animi,
nell'unione dei cuori, nel consenso, elementi che in quel matrimonio
si sono manifestati in modo esemplare". E' un'esemplarità
irripetibile, è vero, ma altrettanto fondamentale. Infatti, è
proprio questa "indivisibile unione degli animi" che
bisogna tenere costantemente presente non solo per risolvere le
obiezioni che possono sorgere contro la verità del matrimonio, ma
anche e soprattutto per comprendere il coraggio della Chiesa di
mettere sul piedistallo proprio il matrimonio di Maria e Giuseppe,
nel quale appunto i due protagonisti hanno saputo vivere
integralmente l'esperienza del dono, scambiandosi il dono sincero
della propria persona e vivendo in modo singolare, in tutta la sua
pienezza, la stessa libertà del dono, che sta alla base del
significato sponsale del corpo, ossia la capacità di esprimere
l'amore. E' proprio perché Giuseppe ha fatto il dono sponsale di sé
a Maria, che egli è tanto disposto a privarsi di lei, lasciandole la
sua libertà (cfr. Mt 1, 19), come in un primo momento gli era
sembrato che richiedesse la maternità divina, quanto a tenerla con
sé, nel pieno rispetto della sua esclusiva appartenenza a Dio, come
di fatto egli fece dopo aver conosciuto la propria vocazione:
"trattenne la sua sposa e non la conobbe" (cfr Mt 1, 24s),
parole che indicano "un'altra vicinanza sponsale" .
L'ESPRESSIONE PIU' ALTA DEL GRANDE MISTERO
Considerando
il matrimonio in quanto sacramento, San Tommaso afferma che "benché
il matrimonio non conformi alla passione di Cristo per quanto
riguarda la pena, tuttavia conforma ad essa per quanto riguarda la
'carità', a motivo della quale Cristo soffrì per unire a sé la
Chiesa come sposa". Se ci chiediamo in quale matrimonio più e
meglio risplenda la carità, il matrimonio di Maria e Giuseppe si
presenta come il modello più perfetto. Nessun matrimonio è stato,
quanto il loro, specchio, riflesso, sacramento della carità più
altruista e disinteressata. Essi hanno veramente vissuto il loro
matrimonio come puro "dono sponsale" e sono degni, perciò,
è San Tommaso stesso che lo dice di rappresentare il mistero della
Chiesa: "Fu conveniente che la Madre di Dio fosse unita in
matrimonio... per significare la Chiesa, che è vergine e sposa".
Tra
le ragioni, che l'Angelico aveva addotte per la nascita di Cristo da
una vergine sposata, troviamo lo stesso argomento ecclesiologico:
"Tale matrimonio è simbolo della Chiesa universale, la quale,
pur essendo vergine, è tuttavia sposata a Cristo, suo unico sposo".
In
quest'ottica verginità e matrimonio non si oppongono, come ancora
San Tommaso fa notare nello stesso testo: "Per il fatto che la
Madre del Signore fu sposata e vergine, nella sua persona vengono
onorati e la verginità e il matrimonio". Proprio
nell'Esortazione apostolica Familiaris consortio incontriamo questa
affermazione: "La verginità e il celibato per il Regno di Dio
non solo non contraddicono alla dignità del matrimonio, ma la
presuppongono e la confermano. Il matrimonio e la verginità sono i
due modi di esprimere e di vivere l'unico mistero dell'Alleanza di
Dio con il suo popolo" (nr. 1).
Il
matrimonio di Maria e Giuseppe è il luogo storico e teologico, dove
si è pienamente realizzato e manifestato che la verginità non solo
non si contrappone al matrimonio, ma anzi che essa è posta al suo
servizio, pur in gradi diversi, come indispensabile presupposto e
requisito.
Mentre,
da una parte, San Paolo nella Lettera agli Efesini considera la
ricostituita e perfetta "unità dei due" in relazione a
Cristo e alla Chiesa (relazione che egli definisce "mistero"
5, 32), San Tommaso, da un'altra parte, ribadisce che è proprio nel
matrimonio di Maria e Giuseppe che tale "mistero" ha il suo
riferimento "storico": "Tale matrimonio è simbolo
della Chiesa universale, la quale, pur essendo vergine, è tuttavia
sposata a Cristo, suo unico sposo". Di qui la ragionevole attesa
nei riguardi della Liturgia perché lo esprime adeguatamente il dono
di sé fatto da Gesù alla Chiesa trova, infatti, una chiara
prefigurazione in Giuseppe, lo sposo storico che ha fatto il dono
totale di sé alla propria sposa, circondandola di tutto quel
rispetto, che il piano di Dio richiedeva riguardo a lei.
Giuseppe
ha amato Maria proprio "per se stessa", consentendole,
attraverso il "dono di se stesso" fino al sacrificio, di
raggiungere la perfezione della sua soggettività personale. "Se
crediamo che Adamo abbia grandemente amato la donna, che Dio aveva
formato con la sua costola, poiché disse: 'Per questo l'uomo lascerà
il padre e la madre e si unirà alla sua donna e saranno due in una
sola carne' (Gn 2, 24), quanto più si deve credere che Giuseppe
abbia amato la Beata Vergine, essi che erano prefigurati in quel
sacramento? Infatti il connubio dei primi parenti e il matrimonio
della Vergine e di San Giuseppe prefigurarono l'unione indissolubile
della madre Chiesa, dicendo l'Apostolo (Ef 5, 32): 'Questo sacramento
è grande: lo dico, in Cristo e nella Chiesa' Che cosa, chiedo, ci
può essere di maggiore amore che il vincolo, o potrebbe essere più
unito che la santissima famiglia di Giuseppe e Maria, che Gesù amore
eterno istituì, custodì con la propria presenza, accrebbe e
perfezionò?... Questo è quell'amore divino, questa la suprema
carità, che unica diede al mondo il vero Dio, lo nutrì e vestì. A
motivo di questo amore lo stesso Dio volle essere detto e considerato
vero figlio di questo sacratissimo matrimonio".
LO SPOSO DI MARIA
Alla
luce della testimonianza evangelica, Giovanni Paolo II afferma la
singolare partecipazione di San Giuseppe al mistero dell'incarnazione
del Verbo: Proprio a questo mistero Giuseppe di Nazareth 'partecipò'
come nessun'altra persona umana, ad eccezione di Maria, la Madre del
Verbo Incarnato. Egli vi partecipò insieme con lei, coinvolto nella
realtà dello stesso evento salvifico, e fu depositario dello stesso
amore, per la cui potenza l'eterno Padre 'ci ha predestinati ad
essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo' (Ef 1, 5)".
E'
certamente importante notare come il Sommo Pontefice sottolinea la
"partecipazione"" di Giuseppe allo "stesso
mistero salvifico" e "allo stesso amore", perché
questa sua duplice presenza è fondamentale per comprendere
l'importanza della sua figura e della sua missione; è, tuttavia, da
evidenziare anche la collocazione riconosciuta a San Giuseppe in
questa "partecipazione": "vi partecipò insieme con
Maria. Se, da una parte la maternità di Maria non dipende da
Giuseppe, perché opera dello Spirito Santo (cfr. Mt 1,18), essa, da
un'altra parte, non può neppure essere disgiunta da lui: "Esiste
una stretta analogia tra 'l'annunciazione' del testo di Matteo e
quella del testo di Luca. Il messaggero divino introduce Giuseppe nel
mistero della maternità di Maria". Colei che "rimanendo
vergine, è divenuta madre in virtù dello Spirito Santo, "secondo
la legge è la sua 'sposa'". Il messaggero si rivolge a Giuseppe
come allo 'sposo di Maria', a colui che a suo tempo dovrà imporre il
nome di Gesù al Figlio che nascerà dalla Vergine di Nazareth, a lui
sposata. Parimenti, Maria non è sola nella sua peregrinazione della
fede: "All'inizio di questa peregrinazione la fede di Maria si
incontra con la fede di Giuseppe.
Riguardo
al mistero "nascosto da secoli nella mente di Dio" (cfr. Ef
3, 9), Giuseppe ne "diviene un singolare depositario, come lo
divenne Maria, in quel momento decisivo che dall'Apostolo è chiamato
'la pienezza del tempo'". "Di questo mistero divino
Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario. Insieme con Maria
ed anche in relazione a Maria egli partecipa a questa fase culminante
dell'autorivelazione di Dio in Cristo, e vi partecipa sin dal primo
inizio. Tenendo sotto gli occhi il testo di entrambi gli evangelisti
Matteo e Luca, si può anche dire che Giuseppe è il primo a
partecipare alla fede della Madre di Dio, e che,
così facendo, sostiene la sua sposa nella fede della divina
annunciazione. Egli è anche colui che è posto per primo da Dio
sulla via della peregrinazione della fede sulla quale Maria
soprattutto dal tempo del Calvario e della Pentecoste andrà innanzi
in modo perfetto "La via propria di Giuseppe, la sua
peregrinazione della fede si concluderà prima... Tuttavia, la via
della fede di Giuseppe segue la stessa direzione, rimane totalmente
determinata dallo stesso mistero, del quale egli insieme con Maria
era divenuto il primo depositario".
In
nessun documento pontificio, come in questo, compare tanto
insistentemente l'espressione "insieme con Maria", quasi a
rimarcare che l'Incarnazione non si è realizzata in Maria come in un
essere isolato, staccato e separato dal contesto della realtà umana,
nel quale, invece, è perfettamente inserita. Non a caso, infatti, il
primo sottotitolo dell'Esortazione apostolica è: "Il matrimonio
con Maria". L'umanità non è un enorme piedistallo, di cui
Maria è la statua; essa è piuttosto paragonabile ad un immenso
gambo, con stelo e foglie, di cui Maria è il fiore. "Figlia di
Adamo", "unita, nella stirpe di Adamo, con tutti gli uomini
bisognosi di salvezza", ella è solidale con tutti gli uomini.
Il
concepimento di Gesù è sì avvenuto in modo verginale (cf. Mt 1,
18-25; Lc 1, 26-38), ma pur tuttavia nel contesto di un matrimonio,
nel quale Maria è la sposa e Giuseppe lo sposo (cf. Mt 1, 16.18ss.
24; Lc 1, 27. 2.5). "Fattosi veramente uno di noi, in tutto
simile a noi, fuorché nel peccato" (cfr Eb 4, 15), "Gesù
è entrato nella storia degli uomini attraverso la famiglia... una
via dalla quale l'essere umano non può distaccarsi".
SPOSA DI UN UOMO CHIAMATO GIUSEPPE
E'
significativo il fatto che Paolo VI, nell'Esortazione apostolica
Marialis cultus, invitando i fedeli a riprodurre le virtù di Maria,
elenca tra queste il suo "forte e casto amore sponsale" .
Lo stesso Documento, considerando Maria "quale nuova Donna e
perfetta cristiana, che riassume in sé le situazioni più
caratteristiche della vita femminile, perché Vergine, Sposa, Madre"
, invita la donna contemporanea a rendersi conto che la scelta dello
stato verginale da parte di Maria, che nel disegno di Dio la
disponeva al mistero dell'Incarnazione, non fu un atto di chiusura ad
alcuno dei valori dello stato matrimoniale, ma costituì una scelta
coraggiosa, compiuta per consacrarsi totalmente all'amore di Dio".
Se la donna Maria ha potuto realizzarsi fino alla perfezione
assegnatale da Dio, ciò non è avvenuto senza la libera e meritoria
collaborazione di San Giuseppe, rimanendo vero che rutta l'azione di
Dio nella storia degli uomini rispetta sempre la libera volontà
dell'io umano. Ne segue che la condotta di San Giuseppe è stata un
coefficiente necessario in relazione alla grandezza e alla missione
di Maria e che il titolo "iustus"", che lo Spirito
Santo gli attribuisce, illumina il profondo sì" contenuto
nell'ordine sponsale. San Giuseppe è stato fedele a questo "sì",
vivendo esemplarmente il dono di sé a Maria; la Chiesa glielo ha
riconosciuto, definendolo "virum Mariae" (Mt 1,16), ovviamente un titolo
di grande onore, conoscendo la considerazione nella quale era tenuta
Maria. Libera Maria, dunque; ugualmente libero Giuseppe, unito a
Maria da un "vincolo di carità" talmente perfetto da
consentire l'unione dei due aspetti del dono di sé, la verginità e
il matrimonio, secondo le esigenze della divina Presenza alla quale
il dono era finalizzato.
Il
mistero del "principio", al quale si richiama continuamente
Giovanni Paolo II, sottolinea che l'uomo e la donna "furono
reciprocamente affidati l'uno all'altro come persone fatte a immagine
e somiglianza di Dio stesso. In tale affidamento è la misura
dell'amore, dell'amore sponsale: per diventare un dono sincero l'uno
per l'altro, bisogna che ciascuno dei due si senta responsabile del
dono. Questa misura è destinata a tutti e due uomo e donna fin dal
principio".
"Maria
fin dal primo momento della sua maternità divina si inserisce nel
servizio messianico di Cristo". Il testo evangelico fa notare,
tuttavia, che Maria si inserisce in tale servizio ,essendo sposa di
un uomo chiamato Giuseppe" (cfr. Lc 1, 27) e che ella ne è ben
consapevole. La sua domanda all'angelo: "Come avverrà questo?
Non conosco uomo" (cfr. v. 34) non nega, infatti, la realtà della
sua unione coniugale, ma rivela un proposito di verginità, la cui
possibilità in quel contesto si può spiegare solo con un precedente
dono di sé da parte di Giuseppe. Il fatto che Maria accetti la
divina maternità senza chiedere il previo consenso di Giuseppe è la
dimostrazione di quanto ella fosse consapevole della illimitata
dimensione del dono di sé ricevuta da Giuseppe, così da poter
disporre liberamente di se stessa; Maria, sa che Dio ha su di lei
ogni diritto e che è desiderio profondo di Giuseppe che ella sia
tutta di Dio. Agire in questo modo riguardo a Giuseppe non è
mancanza di delicatezza, ma segno di fiducia. Dio deve sempre passare
per primo, e questa è la volontà stessa del cuore di Giuseppe,
altrimenti egli non sarebbe lo sposo di Maria".
Riflettendo
sulla verginità di Maria e sui mutui doveri dei coniugi, per cui uno
non può far voto di continenza senza il consenso dell'altro,
l'Angelico ne deduce che Maria deve essersi consacrata a Dio "assieme
a Giuseppe".
Essendo
la verginità donazione a Dio (cf. 1 Cor 7, 32), se Dio ha voluto il
matrimonio verginale di Maria e Giuseppe, ciò fu perché si
aiutassero reciprocamente a donarsi insieme a Dio. San Tommaso
afferma in più luoghi la verginità di Giuseppe, fondandola con San
Girolamo su due ragioni: "perché non è scritto che egli abbia
avuto un'altra moglie e perché l'infedeltà non è attribuibile al
santo personaggio".
La
missione e la dignità di Maria, tali da esigere che "la
verginità dovette risaltare in modo speciale nella Madre di Dio" , richiedevano, infatti supposta la necessità del matrimonio per
l'onorato inserimento del Verbo di Dio nella famiglia umana e per il
suo riconoscimento come "figlio di Davide" che il proposito
di conservare la verginità fosse reciproco, non potendo mancare tra
i due coniugi la più perfetta affinità spirituale, richiesta dalla
perfezione di quel matrimonio.
L'AMORE CONIUGALE INTENSO E CASTO
Se
Maria ama con più amore di carità coloro che sono migliori presso
Dio, chi è migliore del suo sposo Giuseppe, che le fu dato come
aiuto a lei simile e che dopo di lei è il più gradito a Dio?
Secondo Bernardino da Busto, tra Maria e Giuseppe vi fu un amore
indicibile e santissimo; infatti, dopo Cristo suo figlio, la Vergine
purissima nessun uomo o altra creatura amò così come San Giuseppe e
Giuseppe amò la beata Vergine sopra ogni pura creatura" .
Maria
certamente riconosceva che doveva a Giuseppe, a motivo del dono di sé
che egli le faceva quotidianamente condividendone la verginità, se
aveva potuto essere la "serva del Signore", divenendone la
madre per opera dello Spirito Santo. Come non considerare, allora,
l'amore di Maria per Giuseppe? L'amore di Maria per Giuseppe è un
argomento poco trattato, ma non per questo meno reale.
Francisco
Suàrez, partendo dal presupposto che la parte della santità e della
virtù della moglie amare suo marito", ne deduce che poiché la
beata Vergine fu perfettissima in tutto, "si distinse, quindi,
anche in questo amore verso Giuseppe". Parimenti S. Barradas:
"Che cosa di più sublime si può trovare di questa grande
familiarità? Nel mondo non ci fu nessuna creatura che la Vergine
amasse con maggiore amore che il suo coniuge, nessuna con la quale
trattasse più familiarmente che con lui". Seguendo ancora San
Tommaso, "non solo è proprio dell'amicizia che uno riveli
all'amico i suoi segreti a motivo dell'affetto che li unisce, ma la
stessa unità richiede che egli partecipi all'amico anche ciò che
ha; perché, ritenendo l'amico come un altro se stesso, è necessario
che gli venga incontro come a se stesso, comunicandogli le proprie
cose". "E verosimile che la beata Vergine abbia desiderato
esimi doni di grazie e aiuti per il suo sposo, che amava in modo
singolare, e li abbia impetrati con le sue preghiere. Infatti, se è
vero come è vero, che uno dei mezzi più efficaci per ottenere da
Dio i doni della grazia è la devozione verso la Vergine e la sua
intercessione, chi può credere che il santissimo Giuseppe,
dilettissimo alla Vergine e devotissimo, non abbia ottenuto per suo
mezzo l'esimia perfezione della santità? Se i devoti di Maria fanno
tanti mirabili progressi nella santità, "quanti ne avrà fatti
colui che meritò di vivere con lei molti anni e di trattare con lei
familiarmente?"
San
Bernardino da Siena compendia tutto l'argomento nella seguente
riflessione: "Poiché la Vergine sapeva quanta fosse l'unità
matrimoniale nell'amore spirituale e sapeva che Giuseppe le era stato
dato in sposo dallo Spirito Santo come fedele custode della sua
verginità e partecipe con lei nell'amore della carità e
nell'ossequiosa sollecitudine verso la divinissima prole di Dio,
credo perciò che amasse San Giuseppe sincerissimamente e con
l'affetto di tutto il cuore. Poiché tutto quanto è della moglie è
anche del marito, credo che la beata Vergine offrisse
liberissimamente a Giuseppe il tesoro del suo cuore, quanto egli ne
poteva ricevere".
Maria
è stata certamente per Giuseppe una fonte di benedizioni e di
grazie. La delicatezza d'animo di Maria la portava alla riconoscenza.
Le attenzioni di Giuseppe provocavano in lei "un amore
incredibile, che la Vergine rendeva noto al marito in ogni modo. E'
ragionevole che la Beata Vergine abbia servito il suo sposo, lo abbia
obbedito prontamente, abbia parlato con lui ogni giorno in modo
dolcissimo e amorevolissimo". Poiché Maria era la tesoriera
della grazia divina, umilmente e confidenzialmente apriva a Giuseppe
il tesoro del proprio cuore ripieno di doni celesti e glieli
comunicava. Infatti, "se la Beata Vergine non lascia senza
ricompensa un'Ave Maria, con quanta cordiale gratitudine rispondeva a
colui che vedeva faticare così sollecitamente, così ossequiosamente
e fedelmente per nutrire lei e il suo diletto figlio? Soprattutto
considerava la Beata Vergine che questo Santo per conservare la vita
a Gesù si esponeva a tanti pericoli, mentre cioè lo conduceva e lo
riconduceva dall'Egitto, in Gerusalemme per le solennità della
legge, e mentre era con lui in altri diversi luoghi".
LA CONCORDIA DEI RECIPROCI AFFETTI
Come
non presupporre per il matrimonio più ben riuscito della storia,
perché finalizzato dalla stessa sapienza di Dio all'Incarnazione, la
massima affinità spirituale tra i due coniugi, che si identifica con
l'amicizia? Secondo San Tommaso, "la massima amicizia sembra
essere quella tra l'uomo e la donna; si riuniscono non solo nell'atto
dell'unione sessuale... ma anche nella piena partecipazione di tutta
l'intimità domestica”. Egli distingue accuratamente tra l'amore di
amicizia e concupiscenza: Non un amore qualsiasi è propriamente
amicizia, ma quello che è unito alla benevolenza, quando cioè
amiamo uno volendogli lei bene. Se invece non vogliamo del bene agli
esseri amati, ma vogliamo il loro bene per noi, non si tratta allora
di amore di amicizia, ma di concupiscenza... Anzi, per l'amicizia non
basta neppure la benevolenza, in quanto si richiede anche l'amore
scambievole.
Gli
effetti dell'amicizia sono molteplici: "Qualsiasi amico vuole
anzitutto che il suo amico esista e viva; in secondo luogo gli
desidera del bene; in terzo luogo compie del bene a suo vantaggio, in
quarto luogo sta volentieri con lui, provando gioia e tristezza nelle
stesse circostanze. In base a questo i buoni si amano secondo l'uomo
interiore, che vogliono conservare nella sua integrità; ne
desiderano il bene, cioè il bene spirituale, e si impegnano a
raggiungerlo con le opere; ci tornano volentieri con il cuore, perché
trovano in esso buoni pensieri per il presente, il ricordo del bene
compiuto, la speranza dei beni futuri, provandone diletto; similmente
non sopportano tra di loro dissensi della volontà, perché tutta la
loro anima tende all'unità".
L'amore
di amicizia, che caratterizza i coniugi, suppone la somiglianza o la
richiede. "Per il fatto che due sono simili, quasi da avere lo
stesso essere, sono in qualche modo uno in quell'essere... E perciò
l'affetto di uno tende verso l'altro come a se stesso e vuole per lui
il bene come a se stesso". Se questa somiglianza, infatti, non è
perfetta, l'amore di amicizia degenera in amore di concupiscenza, che
è "l'amore dell'utile e del dilettevole".
Accettate
queste premesse, San Giuseppe come vero sposo della più santa delle
creature, non poté non avere un accrescimento continuo di virtù,
dovuto alla sua familiarità con Maria. Infatti, "poiché la
vera amicizia si fonda sulla virtù, ciò che nell'amico è contrario
alla virtù impedisce l'amicizia, e ciò che è virtuoso la
favorisce"; inoltre, "l'amore di un bene giusto perfeziona
e migliora l'amante".
C.
Sauvé osserva conseguentemente che "San Giuseppe non ammirava
in Maria solo un modello estasiante di preghiera, di adorazione...,
al quale amava tanto unire la sua preghiera, ma al modello creato più
perfetto per lui e per lui più persuasivo di ogni virtù. La fede,
la speranza, la carità, l'umiltà, la purezza, la forza, la prudenza
risplendevano in lei, a volte con una parola discreta e penetrante,
sempre con il suo atteggiamento, azioni e sacrifici".
IL GRADO SUPREMO DEL DONO DI SE'
Il
matrimonio di Maria con Giuseppe, che era destinato ad accogliere ed
educare Gesù, comportava necessariamente la massima espressione
dell'unione coniugale, ossia il grado supremo del dono di sé. La
verginità, che esprime e garantisce l'assoluta gratuità del dono,
va dunque candidamente ammessa in quel matrimonio, riconoscendo che
essa non solo non compromette l'essenza del matrimonio e della
paternità, ma la evidenzia e la difende, secondo il duplice assioma
agostiniano: "sposo tanto più vero quanto più casto" e
"padre tanto più vero quanto più casto".
Il
sacrificio totale di sé che Giuseppe compie nei riguardi di Maria è
la prova più evidente della gratuità del suo dono, resa possibile
in lui da una "libertà"" dal peccato (cfr. Gv 8,
34s.) proporzionata al suo ruolo paterno, che lo colloca "il più
vicino possibile a Cristo" e, quindi, all'azione dello Spirito
Santo, che è somma nell'incarnazione del Verbo: "L'incarnazione
del Verbo è l'opera più grande che Dio abbia mai compiuto al di
fuori di sé, alla quale concorsero talmente tutti i divini
attributi, che non è possibile anche solo immaginarne una maggiore,
ed è in pari tempo l'opera per noi più salutare". Esecutore
obbediente del comando divino: "Tieni senza esitare la tua sposa
Maria" (Mt 1, 20), Giuseppe ha certamente accolto la sposa per
se stessa e, conseguentemente, ""non la conobbe" (Mt
1, 25), nel pieno rispetto del progetto di Dio su di lei, che era
diverso da quello di Eva.
Giuseppe
e Maria hanno insieme integralmente vissuto l'esperienza del dono,
scambiandosi il dono sincero della propria persona e vivendo in modo
singolare, in tutta la sua pienezza, la stessa libertà del dono, che
sta alla base del significato sponsale del corpo, ossia la capacià
di esprimere l'amore: "Quell'amore appunto nel quale
l'uomo-persona diventa dono e mediante questo dono attua il senso
stesso del suo essere ed esistere" .
Lo
stesso testo evangelico, che afferma il concepimento di Gesù per
opera dello Spirito Santo (cfr. Mt 1, 18), non estranea "Giuseppe,
suo sposo" (v. 19) dall'avvenimento, ma intenzionalmente ve lo
coinvolge, come è naturale che sia in un matrimonio che è stato
predisposto da Dio per l'invio del Figlio "nato da donna"
(Gal 4, 4). Lo sposo di Maria non è superfluo nel Vangelo. Non è
ammissibile, infatti, che il suo consenso, previsto dal piano di Dio
per l'inserimento ordinato del Verbo di Dio come "figlio di
Davide" nella famiglia umana, abbia potuto mancare. D'altra
parte, neppure la paternità di Gesù è stata imposta a Giuseppe:
Questa procreazione del bambino Gesù in te, o Maria, avvenne per
opera dello Spirito Santo, ma col vero consenso, anche se
interpretativo, di Giuseppe tuo marito: egli voleva, infatti che si
facesse la volontà di Dio in tutto, essendo giusto". Come Maria
era stata preordinata al consenso per l'Incarnazione, così Giuseppe
è stato preordinato al matrimonio con Maria e a tutto quanto la
riguardava come sposa.
"Maria
e Giuseppe non sono stati preordinati isolatamente. Dio nel suo amore
ha predestinato Maria per San Giuseppe, San Giuseppe per Maria, tutti
e due per Gesù. Se Dio ha pensato con tanto amore a Maria come madre
del Redentore, ciò non fu mai indipendentemente dal suo matrimonio
verginale con Giuseppe; egli non ha mai pensato a Giuseppe se non per
Maria e per il suo divin Figlio, che doveva nascere verginalmente in
questo matrimonio". "Maria era stata creata, formata,
ornata da Dio di tutte le virtù in vista di Giuseppe, nello stesso
tempo che in vista di Gesù... Mai due creature sono state così ben
fatte una per l'altra come Maria e Giuseppe: né Adamo ed Eva, né
Abramo e Sara, né Giacobbe e Rachele, ecc. Essi dovevano avere,
insieme e in comune, per fine Gesù".
GLI STRUMENTI PIU' SENSIBILI DELLO SPIRITO SANTO
Quali
conseguenze si possono dedurre dal singolarissimo amore sponsale di
Giuseppe verso Maria, considerato che il "dono sponsale di sé"
è la massima espressione dell'amicizia, se vissuto appunto nella sua
pienezza, ossia nella libertà del dono?
L'amore
di amicizia suppone la benevolenza, che si ha quando amiamo uno
volendo il suo bene. Quando, invece, non vogliamo il bene dell'essere
amato, ma vogliamo il suo bene per noi, l'amore di amicizia è
sostituito dall'amore di concupiscenza, che è l'amore dell'utile e
del dilettevole.
Si
tratta di due amori completamente diversi nella loro natura:
nonostante la loro apparente somiglianza, gli effetti non tardano a
mostrarne la differenza, come già accade tra un progetto originale e
la sua imitazione. Mentre l'amore di amicizia dà all'unione
coniugale unità e compattezza, l'amore dell'utile e del dilettevole
si insinua nell'amore coniugale come una venatura che, qualora
diventi marcata e profonda, lo compromette irrimediabilmente.
Nella
Madre di Dio, a motivo del suo privilegio di Immacolata Concezione,
la concupiscenza non esisteva e, quindi, il suo amore di amicizia era
garantito. Che cosa dire di Giuseppe? Leone XIII non trascura una
questione così importante e scrive: "E' certo che la dignità
di Madre di Dio poggia sì alto, che nulla vi può essere di più
sublime; ma poiché tra la beatissima Vergine e Giuseppe fu stretto
un nodo coniugale, non c'è dubbio che a quell'altissima dignità,
per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature,
egli si avvicinò quanto mai nessun altro. Poiché il connubio è la
massima società e amicizia, a cui di sua natura va unita la
comunione dei beni, ne deriva che, se Dio ha dato come sposo Giuseppe
alla Vergine, glielo ha dato non solo a compagno della vita,
testimone della verginità e tutore dell'onestà, ma anche perché
partecipasse, per mezzo del patto coniugale, all'eccelsa grandezza di
lei".
Da
parte sua, Giovanni Paolo II, considerando che "la spirituale
intensità dell'unione e del contatto tra le persone dell'uomo e
della donna provengono in definitiva dallo Spirito, che dà la vita
(cf. Gv 6, 63)", ne desume, riguardo a Giuseppe, che anche il
suo amore di uomo viene rigenerato dallo Spirito Santo":
"Giuseppe, ubbidiente allo Spirito, proprio in esso ritrovò la
fonte dell'amore, del suo amore sponsale di uomo, e fu questo amore
più grande di quello che l'uomo giusto poteva attendersi a misura
del proprio cuore umano".
Lo
Spirito Santo, al quale è attribuito un così grande prodigio (cfr.
Mt 1, 18.20; Lc 1, 35), mentre opera in Maria, "a piena di
grazia" (Lc 1, 28), non può non operare in Giuseppe, dal
momento che il legame sponsale esistente tra Maria e Giuseppe viene
confermato: "il messaggero chiaramente dice a Giuseppe: 'Non
temere di prendere con te Maria, tua sposa'. Pertanto, ciò che era
avvenuto prima le nozze con Maria era avvenuto per volontà di Dio e,
dunque, andava conservato. Nella sua divina maternità Maria deve
continuare a vivere come 'una vergine, sposa di un uomo' (cfr. Lc 1,
27)" .
Ciò
significa che quest'uomo 'giusto' che, nello spirito delle più
nobili tradizioni del popolo eletto, amava la Vergine di Nazareth e a
lei si era legato con amore sponsale, è nuovamente chiamato da Dio a
questo amore".
Poiché
i due momenti vissuti dall'uomo prima e dopo il peccato originale
rimangono contraddistinti da una diversa sensibilità interiore verso
i doni dello Spirito Santo, è proprio nell'ottica dello Spirito
Santo che dobbiamo considerare il matrimonio di Maria con Giuseppe.
San Bonaventura è esplicito: "Tutto ciò che riguarda quel
matrimonio accadde per intima disposizione dello Spirito Santo".
E'
fuori dubbio che l'attività dello Spirito Santo non trovò strumenti
più sensibili di Maria e Giuseppe: se in Maria il frutto del
concepimento viene definito espressamente opera dello Spirito Santo
(cfr. Mt 1, 20; Lc 1, 35), come non riconoscere che tutto ciò che ad
esso si riferiva, e in particolare il matrimonio, ne subì parimenti
lo speciale influsso? E' alla luce dello Spirito Santo che va
misurata, perciò, la statura morale di San Giuseppe, ossia la sua
santità, considerando che egli fu chiamato da Dio, in vista della
paternità di Gesù, ad essere il degno sposo di Maria.
LO CHIAMO' GESU'
"San
Giuseppe è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e
la missione di Gesù mediante l'esercizio della sua paternità".
Sul piano legale, il diritto alla paternità viene fatto derivare a
Giuseppe dal fatto di essere lo sposo di Maria, stato giuridico
ripetutamente sottolineato nel vangelo (cfr.Mt 1, 16.18.19.20.24).
Giovanni
Paolo II conferma l'importanza di questo titolo, ricordando che
"anche per la Chiesa, se è importante professare il
concepimento verginale di Gesù, non è meno importante difendere il
matrimonio di Maria con Giuseppe, perché giuridicamente è da esso
che dipende la paternità di Giuseppe". Poiché il vincolo
matrimoniale esiste prima del concepimento verginale di Gesù (cfr.
v. 18) e permane anche dopo, perché l'angelo ordina a Giuseppe di
tenere con sé Maria (cfr. v. 20) e questi acconsente (cfr. v. 24),
la sua paternità legale è fuori discussione: Giuseppe ha
giuridicamente il diritto, come sposo di Maria (cfr. v. 16), di
imporre il nome al Bambino (cfr. v. 25). Per quanto riguarda il piano
personale, Giuseppe è "giusto"", perché non si è
arrogato il diritto di una paternità di origine divina (cfr. v.18):
è stato Dio stesso a conferirgli l'autorità paterna sul proprio
figlio. Giuseppe, da parte sua, non solo non voleva appropriarsi tale
altissimo onore, ma anzi aveva deciso addirittura di ritirarsi (cfr.
v. 19). E' stato il messaggero divino, infatti, a ordinargli di
tenere con sé la sua sposa e di imporre il nome al Bambino: "Lo
chiamerai Gesù" (cfr. v. 21), conferendogli così, da parte di
Dio, l'autorità paterna. L'episodio termina proprio con l'esecuzione
di quest'ordine: "Lo chiamò Gesù" (v. 25), che comporta,
da parte di Giuseppe, l'assunzione dell'esercizio della sua
paternità.
Giustamente
Sant'Agostino osserva: "La Scrittura sa che Gesù non è nato
dal seme di Giuseppe, perché a lui preoccupato circa l'origine della
gravidanza di Maria è detto: 'Viene dallo Spirito Santo'. E tuttavia
non gli viene tolta l'autorità paterna, dal momento che gli è
ordinato di imporre il nome al Bambino". Anche Giovanni Paolo II
commenta: "Imponendo il nome, Giuseppe dichiara la propria
legale paternità su Gesù e, pronunciando il nome, proclama la di
lui missione di salvatore".
La
paternità di Giuseppe, tuttavia, non è vera solo dal punto di vista
legale. Lo stesso Dio Padre, che ha chiamato il "figlio di
Davide" ad esercitarla (cfr. Mt 1, 20s.), lo ha arricchito,
infatti, anche dell'amore che la costituisce: Poiché non è
concepibile che a un compito così sublime non corrispondano le
qualità richieste per svolgerlo adeguatamente, bisogna riconoscere
che Giuseppe ebbe verso Gesù 'per uno speciale dono del Cielo, tutto
quell'amore naturale, tutta quell'affettuosa sollecitudine che il
cuore di un padre possa conoscere'.
Con
la potestà paterna su Gesù, Dio ha anche partecipato a Giuseppe
l'amore corrispondente, quell'amore che ha la sua sorgente nel Padre,
'dal quale prende nome ogni paternità nei cieli e sulla terra' (Ef
3, 15)". Con l'altissimo ufficio di esercitare su Gesù
l'autorità paterna, il Padre celeste ha reso partecipe Giuseppe di
quell'amore che, diffondendosi dalla sorgente divina in ogni
paternità, doveva essere a lui comunicato in sommo grado, perché
destinato a un Figlio che rimaneva unico per entrambi, il Verbo di
Dio incarnato.
Impossibile,
perciò, definire l'amore paterno di Giuseppe, che confina, da una
parte, con l'amore partecipatogli dal Padre e, dall'altra parte con
il contraccambio dell'amore filiale di Gesù. "Poiché l'amore
'paterno' di Giuseppe non poteva non influire sull'amore 'filiale' di
Gesù e, viceversa, l'amore 'filiale' di Gesù non poteva non
influire sull'amore 'paterno' di Giuseppe, come inoltrarsi nelle
profondità eli questa singolarissima relazione?"
PADRE NON PER LA CARNE, MA PER LA CARITA'
Poiché
la verginità di Maria non può prescindere da quella di Giuseppe, il
frutto della verginità di Maria va considerato comune ad entrambi.
Sant'Agostino insiste nell'affermare che, anche se è la sola
verginità di Maria che ha concepito e partorito Gesù, egli è nato,
tuttavia, per tutti e due: "Ciò che lo Spirito Santo ha
operato, lo ha operato per tutti e due... Lo Spirito Santo,
riposandosi sulla giustizia di entrambi, ad entrambi ba donato il
figlio; ha operato in quel sesso al quale toccava partorirlo, ma così
che nascesse anche per il marito". "A motivo di quel
matrimonio fedele meritarono entrambi di essere chiamati genitori di
Cristo; non solo lei, madre, ma anche lui, suo padre".
Sant'Agostino
non solo non accetta che l'assenza della concupiscenza della carne
sia motivo per escludere Giuseppe dalla paternità di Gesù, che anzi
"la maggiore purezza confermi la paternità, perché non ci
riprenda la stessa santa Maria. Ella, infatti, non volle preporre il
proprio nome a quello di suo marito, ma disse: 'Tuo padre ed io...'
Non facciano, dunque, i maligni mormoratori quello che la casta
coniuge non fece".
Maria,
da parte sua, riconosce, dunque, pienamente la paternità di
Giuseppe. Le parole rivolte a Gesù dopo il suo ritrovamento nel
tempio, con le quali ella dà la precedenza a Giuseppe (cfr. Lc 2,
48), non devono essere intese solo come forma di cortesia o
espressione di umiltà, ma come chiaro riconoscimento di un diritto.
La paternità di Giuseppe, infatti, era indispensabile a Nazareth per
onorare la maternità di Maria; era indispensabile per il
riconoscimento legale del bambino attraverso l'imposizione del nome
(cfr. Mt 1, 25); era indispensabile a Betlemme per inserire il
neonato bambino come "figlio di Davide,, nei registri
dell'Impero romano (cfr. Lc 2, 5); era indispensabile a Gerusalemme
per presentare nel tempio il "primogenito" (cfr.Lc 2,22s.),
l'unico per il quale il riscatto non sarà liberatorio, dovendo Gesù
per tutta la vita "occuparsi delle cose del Padre suo"
(cfr. 2,49); era indispensabile, in definitiva, per la crescita di
Gesù "in sapienza, in età e in grazia" (cfr. Lc 2,52).
Insomma, è a Giuseppe che è toccato l'alto compito "di
allevare, ossia di nutrire, di vestire e di istruire Gesù nella
Legge e in un mestiere, in conformità ai doveri assegnati al padre".
Se
d'educatore è una persona che 'genera' in senso spirituale"; se
l'educazione è una comunicazione vitale, che non solo costruisce un
rapporto profondo tra educatore ed educando, ma li fa partecipare
entrambi alla verità e all'amore"; se, infine, "maestri di
verità dei propri figli, i genitori l'apprendono da loro",
Giuseppe ha certamente meritato di essere invocato con il titolo di
“Educator optime".
L'orizzonte
della paternità va, dunque, allargato: essa non va negata alla
generazione, ma questa, tuttavia, non può essere neppure considerata
come esauriente. La paternità, infatti, va estesa dalla generazione
all'accoglienza e dall'accoglienza all'educazione, secondo
l'insegnamento di San Tommaso: la prole non è detta bene del
matrimonio solo in quanto è generata per mezzo di esso, ma in quanto
nel matrimonio viene accolta ed educata”. Ciò è richiesto dal
fatto che il bene della prole non può essere limitato solo
all'essere, ma deve raggiungere l'essere perfetto: 1a natura non
intende solo la generazione della prole, ma il suo sviluppo e la sua
promozione fino allo stato perfetto dell'uomo in quanto uomo, che è
stato di perfezione. Giovanni Paolo II insiste a ragione su questo
aspetto e ne allarga l'orizzonte: "Il nuovo essere umano è
chiamato all'esistenza come persona, è chiamato alla vita nella
verità e nell'amorè. Tale chiamata non si apre soltanto a ciò che
è nel tempo, ma in Dio si apre all'eternità... Dio vuole l'uomo
come un essere simile a sé, come persona. Quest'uomo, ogni uomo, è
creato da Dio 'per se stesso”
Il
riconoscimento del diritto del generato a divenire essere perfetto e
di raggiungere lo stato di perfezione suppone, dunque, i relativi
diritti e doveri da parte del padre almeno per tutto l'arco di tempo
che va dal concepimento allo sviluppo completo della persona
generata.
La
singolare paternità di San Giuseppe costituisce un caso quanto mai
attuale ed emblematico in proposito. Già Sant'Agostino, infatti,
considerando come Dio avesse conferito a Giuseppe l'autorità paterna
su Gesù, nonostante non fosse stato da lui generato, indicava
nell'amore la vera sorgente della paternità: "Giuseppe viene
confermato inequivocabilmente padre non per la carne, ma per la
carità. E', dunque, così che egli è padre. Gli evangelisti,
infatti, fanno l'elenco genealogico molto cautamente e prudentemente
attraverso di lui... Perché? Perché padre. E perché padre? Perché
tanto più sicuramente padre, quanto più castamente padre... Il
Signore non viene dal seme di Davide, benché fosse così ritenuto, e
tuttavia alla pietà e carità di Giuseppe è nato da Maria vergine
il figlio, parimenti Figlio di Dio".
LA DOCILE OBBEDIENZA DEL FIGLIO
Il
comportamento di Gesù e la sua predicazione, che sottolineano la
verità fondamentale della responsabilità dell'uomo nei confronti
della donna per la sua dignità, maternità e vocazione, suppongono
ed esprimono la sua esperienza vissuta nella casa di Nazareth, dove
Giuseppe aveva ampiamente dimostrato con il dono di sé che Maria non
era per lui un oggetto, ma il cosoggetto della sua esistenza.
Il
modello dello sposo, che Gesù aveva avuto modo di esperimentare e
ammirare in San Giuseppe durante i lunghi anni della sua vita
familiare, doveva essere stato totalmente positivo, se lui stesso se
ne riveste qualificandosi come "sposo" (Mt 9, 15) nella
discussione che i discepoli di Giovanni suscitano a motivo
dell'atteggiamento dei suoi discepoli. Giovanni Paolo II commenta:
"Additava così il compimento nella sua persona dell'immagine di
Dio-sposo, utilizzata già nell'Antico Testamento, per rivelare
pienamente il mistero di Dio come mistero di Amore. Qualificandosi
come 'sposo', Gesù svela dunque l'essenza di Dio e conferma il suo
amore immenso per l'uomo. Ma la scelta di questa immagine getta
indirettamente luce anche sulla verità profonda dell'amore sponsale.
Usandola infatti per parlare di Dio, Gesù mostra quanta paternità e
quanto amore di Dio si riflettano nell'amore di un uomo e di una
donna che si uniscono in matrimonio".
La
vocazione di Giuseppe non ha creato solamente in lui il degno sposo
di Maria, perché fosse l'aiuto simile" (cfr. Gn 2,18) nel grado
richiesto dalla dignità della sposa eletta per essere Madre di Dio,
ma ha anche creato in lui un cuore di padre, nel quale il figlio
incarnato di Dio potesse vedere adeguatamente rispecchiato quel Padre
che egli nella sua Persona divina rifletteva dall'eternità. Non
erano solo i contemporanei di Gesù a considerarlo "figlio di
Giuseppe" (Gv 1, 45; Lc 3, 23); prima ancora e più
profondamente di loro era Gesù stesso a considerarsi tale
nell'ambito concreto della vita domestica, da lui stesso scelta e
voluta nel rispetto della realtà dell'Incarnazione, decretata per la
Redenzione.
La
severa proibizione di Gesù: "Non chiamate nessuno 'padre' sulla
terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo"
(Mt 23, 9), evidentemente non intende abolire una relazione voluta
dalla natura e sancita dal Decalogo, ma mira a mettere in guardia i
discepoli dall'usurpare un'autorità che appartiene solo a Dio.
L'obbedienza
di Gesù nella casa di Nazareth (cfr. Lc 2, 51) non prepara, ma fa
già parte dell'obbedienza, che caratterizza appunto tutta la vita di
Gesù in terra, per concludersi con l'atto supremo della morte:
"Apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente
fino alla morte" (Fil 2, 8).
"Riguardo
a tutto questo periodo ci è rivelato che Gesù era 'sottomesso' ai
suoi genitori e che cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio
e agli uomini' (Lc 2, 51s.).
Nella
sottomissione di Gesù a sua madre e al suo padre legale si realizza
l'osservanza perfetta del quarto comandamento. Tale sottomissione è
l'immagine del tempo dell'obbedienza filiale al suo Padre celeste.
La
quotidiana sottomissione di Gesù a Giuseppe e a Maria annunziava e
anticipava la sottomissione del Giovedì Santo: 'Non... la mia
volontà...' (Lc 22, 42). L'obbedienza di Cristo nel quotidiano della
vita nascosta inaugurava già l'opera di restaurazione di ciò che la
disobbedienza di Adamo aveva distrutto (cfr. Rm 5, 19). "Nella
sua vita nascosta, Gesù con la sua sottomissione (cfr. Lc 2, 51)
ripara la nostra insubordinazione...".
Nello
stesso contesto della vita nascosta di Gesù, troviamo citato il
discorso tenuto da Paolo VI, il 5 gennaio 1964, a Nazareth: "Nazareth
è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè
la scuola del Vangelo... Essa ci insegna il modo di vivere in
famiglia. Nazareth ci ricordi cos'è la famiglia, cos'è la comunione
d'amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e
inviolabile".
TUO PADRE ED IO
Trattando
"I Misteri della vita nascosta di Gesù", il Catechismo
della Chiesa Cattolica evidenzia la presenza di Gesù nella vita
familiare: "Durante la maggior parte della sua vita, Gesù ha
condiviso la condizione della stragrande maggioranza degli uomini:
un'esistenza quotidiana senza apparente grandezza, vita di lavoro
manuale, vita religiosa giudaica sottomessa alla Legge di Dio (cfr.
Gal 4, 4), vita nella comunità" (CCC, 531).
L'abituale
distinzione tra vita nascosta e vita pubblica di Gesù, valida sul
piano cronologico, non lo sarebbe su quello teologico qualora
supponesse una differenza nell'efficacia redentrice del Salvatore:
tutta l'incarnazione, infatti, deve essere ritenuta come redentiva.
La grande sobrietà degli evangelisti circa gli episodi della vita di
Gesù, che precedono la sua manifestazione in occasione del battesimo
di Giovanni, non deve indurre a minimizzarne l'efficacia, ma
piuttosto ad acuire l'attenzione per comprendere il significato di un
silenzio così sorprendente proprio circa il periodo assolutamente
più lungo della presenza di Dio sulla terra.
Nel
misterioso disegno di Dio, i "quasi trent'anni" (Lc 3, 23)
della vita di Nazareth non sono una semplice attesa o anche una
preparazione, ma già "tempo di salvezza", durante il quale
il Figlio di Dio assume per redimerle, tutte le fasi e le dimensioni
della vita umana, per santificare i doveri della famiglia e del
lavoro, ossia la vita quotidiana e, in particolare, i suoi "genitori"
(Lc 2, 41). Si affaccia qui la grandezza del comportamento di Maria,
che alla scuola dell'Incarnazione personifica l'atteggiamento della
Chiesa nei riguardi di Cristo.
Nella
singolare famiglia di Giuseppe è attuata alla lettera la
rivoluzionaria legge evangelica dell'autorità, dove il primo si fa
servo di tutti (cfr. Mc 10, 43s.): Gesù, Figlio di Dio, è
sottomesso ai genitori (cfr. Lc 2, 51); Maria, Madre di Dio, è
sottomessa a Giuseppe.
L'insegnamento
di Paolo circa la posizione del marito, capo della moglie, e la
dipendenza della moglie dal marito, come la Chiesa è sottomessa a
Cristo (cfr, Ef 5, 23), era già stato esemplarmente vissuto da
Maria. E' quanto evidenzia Sant'Agostino commentando "Tuo padre
ed io" (Lc 2, 48): "Aveva meritato di partorire il Figlio
dell'Altissimo, ed era umilissima, non si preferiva al marito nemmeno
nell'ordine con cui sì nominava, dicendo: Io e tuo padre, bensì
'Tuo padre ed io', perché 'il marito è capo della moglie' (Ef 5,
23).
Gli
evangelisti considerano come esercizio dell'autorità coniugale e
paterna le decisioni che Giuseppe prende, dietro esplicito comando
angelico, di imporre il nome al Bambino, di andare in Egitto, di
tornare in Palestina, di stabilirsi a Nazareth. A Maria gli ordini
divini sono trasmessi attraverso Giuseppe, al quale ella
fiduciosamente si affida, prestandogli obbedienza.
Da
parte sua, San Giuseppe ha ben meritato tutto l'affetto e la stima di
Gesù e di Maria, lui che "aveva fatto della sua vita un
servizio, un sacrificio, al mistero dell'incarnazione e alla missione
redentrice che vi è congiunta; nell'aver usato dell'autorità
legale, che a lui spettava sulla Sacra Famiglia, per farle totale
dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell'aver convertito la
sua umana vocazione all'amore domestico nella sovraumana oblazione di
sé, del suo cuore e di ogni sua capacità, nell'amore posto a
servizio del Messia germinato nella sua casa".
Poiché
Giuseppe più di ogni altro padre ebbe sempre la consapevolezza del
servizio che ogni paternità responsabile richiede e comporta, la sua
paternità costituisce un luminoso richiamo per ogni paternità (o
maternità) umana. Questa non è per nessuno un diritto di proprietà
e non equivale neppure al più generoso paternalismo.
Il
figlio, ogni figlio, ha già un padre supremo, che si chiama Dio; la
paternità terrena che ne deriva va, perciò, esercitata come un
servizio, il massimo nel piano della creazione, destinato a
consentire al figlio di realizzarsi secondo quel progetto che non gli
può venire imposto da un uomo per quanto buono e autorevole, ma che
gli è stato fissato direttamente dal Padre che è nei cieli"
(Mt 6, 9).
Le
parole rivolte nel tempio da Gesù dodicenne ai suoi genitori:
"Perché mi cercavate...?", (Lc 2, 49) devono rinnovare nel
cuore di tutti i genitori la consapevolezza di un'autorità paterna
suprema che appartiene solo a Dio (cfr. Mt 23, 9) e che nessuno deve
usurpare.
NON SEPARARE CIO' CHE DIO HA UNITO
Da
quanto esposto risulta pienamente giustificata l'insistenza con la
quale Giovanni Paolo II sottolinea l'unione inscindibile di Giuseppe
con Maria: del mistero divino "Giuseppe è insieme con Maria il
primo depositario, "insieme con Maria ed anche in relazione a
Maria egli partecipa a questa, fase culminante dell'autorivelazione
di Dio in Cristo e vi partecipa fin dal primo inizio", "Giuseppe
è il primo a partecipare alla,fède della Madre di Dio",
"sostiene la sua sposa nella fede della divina annunciazione "Nè
colui che è posto per primo da Dio sulla via della 'peregrinazione
della fede' di Maria".
Giuseppe
non è, dunque, semplicemente accanto a Maria come muto testimone del
mistero, ma vi partecipa insieme con lei. Questa partecipazione e
unione passano attraverso il matrimonio, ossia attraverso il "sacro
vincolo di carità che strinse San Giuseppe all'Immacolata Vergine
Maria, come efficacemente si esprime Leone XIII nella preghiera "A
te, o beato Giuseppe" da recitare nel mese di ottobre al termine
del Santo Rosario.
La
realtà e il significato del matrimonio di Maria e Giuseppe nella
storia della salvezza e della Chiesa giustificano pienamente la
proposta di Giovanni Gersone di istituire la festa dello Sposalizio
di Maria con Giuseppe e la sua realizzazione, fin dal 1537, per opera
dei Francescani. Le attuali esigenze pastorali nel campo del
matrimonio e della famiglia troverebbero un valido aiuto in una nuova
celebrazione della festa, il 23 gennaio; opportunamente preparata,
offrirebbe ai sacerdoti l'occasione per presentare ai fedeli la
dottrina cristiana sul matrimonio. Il testo liturgico è già
disponibile presso la Congregazione per il Culto Divino e la
Disciplina dei Sacramenti, alla quale Diocesi e Istituzioni possono
rivolgersi per la necessaria autorizzazione. A questo punto, perché
non introdurre tale testo anche nelle Messe della Beata Vergine
Maria?
Ugualmente
utile alla pastorale coniugale sarebbe l'introduzione nelle Litanie
lauretane di una invocazione che onori Maria come sposa, ponendole
inoltre, accanto San Giuseppe, che Dio stesso le ha dato come vero e
purissimo sposo, ad es.: Amata sposa del giusto Giuseppe. Essa
andrebbe inserita prima dell'invocazione Mater Christi, per il
semplice motivo che il titolo di "Cristo" deriva a Gesù
proprio in forza del matrimonio di Maria con Giuseppe. Anche nelle
Litanie dei Santi il nome di San Giuseppe dovrebbe essere più
avvicinato a quello di Maria.
Infine,
il popolo di Dio venga abituato a pregare insieme con Maria anche San
Giuseppe, come già richiesto da Leone XIII: "Pensiamo essere
sommamente convenevole che il popolo cristiano si abitui a pregare
con singolare devozione e animo fiducioso, insieme alla Vergine Madre
di Dio, il suo castissimo sposo San Giuseppe; il che debba alla
stessa Vergine tornare accetto e caro". Sarebbe questo un modo
semplice e pratico per insegnare a non separare ciò che Dio ha
congiunto (cf. Mt 19, 6). Già l'Isolano suggeriva: "Quando
reciti il Rosario della Beata Vergine, non ti rincresca alla fine di
aggiungere qualcosa in onore del suo sposo Giuseppe: con tale gesto,
infatti, le tue opere saranno più grate a Dio".
E'
necessario in ogni caso che i propositi maturati durante l'Anno della
Famiglia si traducano in qualche forma concreta pastoralnlente
semplice ed efficace.
LA FAMIGLIA AL CENTRO DELLA NUOVA ALLEANZA
Il
rapporto del matrimonio con l'amore sponsale di Cristo per la Chiesa
(cfr. Ef 5, 32) è tale che "non si può comprendere la Chiesa
come corpo mistico di Cristo, come segno dell'Alleanza dell'uomo con
Dio in Cristo, come sacramento universale di salvezza, senza
riferirsi al 'grande mistero', congiunto alla creazione dell'uomo
maschio e femmina e alla vocazione di entrambi all'amore coniugale,
alla paternità e alla maternità".
Giovanni
Paolo II collega il "grande mistero", "con la storia
del bell'amore, che prende inizio dall'Annunciazione, in quelle
mirabili parole che l'angelo ha rivolto a Maria, chiamata a diventare
la Madre del Figlio di Dio". il fatto che come MadreVergine,
Maria diventa Madre dell'Amore", non esclude, tuttavia, la
presenza di San Giuseppe: La 'Madre del bell'amore' fu accolta da
colui che, secondo la tradizione d'Israele, era già suo sposo
terreno, Giuseppe, della stirpe di Davide". Di fronte alla sua
decisione di allontanarsi, "l'angelo del Signore gli fa sapere
che ciò non sarebbe secondo la sua vocazione, anzi sarebbe contrario
all'amore sponsale che lo unisce a Maria. Questo reciproco amore
sponsale, per essere pienamente il 'bell'amore', esige che egli
accolga Maria e il Figlio di lei sotto il tetto della sua casa, a
Nazareth. Giuseppe ubbidisce al messaggio divino e agisce secondo
quanto gli è stato comandato (cfr. Mt 1, 24). E' grazie anche a
Giuseppe che il mistero dell'Incarnazione e, insieme ad esso, il
mistero della Santa Famiglia, viene inscritto profondamente
nell'amore sponsale dell'uomo e della donna e indirettamente nella
genealogia di ogni famiglia umana. Ciò che Paolo chiamerà il
'grande mistero' trova nella Santa Famiglia la sua espressione più
alta. La famiglia si colloca così veramente al centro della Nuova
Alleanza".
La
posizione unica che la Santa Famiglia occupa riguardo a ogni famiglia
dipende dal ruolo che l'Incarnazione le ha assegnato nella dimensione
del grande mistero".
Maria
è entrata per prima in questa dimensione, e vi ha introdotto pure il
suo sposo Giuseppe. Essi sono così diventati i primi esemplari di
quel bell'amore che la Chiesa non cessa di invocare per la gioventù,
per i coniugi e per le famiglie. E quanti fra questi si uniscono con
fervore a tale preghiera!
Come
non pensare alle moltitudini di pellegrini, anziani e giovani, che
accorrono ai santuari inariani e fissano lo sguardo sul volto della
Madre di Dio, sul volto dei membri della Santa Famiglia, sui quali si
riflette tutta la bellezza dell'amore donato da Dio all'uomo?"
Siamo
nella stessa linea di pensiero di Leone XIII, il quale nella Lettera
apostolica Neminem fugit indicava nella Santa Famiglia l'augusto
ideale, in cui tutti gli uomini vedessero un assolutissimo esemplare
della società domestica e di ogni virtù e santità.
Tale
fu davvero quella Famiglia Nazaretana, nella quale era nascosto il
Sole di giustizia prima che risplendesse in piena luce a tutte le
genti: e cioè Cristo Dio Salvatore nostro con la Vergine Madre e
Giuseppe Sposo santissimo, che svolgeva il compito di padre verso
Gesù.
Nessun
dubbio che tra tutte quelle lodi, che nella società e vita familiare
provengono dalle mutue attenzioni della carità, dalla santità dei
costumi, dall'esercizio della pietà, la più eccellente d'ogni altra
sia rifulsa in quella Sacra Famiglia, che doveva essere di esempio in
tutto questo alle altre. E perciò per benigna disposizione della
Provvidenza è così costituita, che i singoli cristiani di qualunque
condizione e luogo, se le prestano attenzione, possono facilmente
trovare sprone ed invito alla pratica di qualunque virtù".
GLI
ESEMPI DELLA SANTA FAMIGLIA
La
casa di Nazareth è la scuola dove si è iniziati a comprendere la
vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. Qui si impara ad
osservare, ad ascoltare, a meditare, a penetrare il significato così
profondo e così misterioso di questa manifestazione del Figlio di
Dio tanto semplice, umile e bella. Forse anche impariamo, quasi senza
accorgercene, ad imitare.
Qui
impariamo il metodo che ci permetterà di conoscere chi è il Cristo.
Qui scopriamo il bisogno di osservare il quadro del suo soggiorno in
mezzo a noi: cioè i luoghi, i tempi, i costumi, il linguaggio, i
sacri riti, tutto insomma ciò di cui Gesù si servì per
manifestarsi al mondo.
Qui
tutto ha una voce, tutto ha un significato. Qui, a questa scuola,
certo comprendiamo perché dobbiamo tenere una disciplina spirituale,
se vogliamo seguire la dottrina del Vangelo e diventare discepoli del
Cristo. Oh! come volentieri vorremmo ritornare fanciulli e metterci a
questa umile e sublime scuola di Nazareth! Quanto ardentemente
desidereremmo di ricominciare, vicino a Maria, ad apprendere la vera
scienza della vita e la superiore sapienza delle verità divine! Ma
noi non siamo che di passaggio e ci è necessario deporre il
desiderio di continuare a conoscere, in questa casa, la mai compiuta
formazione all'intelligenza del Vangelo. Tuttavia non lasceremo
questo luogo senza aver raccolto, quasi furtivamente, alcuni brevi
ammonimenti dalla casa di Nazareth.
In
primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la
stima del silenzio, atmosfera ammirabile ed indispensabile dello
spirito: mentre siamo storditi da tanti frastuoni, rumori e voci
clamorose nella esagitata e tumultuosa vita del nostro tempo.
Oh!
silenzio di Nazareth, insegnaci ad essere fermi nei buoni pensieri,
intenti alla vita interiore, pronti a ben sentire le segrete
ispirazioni di Dio e le esortazioni dei veri maestri. Insegnaci
quanto importanti e necessari siano il lavoro di preparazione, lo
studio, la meditazione, l'interiorità della vita, la preghiera, che
Dio solo vede nel segreto.
Qui
comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazareth ci ricordi cos'è
la famiglia, cos'è la comunione di amore, la sua bellezza austera e
semplice, il suo carattere sacro ed inviolabile; ci faccia vedere
com'è dolce ed insostituibile l'educazione in famiglia, ci insegni
la sua funzione naturale nell'ordine sociale. Infine impariamo la
lezione del lavoro.
Oh!
dimora di Nazareth, casa del Figlio ciel falegname! Qui soprattutto
desideriamo comprendere e celebrare la legge, severa certo, ma
redentrice della fatica umana; qui nobilitare la dignità del lavoro
in modo che sia sentita da tutti; ricordare sotto questo tetto che il
lavoro non può essere fine a se stesso, ma che riceve la sua libertà
ed eccellenza, non solamente da quello che si chiama valore
economico, ma anche da ciò che lo volge al suo nobile fine; qui
infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro
il grande modello, il loro divino fratello, il profeta di tutte le
giuste cause che li riguardano, cioè Cristo nostro Signore.
Tratto da " La Famiglia di Gesù"
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